lunedì 14 maggio 2012

{2a PARTE} - * U N U O M O * - Oriana Fallaci

    ORIANA FALLACI


* U N  U O M O *


{2aPARTE}
D'accordo, per alcuni membri del Congresso si comportarono bene quando tu
fosti condannato. E indussero Johnson a intervenire presso Papadopulos perché
non ti fucilasse. Uhm! Senza contare che in America c'è l'Onu, che all'Onu c'è U
Thant, e che U Thant intervenne con più vigore di chiunque. Uhm! Ci sono anche
molti greci, in America. Pensa, settecentomila a New York, settecentomila a
Chicago, trecentomila a San Francisco, almeno duecentomila a Washington. Per
non dire delle altre città.
Vi sono più greci in America che in Italia e in Germania e in Svizzera messe
insieme. E con questo? I greci in Italia e in Germania e in Svizzera sono ancora
greci, parlano greco, gliene importa della Grecia. I greci in America sono ormai
americani, non parlano il greco e a loro non gliene importa nulla della Grecia.
Sbagli. Il greco lo parlano eccome. Perfino i giovani. Il mio fioraio di New York è
un greco che parla greco.
I camerieri del ristorante accanto al fioraio sono greci che parlano greco. E se tu
fossi venuto in America ti avrei portato da un mucchio di studenti greci che
parlano il greco, che sono nemici della Giunta. E poi ti avrei portato dai senatori e
dai deputati che si batterono per te. E da U Thant e da altri amici dell'Onu. E
avresti parlato nelle università. E alla televisione, e... Figurati se alla televisione
fanno parlare un tipo come me.. perché no? L'America è un paese che accoglie
chiunque, compreso chi la critica. L'America è un elefante che può permettersi
qualsiasi lusso, anche il lusso della tolleranza. E se la critichi non sente neanche
il solletico, se lo sente ne ride come di un pizzicorino sotto l'ascella. A parte il
fatto che per l'America io non sono una critica, sono un ostacolo. Cercai di
ammazzare uno dei suoi protetti, ricordi? Quando si tratta di ostacoli l'elefante
non recita commedie: travolge, schiaccia. Be', fin qui ti avevo portato, ora non
restava che lanciare l'esca vera e propria. La lanciai: Ma tu ci andresti in
America?.
perché? perché tanti non concepiscono neanche l'idea di andarci, conoscere la
sua cultura, la sua gente. Gli sembrerebbe di tradire ad andarci, e il
manicheismo... Sentii una corda vibrare. Aggrottasti la fronte: Che vuol dire
manicheismo?.Vuol dire spaccare il mondo in due, la vita in due: da una parte il
bene e dall'altra il male, da una parte il bello e dall'altra il brutto. Nero e bianco,
insomma. Uhm! Fanatismo. Sì. Dogmatismo. Sì. Non insinuerai mica che io sto
tra quelli? No, ma... Ma cosa?! Osi forse pensare che in me vi siano cortine di

ferro? E chi ha detto che non andrei in America? Io vado in America, in Russia, in
Cina, al Polo Nord, ovunque ci sia qualcosa da conoscere! Ovunque ci sia
qualcuno che mi ascolti! E chi ha detto che non posso andarci?!? Funzionava.
Perbacco, se funzionava. Nessuno l'ha detto, Alekos. Per non hai il visto e... Il
visto si chiede, si prende. Dove si chiede? Dove si prende? Ma... non so... Di solito
al consolato di Milano non ci vogliono più di dieci minuti. Bene. Fai le valigie. Le
valigie? Sì, andiamo a Milano. A Milano? Sì, e poi in America. Voglio vedere
l'elefante. Voglio conoscere quei senatori, quei deputati, quei camerieri, quei
giovani che parlano greco.
E U Thant. E quel fioraio. E chiunque sia disposto ad aiutarmi un po. Sarà un
viaggio utilissimo, com'è che non ci ho pensato prima? A Milano non volesti
entrare nemmeno in albergo, tanto fremevi di impazienza. Poiché presto
sarebbero state le cinque del pomeriggio, ora in cui gli uffici chiudevano,
lasciammo il bagaglio in portineria e corremmo subito al consolato dove il
funzionario di turno ci ricevette dinanzi alla bandiera del Leviatano che nacque
dai reietti e dai reprobi soli, sicché dimentichi sempre che oggi è un'altra cosa,
eccetera. Il funzionario di turno era un biondino dal visuccio lentigginoso e il
nasetto delicato, la qualifica di viceconsole sulla scrivania. Si chiamava Carl Mac
Cullum e aveva l'aria infastidita di chi si vede bloccare proprio al momento in cui
dovrebbe correre a casa per riposarsi di una giornata trascorsa a far nulla. Per
non perdere tempo ti fece riempire alla svelta il modulo con cui ti si chiedeva se
eri comunista e se credevi in Dio, poi impresse sul passaporto la stampigliatura
del visto e vi scrisse le tue generalità, la data di emissione, la data di scadenza.
Stava per porre anche la firma quando la sua segretaria esclamò guardandoti
affettuosa e materna: Poverino, come si vede che ha sofferto in questi anni!
Immediatamente lui alzò la penna, ti esaminò con sospetto e: Why? Where have
you been in these years? Vuoi sapere dove sei stato in questi anni tradussi un po
sorpresa. Infatti lo avevamo già scritto nel modulo. Diglielo!. Glielo dissi, non
capì. Boiati? What is Boiati? Is it a clinic, an hospital? Vuol sapere se Boiati è
una clinica, un ospedale tradussi col vago presentimento che la mia fiducia nel
Leviatano stesse per venir calpestata ancora una volta, e stavolta a tue spese. Tu
invece sorridesti divertito, ignaro. Il dubbio che le cose si mettessero male non ti
sfiorava nemmeno: dovevo esser stata molto convincente nell'esporti le virtù del
gran Leviatano che accoglie chiunque anche chi lo critica. Ospedale? No, non

direi un ospedale. Non esattamente un ospedale.. Not exactly? What do you mean
by saying non exactly?. Vuol sapere cosa significa non esattamente tradussi
mentre il presentimento cresceva. Significa che Boiati è una prigione, una
prigione militare. Una brutta prigione militare rispondesti con un altro sorriso
divertito, ignaro. La penna del biondino cadde con un piccolo tonfo. A prison?! A
military prison?! Why have you been in a prison, a military prison?! Vuol sapere
perché eri in prigione, una prigione militare. Il tuo sorriso si spense, la tua voce si
fece roca. Diglielo.. Glielo dissi: Signor viceconsole, questo è Alessandro
Panagulis. L'eroe della resistenza greca. Greek Resistance?! What resistance?
Resistance for what? Against whom? Vuol sapere quale resistenza, resistenza per
cosa, contro chi. La tua voce divenne ancora più roca. Digli di restituirmi il
passaporto. Senza visto?. Senza visto. Bene. Will you please... Ma, prima che
potessi completare la frase, il passaporto era scomparso dentro un cassetto.
Sorry, I cannot sign it. Nor I can give it back to you.
Ti guardai. Pallido in volto, lo fissavi con occhi così impietriti dallo stupore che le
pupille sembravano le pupille d'un cieco. Che ha detto? Ha detto che non può
firmarlo e neanche restituirlo. Rispondigli che non ha diritto, lui americano, di
sequestrare un passaporto greco e in Italia. Rispondigli che se non me lo ridà me
lo riprendo. Tradussi, aggiungendo qualcosa di mio e cioè che stava commettendo
un'appropriazione indebita punibile con la galera, che ora avrei chiamato i miei
avvocati, la sua ambasciata, la polizia e sarebbe finito in galera senza immunità
diplomatica; ma ci ebbe l'unico effetto di travolgerlo in un panico indescrivibile.
No, balbettava, no, non poteva, non doveva, c'era la stampigliatura ormai, no, che
sbaglio spaventoso mioddio, che imperdonabile errore, che tremenda sciagura, la
colpa era sua per come rimediarvi, mioddio, no, no, no. Intanto tremava. Sai il
tremito convulso che scuote i conigli quando ci si avvicina alla gabbia e, disossati
dalla paura, col cuore che gli scoppia sotto la pelliccia, non sanno cosa fare, dove
andare, in che modo difendersi, impazziti saltano da una parte all'altra della
gabbia, con le zampine ritte si aggrappano alle sbarre squittendo, ed ecco: ora
chiudeva a chiave il cassetto, si nascondeva la chiave nel taschino interno della
giacca perché non tentassimo di portargliela via, ora agguantava il telefono e se lo
posava sulle ginocchia perché non chiamassimo davvero gli avvocati,
l'ambasciata, la polizia, ora dalle ginocchia lo trasferiva su un tavolino, dal
tavolino in un altro cassetto per ficcarcelo dentro ma non c'entrava sicché lo

toglieva anche di lì e lo affidava alla segretaria invano tesa a calmarlo, signor
viceconsole non se la prenda così, la stampigliatura senza la firma non ha alcun
valore.
Ma non serviva a nulla, e l'agitarsi grottesco continuava, arricchito di suppliche al
Signore misericordioso e potente: oh, mercyful Lord; oh, mighty Lord. D'un tratto
si alzò per recarsi dal suo superiore, confessargli il crimine, chiedergli consiglio, e
quando tornò era quasi placato. Are you a comunist?. No, non sono comunista
rispondesti. Do you belong to any party? No, non appartengo a nessun partito
rispondesti.
Niente merce di scambio. Niente moneta da spendere in nome dell'equilibrio
mondiale. Niente scheda da infilare dentro il computer. Niente autorità costituita
o ideologia, potere, che garantisse per te. Davvero? Davvero. In tal caso, per
restituirti il passaporto, doveva chiedere l'autorizzazione del governo greco. Di
chi?! Del governo greco. Ti guardai di nuovo. Lo sdegno che prima ti intirizziva
s'era trasformato in una collera cupa, terrorizzante. Ti levasti in piedi. Allungasti
il braccio destro, tendesti l'indice fino a sfiorargli il naso: Americano, restituiscimi
il passaporto. Subito. But then... I must cancel... the stamping... Dice che in tal
caso deve cancellare la stampigliatura.. Rispondigli che può cancellarsi anche i
coglioni, se li ha. Mr. Panagulis says that you may cancel your balls too, if you
have them. Immediatamente la chiave nascosta nel taschino interno della giacca
riapparve. Il cassetto si aprì, il passaporto fu nelle zampine del coniglio che in
tono strozzato annunciava di dover conferire un attimo col suo superiore, che tu
non ti inquietassi per carità. E, quando riavesti il passaporto, la pagina con la
stampigliatura era imbrattata da una grossa macchia nera. Le nove lettere che in
inglese compongono la parola cancellato: cancelled. Uomo solo uguale cancellato,
cancelled.
Cancellato e calunniato. L'indomani infatti scrissi all'ambasciatore del Leviatano,
un certo Volpe che gli italiani chiamavano Golpe. E costui, anziché chiedere
scusa, fece rispondere da una certa Margaret Hussman consolessa in Roma.
Dopo aver considerato la faccenda con cura, diceva questa certa Margaret
Hussman consolessa in Roma, il signor ambasciatore teneva a informarci che il
viceconsole signor Carl Mac Cullum s'era comportato in maniera più che corretta
e che, in virtù dei regolamenti 212(a)9, 212(a)10, 212(a)28 F(ii) dell'Immigration
Nationality Act, il visto ti veniva rifiutato. A cosa si riferissero quei regolamenti,

quelle cifre da cabala, il maleducatissimo foglio non lo diceva ma presto venni a
sapere che si riferivano alla tua turpitudine morale: il tirannicidio commesso o
tentato, le azioni volte a sovvertire un regime legittimo essendo un reato che
l'Immigration Nationality Act indivcavòa con questa espressione, turpitudine
morale. Venni inoltre a sapere che il verdetto era stato approvato e confermòato
anche a Washington, dal segretario di Stato in persona, un certo Kissinger che a
quel tempo imperava, e quindi non era il caso di illudersi che venisse modificato.
Ma le vie del destino sono infinite. perché, intestardito nell'idea di recarti in
un'America che non ti voleva, ti precipitasti col tuo passaporto imbrattato da
Nicola a Zurigo. E il 17 novembre, anniversario della tua condanna a morte, non
eri ad Atene dove Joannidis ti cercava deciso ad esaudire l'antica promessa: io ti
fucilerò Panagulis.
Ora come rientro, io, comeeee?!? Ad Atene, nel giro di due giorni, le sommosse
avevano assunto proporzioni incredibili. I giornali parlavano di barricate in quasi
ogni punto della città, emblemi della Giunta divelti e frantumati, dimostranti che
guidavano gli autobus requisiti, scritte Via la Giunta, Abbasso fascismo, Abbasso
gli americani e i loro lacche, e in una fotografia si vedeva tua madre che,
cappellino nero, borsa nera, occhiali neri, calze nere, abito nero, e al braccio una
cesta di vettovaglie, veniva portata in trionfo dai ragazzi del Politecnico. In
un'altra si vedeva la folla che dal recinto dell'università straripava per l'intera via
Stadiu, in uno sventolio di bandiere rosse: non meno di diecimila persone, e
neanche un poliziotto. Però erano fotografie che si riferivano a quel che era
successo ventiquattro ore prima e, pubblicandole, i quotidiani del mattino
riportavano notizie dal contenuto molto diverso. Poco dopo la mezzanotte i carri
armati avevano invaso la capitale, una cinquantina di carri armati coi pezzi da
novanta, e i più s'eran diretti sul Politecnico dove gli studenti asserragliati
concentravano la rivolta. Abbattendo i cancelli, sparando, ne avevano uccisi a
decine: tra i morti il ragazzo con la camicia a quadri che al tempio di Sunio
t'aveva dato le due saponette di tritolo. Era morto cantando un tuo inno, e a lui
nessuno avrebbe mai detto grazie. La storia non si occupa delle comparse. Ora
come rientro io, comeee?!? E, col furore di una tigre che presa in trappola si
dibatte dentro la rete, misuravi a gran passi zoppicanti il soggiorno della casa di
Nicola. Se replicavo calmati, anche la volontà più ferrea deve fare i conti con gli
imprevisti della sorte, mi vomitavi addosso un rancore ai limiti dell'odio. E colpa

tua, tua, tua! Sei tu che mi hai fatto perdere tempo con l'idea del viaggio in
America! Sei tu che mi hai distratto con quel consolato di merda, con quei fascisti
ipocriti che non hanno nemmeno il coraggio di presentarsi per quello che sonooo!
Sei tu che mi hai portato da quel coniglio balbuziente! Oggi sarei ad Atene se non
fosse stato per te! Avrei potuto rientrarci col mio passaporto e ora col mio
passaporto non ci torno più! Più! Più! E avevi gli occhi pieni di lacrime, di
impotenza, di disperazione.
Entrò Nicola coi giornali della sera. Il Politecnico era stato sgomberato alle prime
luci dell'alba, disse, il governo ammetteva una dozzina di morti e centinaia di
feriti: si parlava già di massacro. La repressione s'era allargata a Salonicco, a
Patrasso, e tra i contadini del Megara, per l'epicentro restava Atene dove i carri
armati sostavano anche dinanzi al Parlamento e il coprifuoco incominciava alle
quattro del pomeriggio. La cosa più importante era comunque il messaggio
trasmesso alla radio da Papadopulos. Un messaggio con cui annunciava il ritorno
alla legge marziale abolita in agosto e si impegnava a restaurare l'ordine turbato
da minoranze anarchiche al servizio del comunismo internazionale e di politicanti
privi di scrupoli. Ha detto questo? Sì. Alla radio non alla televisione? Sì. Subito il
furore della tigre presa in trappola pane acquetarsi e mi guardasti con occhi da
cui era scomparso ogni rimprovero. Allora Papadopulos parla con una rivoltella
alla tempia. La rivoltella di Joannidis.
Papadopulos è ormai un fantoccio nelle mani di Joannidis, la sua
pseudodemocratizzazione è fallita, il suo regime è finito insieme al tentativo di
legalizzarlo con una farsa elettorale e l'esercito gli ha voltato le spalle. Quei carri
armati non sono suoi, sono di Joannidis: è Joannidis che ha esasperato le
sommosse, prima lasciando che si gonfiassero e poi stroncandole con brutalità; è
Joannidis che ha voluto il massacro del Politecnico per dimostrare che
Papadopulos è un debole e un incapace; è Joannidis che oggi comanda da
qualsiasi punto di vista, sorretto dalla fazione dei duròi. Quindi, se rientri ora, ti
d cinque minuti di vita dal momento in cui sbarchi ad Atene mormor Nicola.
Sorridesti con malinconia: Non c'è alcun bisogno che rientri ora. Non gioverebbe a
nulla fuorché a finire nella cella accanto a quella di Papadopulos. Che dici?! Dico
che Joannidis non è uomo da compromessi: arresterà Papadopulos. Dico che
c'eravamo tutti sbagliati: non si trattava di una rivolta popolare ma di un colpo di
stato dentro il colpo di stato. Stavolta è Joannidis che ha fatto il colpo di stato:

per esautorare Papadopulos e stabilizzare la dittatura, anzi riportarla dentro gli
schemi della dittatura militare. Tra una settimana tutto ci sarà evidente e
ufficiale. E la profezia si sarebbe avverata. Otto giorni dopo, infatti, Joannidis
avrebbe messo Papadopulos agli arresti domiciliari.
Alla presidenza della Repubblica, invece, avrebbe trasferito un generale di nome
Fedone Ghizikis. Lo stesso Ghizikis che nel Sessantotto aveva firmato il decreto
per fucilarti e che l'anno seguente era venuto a trovarti nella cella di Gudì per
incitarti a mangiare. La prego, signor Panagulis, mangi qualcosa. Senza posate,
signor generale? Non sono un cane. Ne convengo, signor Panagulis, ma deve
capire il loro risentimento. Se appena le danno un cucchiaio lei lo usa per scavare
un buco nel muro! Nella tua fiaba i personaggi sono quasi sempre gli stessi: di
rado uscivano dalla scena per perdersi nell'oblio.
Quasi che gli dei si divertissero a usarli e riusarli come esca per te.
Eravamo tornati nel comodo albergo di Roma e qui, con mia meraviglia, avevi
chiesto l'appartamento che al tuo arrivo in Italia aveva acceso i tuoi complessi di
colpa e scandalizzato i retori del sacrificio apparente. Ci eravamo tornati al
mattino e da allora non facevi che ispezionare in silenzio i tendaggi, il lampadario,
i lumi da tavolino, l'interno del caminetto, l'imbottitura delle poltrone: quasi che
ci fosse nascosta una bomba. Ma che cerchi? Nulla. Che frughi? Ssst! Alla fine, e
dopo aver passato per l'ennesima volta in rassegna ogni oggetto, sedesti sul
divano del soggiorno ed esclamasti ad alta voce:
Uhm! Nenni dice che sono in esilio ma Joannidis non la pensa così. Sembra che
nei giorni scorsi, convinto che fossi ad Atene, m'abbia cercato anche tra i sassi
del Partenone. Non si rassegna, Joannidis. Ha la grinta di un piccolo Robespierre.
E poi sa come si tiene il potere attraverso una dittatura militare, sa che in una
dittatura militare non comanda chi sta al governo o alla presidenza ma chi
dispone in pieno dell'esercito. Povero Averoff. Dovrà ricominciare tutto daccapo,
con la sua politica del ponte. E stavolta dovrà vedersela con Joannidis. Averoff?
Quando meno te l'aspettavi, ecco sorgere quel nome: Averoff.
Sì, Averoff. Quello che organizza le rivolte della Marina e poi spiattella tutto,
quello che se la cava sempre. Chissà che aveva promesso a Papadopulos, e chissà
come si prepara a imbrogliare Joannidis. Servendosi di Ghizikis magari. Ma che
cosa c'entra Averoff?. C'entra. Uh, che caldo! E, spalancata la finestra, uscisti sul
terrazzo dove incominciasti a far segni affannosi perché ti seguissi. Ti seguii a

malincuore: l'inverno stava avanzando e fuori faceva freddo. Ma perché...? Ssst!
Parla piano! Piano? Se prima ti sgolavi! perché volevo che udissero bene. Chi?!
Quelli che ascoltano. Sono certo che hanno messo microfoni da qualche parte.
Macché microfoni! Chi vuoi che abbia messo microfoni! Chiunque. L'ambasciata
greca, i servizi segreti americani, i servizi segreti italiani per rendere un servizio ai
servizi segreti americani e all'ambasciata greca.... E questo che cercavi dunque, i
microfoni? Esatto..
Allora perché sei tornato qui e hai chiesto il medesimo appartamento? perché
nessun luogo è più sicuro di un luogo che sai sotto controllo. Quando lo sai,
prendi le tue misure e puoi perfino trarre in inganno con notizie sbagliate.
Facciamo una prova. Che prova? Vedrai. Ora torniamo dentro e io dico che sto
per andare ad Atene. Tu devi soltanto seguire il mio gioco.
Senza ridere, eh? Be', meglio che rabbrividire al vento di fine novembre. E poi, se
t'eri messo in testa la faccenda dei microfoni, bisognava accontentarti. D'accordo.
Tornammo nel soggiorno dove riprendesti a parlare ad alta voce, scandendo bene
le frasi. Allora parto domani. Prendo l'aereo che arriva ad Atene alle sette di sera.
Lo hai prenotato? Mai prenotare. Mai metterli sull'avviso. Si va all'ultimo
momento e si cerca un posto. Ti sembra intelligente mettere il mio nome sulla
lista dei passeggeri due giorni prima? Non partirai mica col tuo nome, Alekos, col
tuo passaporto?! Forse sì. Sono preoccupata. Andrà tutto bene, te lo prometto.
Alekos, cosa vai a fare ad Atene?! Quanto sei ingenua! Cosa vuoi che vada a fare?
Un attentato, evidente . A chi?! A Joannidis, chi altro? Avevi organizzato l'inganno
con cura veramente diabolica.
Per incominciare, avevi avvertito un amico di Atene perché l'indomani si recasse
all'aeroporto e controllasse se vi succedeva qualcosa di insolito. Ad esempio un
movimento di poliziotti verso le sette di sera. Poi avevi messo le cose in modo da
trovarti all'aeroporto di Roma quarantacinque minuti prima che decollasse il volo
prenotato, e questo era il particolare più maligno perché includeva un ignaro
Nicola. Quella settimana Nicola doveva accompagnarti a Stoccarda a prender
contatti con alcuni emigrati greci e, anziché incontrarlo a Zurigo come sarebbe
stato normale, lo avevi persuaso a raggiungerti a Roma. Così ti avrebbero visto
con lui prima della supposta partenza per Atene e ogni dubbio sull'autenticità del
dialogo captato dai microfoni nascosti sarebbe svanito. Alekos, si accorgeranno lo
stesso che bluffi. Non se ne accorgeranno, lasciami lavorare. A me basta che ci

vedano insieme quando lui esce dalla dogana, poi so io come dileguarmi perché
credano che mi sono imbarcato. Quindi eccoti ordinare un taxi con equivoca
impazienza, svelti per favore devo correre all'aeroporto, eccoti uscire con una
cartella che potrebbe essere una borsa da viaggio, eccoti salutarmi con l'aria di
uno che parte e intanto sussurrarmi le ultime raccomandazioni. Per nessun
motivo rientrare in albergo prima di te, espormi alla domanda se tu fossi partito o
no; per nessun motivo avvicinare persone che mi chiedessero dov'eri. Ci saremmo
rivisti con Nicola all'ora di cena, appuntamento in un ristorante, e a mezzanotte
saremmo andati alle Poste Centrali per telefonare a un amico di Atene, chiedere
cos'era o non era successo. Io annuivo per farti piacere, convinta che si trattasse
d'una bambinata inutile, che la storia dei microfoni nascosti non avesse alcun
aggancio con la realtà. E mi sbagliavo. A mezzanotte, infatti, l'amico riferì che
l'aeroporto aveva incominciato ad essere in subbuglio nelle prime ore del
pomeriggio. Soldati sulla pista, autoradio, ambulanze: non mancavano che i carri
armati. Col volo delle sette per la situazione s'era fatta addirittura drammatica
perché tutti i passeggeri erano stati perquisiti come criminali e uno spagnolo era
stato arrestato. Uno spagnolo bruno, sui trent'anni, coi baffi. Il tuo tipo fisico,
insomma. Convinta? Ci sono i microfoni nascosti o no? Un sorriso di trionfo ti
illuminava. Nicola invece appariva così nervoso che perfino la sua docilità era
scomparsa, e la simmetria del suo fazzoletto bianco piegato a tre punte. Era stata
una beffa inutile, ripeteva, e prima o poi te l'avrebbero fatta pagare. Bisognava
che tu la smettessi con le sfide private, i personali duelli. Bisognava che tu
cambiassi sistema, o non avresti combinato mai nulla. Volevi fare la lotta
armata? Ebbene, la lotta armata non si organizza sprecandosi in sfide private,
personali duelli, e richiede la partecipazione di molti. Questi molti te li dovevi
cercare: senza scoraggiarti, senza spazientirti se non li trovavi in una settimana o
in un mese. Su, andiamo a Stoccarda. Incominciamo con Stoccarda, con la
Germania.
Germania, Francia, Svizzera, Austria, Italia del sud e del nord: non so
immaginare nulla di più deludente che quei viaggi alla ricerca di guerriglieri tra
gli esuli e gli emigrati greci. Un rassegnato Nicola ti accompagnava, io non venivo
mai e quindi non assistevo alle tue sconfitte, ma a capirle bastava il volto smunto
con cui tornavi, il modo in cui lasciavi cader la valigia, di colpo, come se

contenesse il bagaglio delle tue amarezze, la voce con cui mormoravi: Parole,
parole, parole! Poi il racconto di cos'era accaduto, il medesimo sempre.
Trionfali accoglienze al tuo arrivo, applausi ai comizi che tenevi in qualche teatro,
interminabili cene nelle taverne assordate dal buzuki, guardie del corpo che
proteggevano il tuo sonno con una Colt superautomatica nella cintura, baci,
abbracci, offerte di donne da portare a letto, e a conclusione di ciò neanche un
cane che ti rispondesse sì, andiamo a combattere Joannidis coi fucili. Dimmi,
perché?!? Domanda superflua, visto che al solito ti rifiutavi di fare i conti con la
realtà che in Grecia t'aveva impedito di mettere insieme un pugno di volenterosi
disposti a occupare l'Acropoli e che in Italia t'aveva opposto una barriera di
disagio o di diffidenza. Anche qui, insomma, nessuno era pronto a immolarsi in
imprese suicide e per di più non comandate da un partito, da un'ideologia. Anche
qui sorgeva il problema della tua collocazione politica, della solitudine che
esclude il vantaggio di poter essere merce di scambio, moneta da spendere in
nome degli equilibri mondiali: chi è, cosa vuole, chi garantisce per lui.
Quando il veleno delle dottrine intossica le coscienze e le intruppa, non è solo il
cervello del leader straniero o il computer del Gran Leviatano a incepparsi; la
mente dei tuoi fratelli reagisce nell'identico modo, si pone gli identici interrogativi:
possibile che non abbia una scheda, una tessera, che non appartenga a una
chiesa? Ne serve rispondergli: ma è Panagulis, colui che tentò di liberarvi dalla
tirannia, colui che fu condannato a morte per questo e rimase sepolto per anni
dentro un pollaio senza finestre! E il suo passato che garantisce per lui, il suo
presente, la sua purezza! I loro occhi si levano spenti, i loro orecchi ascoltano
sordi. Sì, per la tessera, la scheda dov'è? E socialista, è comunista, è buddista? E
peggio ancora se egli non sa spiegare in termini scientifici i motivi per cui non
concepisce nemmeno l'idea di identificarsi con una dottrina, una formula. Non è
mica un filosofo, lui, non è mica un pensatore: non ha mai riflettuto a fondo su
quel rompicapo, non ha mai razionalizzato certe consapevolezze.
Lui può dire soltanto che vuol essere un uomo, che essere uomo significa essere
libero, aver coraggio, lottare, assumersi le proprie responsabilità, sicché
muoviamoci; combattiamola questa dittatura.
Con tale fisionomia, e il tuo nome unico avallo, il tuo passato unica carta da
visita, ti presentavi ai greci emigrati in Germania, in Francia, in Svizzera, in Italia,
e di nuovo battevi il capo nel muro. O il tuo invito alla resistenza armata

veniva respinto con la fatidica frase vorrei ma non posso tengo famiglia, oppure
veniva neutralizzato dal fatto che i più non capissero per chi li volevi arruolare, a
chi appartenevi, chi c'era dietro di te. Senza tener conto del particolare che molti
erano già requisiti dai comunisti o dai papandreisti. E, se coi primi ogni dialogo
era praticamente impossibile perché il tuo libertarismo cozzava contro il loro
dogmatismo, verso i secondi nutrivi un disprezzo irriducibile: quello dovuto ai
seguaci di un demiurgo che regge un partito sul proprio cognome, anzi sul
cognome del celebre padre defunto. Soprattutto disprezzavi il demiurgo: me n'ero
ben accorta la notte del nostro incontro ad ascoltare lo scherno con cui lo
giudicavi. Bastava che qualcuno dicesse Andrea Papandreu perché tu ti
abbandonassi a frasi ingiuriose: Quel parolaio! Quell'irresponsabile! Quel
pagliaccio ingannapopoli!. E con tale rabbia, tale rancore, che all'inizio avevo
creduto si trattasse di un'ostilità personale, sorta dalle delusioni che egli t'aveva
imposto prima dell'attentato. Viaggi a vuoto per chiedergli appoggio, promesse
non mantenute, bugie. Avevo anche pensato a un risentimento provocato dal
comodo esilio nel quale costui si cullava a Toronto, secondo le abitudini di certi
leader che finché il pericolo brucia se ne stanno al sicuro e, appena il pericolo
passa, tornano in patria a sfruttare il sacrificio degli altri. Per durante il massacro
del Politecnico, quando era venuto a Roma per dire che la rivolta era stata voluta
e diretta da lui, che gli insorti gli avevano telefonato ogni giorno per istruzioni,
Andrea cosa dobbiamo fare Andrea, che i morti non erano quaranta ma
quattrocento, cinquecento, seicento, mille, l'equivoco s'era chiarito. Avevo
compreso, cioè, che Papandreu incarnava ai tuoi occhi un morbo tipico del nostro
tempo, contagioso come l'ideologia dogmatica: il populismo cialtronesco di chi
abbaia a vuoto, il rivoluzionarismo mussolinesco di chi si illude o vuole illuderci
di volere il bene del popolo, il massimalismo astratto di chi indossa l'aggettivo
socialista come un vestito alla moda, una menzogna che rende. sicché, lungi
dall'essere una faccenda privata, il tuo disprezzo per lui colpiva la sinistra dei
mestieranti, degli avventuristi che con la loro beceraggine offrono pretesti alla
destra e scatenano i suoi colpi di stato, il suo luridume vestito di Ordine e Legge.
E proprio a quella sinistra, ripeto, appartenevano in gran parte coloro che ti
voltavano le spalle. Davvero non so immaginare nulla di più deludente che quei
viaggi dai quali tornavi col volto smunto di chi ha perduto di nuovo. Oppure col
volto gonfio di chi si è ubriacato di nuovo. Infatti fu in quel periodo che bere

divenne per te un masochismo quotidiano e perverso, il simbolo della
disperazione che ti squarciava. Fu in quel periodo, inoltre, che Sancho Panza si
fece da scudiero infermiere e tentò, inutilmente, di ingabbiarti con le lusinghe
dell'amore sereno, con la casa nel bosco.
CAPITOLO II
In tutte le fiabe c'è una casa nel bosco, un rifugio segreto dove l'eroe si ferma per
riposarsi o prepararsi alla prossima sfida, ed ebbene: anche nella tua fiaba c'è
una casa nel bosco, quella di Firenze in cui ci trasferimmo all'inizio dell'anno
nuovo, clandestinamente. Dico clandestinamente perché solo pochi amici fidati
ne conoscevano l'esistenza e pochissimi l'indirizzo, del resto difficile a
rintracciare: il luogo era molto appartato, la targa col numero così sbiadita dal
tempo che quasi non si leggeva, e le rare persone che venivano a trovarci vi si
smarrivano perfino se c'erano state una volta. Ricordi? A metà del viale che orlato
di platani e tigli sale impreziosendo il quartiere più elegante della città c'era un
muro di cinta; nel muro di cinta e proprio dinanzi al punto in cui fermava
l'autobus, c'era un cancello seminascosto dal verde; superato il cancello c'era una
stradina privata che si tuffava, prima a rettilineo e poi a curve, dentro un parco di
pini, cipressi, ippocastani. E in fondo al rettilineo, al di là d'una siepe d'alloro che
la proteggeva con squisita superbia, c'era lei: una villa a quattro piani, in stile
liberty, già dimora esclusiva di una famiglia patrizia ed ora abitata da tre o
quattro inquilini. Morto il proprietario infatti la villa era stata divisa in
appartamenti, e va da se che noi non avevamo un vero appartamento: avevamo
una stanza del terzo piano, nell'angolo a nord, una specie di studio al quale si
accedeva da un ingresso privato, salendo sei rampe di ripide scale, senza mai
incontrare nessuno fuorché un bassotto isterico o un foxterrier ringhioso. Per
molto vasto, reso abitabile da un bagno e da una cucina, e pieno di luce per via
delle finestre immense, una che si apriva su un terrazzo di ferro battuto dalla
parte dove la stradina biforcava in due curve e la siepe d'alloro sposava il
cespuglio di lillà, una che guardava sul retro del parco. E di lì non vedevi che
alberi, splendidi, fitti, alcuni così giganteschi che non potevano avere meno di
cent'anni o duecento, altri così vicini che si potevano toccare; i rami
dell'ippocastano ad esempio sfioravano il davanzale e, senza tendere il braccio,
potevi cogliere le sue castagne o accarezzarne la buccia lucida di smalto. Ma la

cosa più bella era un'altra, era che sulla parete di fronte a quella finestra si
allungava un interminabile armadio con le ante a specchi dove l'ippocastano si
rifletteva insieme a un cipresso, quindi anziché in una stanza sembrava di stare
in un bosco. Se spalancavi i vetri l'illusione coglieva anche gli uccelli che ignari si
lanciavano verso gli specchi per posarsi sopra una frasca, e solo quando si
accorgevano che la frasca non esisteva si arrestavano spaventati, frullando le ali
contro l'invisibile barriera d'inganno, poi si allontanavano sfrecciando tra il
soffitto e il muro in cerca d'una foglia o un arbusto che doveva esserci eppure non
c'era, infine si appollaiavano sul lampadario per piangere o muovere a scatti il
capino, fissare ora la realtà e ora il miraggio: incapaci di capire quale fosse la
realtà e quale il miraggio.
perché se ne andassero bisognava aiutarli sventolando un asciugamano: Là!
Fuori! Là! Una mattina entrò un pettirosso.
Entrò con tale entusiasmo che subito andò a sbattere contro se stesso e cadde
sul pavimento rompendosi un'ala. Era molto piccolo, forse al suo primo volo, e tu
lo raccogliesti con delicatezza tremante, gli fissasti l'ala con gli stecchini e il
cerotto, gli facesti il nido dentro un cappello dove rimase due giorni e due notti a
piangere un cinguettio lieve lieve che solo all'alba del terzo giorno si placò perché
tu balzassi dal letto: E guarito, è guarito! Ma non era guarito, era morto, e
accarezzando il mucchiettino inerte di penne mormorasti: Ti ha ucciso il
miraggio, vedi cosa succede a rincorrere quello che non c'è. Poi lo chiudesti in
una scatolina di latta e lo seppellisti sotto il cipresso: Chiunque muoia per un
miraggio si merita un buon funerale.
La casa nel bosco aveva anche gravi difetti. Ad esempio il viale coi platani e i tigli
non offriva riparo perché, oltre ad essere poco frequentato, costeggiava solo
abitazioni coi cancelli rigorosamente sbarrati: non un negozio o un edificio
pubblico o un punto di incontro fuorché la fermata dell'autobus dove non
scendeva ne saliva nessuno. Il nostro cancello invece restava sempre aperto, a
illuminare il passaggio non c'era nemmeno un lampione, sicché di notte la
stradina privata piombava nel buio e per raggiungere la villa bisognava percorrere
un centinaio di metri in quel buio: se qualcuno avesse voluto aggredirti o rapirti o
ammazzarti non avrebbe dovuto far altro che aspettarti nel buio, nascosto dietro
un albero o una siepe d'alloro. La sera ci imponevamo, sì, la precauzione di
andare e tornare col taxi, ma raramente l'autista arrivava alla porta d'ingresso e,

quando lo faceva, era per abbandonarci prima che infilassimo la chiave nella
toppa: eventuali aggressori avevano dunque il tempo di sbucare dall'ombra e
assalirti. Queste cose io le avevo previste ed avevano costituito il motivo per cui
ero stata incerta sull'opportunità di affittare la casa, ma tu avevi risposto che la
bellezza ha i suoi rischi, che per un luogo così incantevole valeva la pena di
correrli, e così il contratto era stato firmato, la casa arredata. I quadri alle pareti,
i libri negli scaffali, la scrivania sistemata nell'angolo giusto, la poltrona a dondolo
accanto al terrazzo, perfino una preziosa lampada Tiffany sul tavolino. E la
promessa: Sarò più sereno qui, vedrai! L'avevi anche mantenuta, all'inizio.
C'erano stati momenti, all'inizio, in cui m'era parso di rivivere la settimana di
felicità. La notte ci amavamo con gioiosa passione poi ci addormentavamo
incollati in un abbraccio che rendeva troppo grande il letto a due piazze. Di giorno
ci permettevamo piccoli lussi come lavorare allo stesso tavolo senza disturbarci a
vicenda, passeggiare insieme nel parco, darci appuntamento nei caffè del centro,
giocare agli innamorati che si scambiano gli anelli in allegria. Un pomeriggio
tornasti a casa con una fedina di brillanti per me, subito corsi a comprarne una
d'oro bianco per te ma sbagliai misura e anziché all'anulare dovesti infilarla al
mignolo sinistro dove sarebbe sempre rimasta con mio divertimento perché te ne
lamentavi pronunciando agnello la parola anello questo piccolo agnello!
Capitavano, ovvio, anche parentesi di malumore. Capitavano ad esempio quando
ritiravi la corrispondenza alle Poste Centrali, usate come indirizzo per proteggere
la segretezza della casa nel bosco, e tra le lettere da Atene ne trovavi qualcuna
che rinnovava i tuoi complessi di colpa, la sensazione di trovarti in esilio. Tuttavia
un insperato equilibrio sembrava aver sostituito l'isteria delle settimane sprecate
in Germania, in Svizzera, in Francia, e ci che facevi ora denunciava buonsenso: la
colonna dal titolo Resistenza Greca che scrivevi per un quotidiano di Roma, la
raccolta delle tue poesie in un libro che contenesse sia il testo greco che il testo
italiano e quindi potesse esser diffuso anche in Grecia, i timbri per improvvisare
manifestini contro la Giunta. Geniali questi perché ad Atene il problema dei
manifestini consisteva nel disporre d'una tipografia clandestina e le tipografie
clandestine erano lussi che soltanto i comunisti e i papandreisti potevano
permettersi: coi timbri invece sarebbe stato sufficiente procurarsi un po di carta e
qualche stampone d'inchiostro, imprimere gli slogan che portavano inciso. Tra gli
slogan quello che doveva andare sul Partenone: Agonas kata tis tirannias Agonas

dia tin elefteria, lotta contro la tirannia lotta per la libertà. Ne avevi ordinati
centocinquanta, grandi come due pacchetti di sigarette e perciò maneggevoli, poi
li avevi sistemati in borse dal doppio fondo per affidarli via via a qualcuno che si
recasse ad Atene, e tre borse erano già giunte a destinazione; quattro aspettavano
dentro l'armadio a specchi. Inoltre bevevi pochissimo, fino all'ora di cena ti
dissetavi esclusivamente con le aranciate: nell'arco di un mese, solo due o tre
cene s'erano concluse con l'ebrezza. Però l'ebrezza lieve del primo stadio, cioè
quella che spalancando le porte dell'eloquenza dava briglia sciolta al tuo
umorismo. D'accordo, stasera non sono stato astemio. Ma te lo immagini Socrate
che disserta con Critone e Fedone o Simmia bevendo aranciata? Unico motivo di
inquietudine, il misterioso viaggio che avevi fatto in Svezia.
Devo andare a Stoccolma. A cercare altri emigrati?! No, no. Allora perché devi
andare a Stoccolma? Uffa! Siamo all'interrogatorio? Da Stoccolma eri tornato con
un pacchettino e una busta che avevi chiuso a chiave in un cassetto della
scrivania, poi t'eri messo la chiave in tasca senza dirmi perché. Alekos, cosa hai
nascosto? Nulla. Non sarà mica tritolo? Macché tritolo! Non m'era piaciuta quella
faccenda e ogni volta che guardavo il cassetto avvertivo un senso di angoscia. Per
della lotta armata non ne parlavi più, e neanche di rientrare ad Atene
Mi sarei accorta ben presto che tutto quell'equilibrio, quel buonumore erano una
messinscena per trarmi in inganno.
L'arte nasce dal bisogno e muore nella ricchezza. E vero solo in alcuni casi,
Alekos: non puoi negare che le statue di Fidia fossero arte, non puoi negare che la
cappella Sistina sia arte, eppure l'una e le altre non nacquero dal bisogno.
Nacquero nella ricchezza. Chiudi il becco, tu. Non sto parlando a te, sto parlando
a lui. Eravamo a cena con l'editore che curava la pubblicazione del tuo libro di
poesie e che era venuto a Firenze per portarci le bozze. Mi impennai quindi più di
quanto mi sarei impennata se fossimo stati soli. Come ti permetti, villano! Chiudi
il becco, ripeto. Che ne sai di Fidia tu che non sei neanche capace di fumare col
naso? Guarda, non aspira neanche col naso. Che senso ha fumare se non si
aspira col naso? Ognuno fuma a modo suo, neanche a me piace aspirare col
naso, e comunque non vedo cosa c'entri Fidia con le sigarette e col naso disse
l'editore sorpreso. Poi, nell'evidente intenzione di frenare la collera che cresceva in
me, si mise a fumare una sigaretta aspirando con la bocca e basta. Ma servì solo
a incoraggiare quell'attacco ingiustificato. Facciamo alleanze? Difendiamo i

deboli? Non è debole, lei, non dubitare, è più forte di me. E di ferro. Anche il suo
cuore è di ferro! L'hai mai vista piangere, eh? Strano, davvero strano. Una cosa
del genere non era mai successa. E non solo è incapace di fumare, è anche
incapace di usar l'accendino. Lo tiene aperto almeno trenta secondi prima di girar
la rotella e così spreca gas. Del resto lei fa male tutto quello che fa. Sai come
appiccica i francobolli? Col disegno all'ingiù, per esempio la testa dell'Italia
all'ingiù. E se glielo fai notare alza le spalle, risponde che è lo stesso. Non rispetta
nessuno, lei. Non crede in nulla e in nessuno. Se tu avessi bevuto, avrei detto che
stava avanzando l'ebrezza. Ma non avevi preso che un bicchiere, stasera il vino
non ti interessava. Ne esistevano dissapori fra noi. Infatti, fino al momento in cui
avevi tirato fuori la storia dell'arte che nasce dal bisogno e muore nella ricchezza,
eri stato affettuoso, gentile. Che tu stessi impazzendo? L'editore sembrava
chiederselo come me sebbene l'incredulità di prima si stesse trasformando in
ostilità: Certo bisogna essere di ferro, Alekos, per sopportare le tue stravaganze.
Cuore incluso.
Al suo posto io avrei già avuto un infarto. Alleanze! continuano le alleanze! Non è
questione di alleanze, Alekos. E... E che non sai chi ha dipinto la cappella Sistina.
Coraggio, chi ha dipinto la cappella Sistina? Winston Churchill, Alekos. Bene.
Bravo. E qual era il vero mestiere di Winston Churchill? Campione di
pallacanestro. Perfetto. E quando morì Winston Churchill? Nel 1965, a novantun
anni. Errore, errore! Winston Churchill morì nel 1967 a ottant'anni. Be', avevi
allargato il tiro anche a lui ma scherzando: meno male. Potevo interrompere il mio
sdegnoso silenzio, ora, e partecipare al gioco. Ha ragione lui, Alekos. Churchill
morì nel Sessantacinque a novantun anni. Ho detto nel Sessantasette, a ottanta.
No, Alekos. Mi dispiace smentirti ma fu proprio nel Sessantacinque. Il 24 gennaio
1965. Lo ricordo bene perché quel giorno ero a Londra e l'indomani nacque mio
figlio. La voce dell'editore era suonata secca, belligerante. Proprio ci di cui avevi
bisogno per cambiare tono: Menti. Non mento, e chiunque ti confermerà che
quella è la data giusta. Chiama l'archivio di un giornale. Lo chiamo io dissi. Poi
mi alzai, tornai, e: Hanno consultato anche l'enciclopedia. Churchill nacque il 30
novembre 1874 e morì il 24 gennaio 1965. E storia.. Gli archivi sbagliano. Le
enciclopedie sbagliano. La storia sbaglia. E tu ci hai rotto i coglioni! Ah, sì? Molto
bene. E, gettata una manciata di soldi sul tavolo, uscisti dal ristorante senza finir
la cena. Senza neanche salutarci.

Ero certa di trovarti a casa quando, a mezzanotte, rientrai.
Ma la casa era vuota e nel cassetto sempre chiuso a chiave, ora spalancato, non
restava che il pacchettino. La busta era scomparsa. Mioddio, che contenesse...?
Spalancai l'armadio con le ante a specchi: se le quattro borse coi timbri c'erano
ancora, il sospetto aveva meno probabilità di sussistere. Ma due borse
mancavano e quindi eri veramente andato ad Atene. Col passaporto falso: la
busta conteneva un passaporto falso. E il pacchetti no? Che cosa c'era nel
pacchettino? Lo aprii. Una parrucca. Biondo castana, da uomo. Allora, forse, non
eri andato ad Atene. Che tu fossi andato a Zurigo? Chiamai Nicola: Lo aspetti?
Deve venire da te? No. Può darsi che venga senza dirtelo? No, perché me lo
chiedi? perché.... Parto subito. E, l'indomani mattina, eccolo arrivare col suo
fazzoletto bianco al taschino e gli occhi più pazienti di sempre. Di che umore era
al ritorno dal viaggio in Svezia? Ottimo. Che busta era questa busta? Normale. La
grandezza di un passaporto? Più o meno. Allora sì, in questo momento sta
viaggiando con un passaporto svedese intestato a qualche signor Bersen o
Eriksson. Ma perché non me l'ha detto? Per le stesse ragioni per cui in campagna
taceva quel che stava architettando: per impedirti di trattenerlo. Rientra nel suo
stile, no? Anche il fatto che t'abbia provocato, offeso, rientra nel suo stile. Anzi nei
suoi stratagemmi. Se non ti avesse offeso, tu non l'avresti offeso.
Quindi gli sarebbe mancato il pretesto per andarsene sicuro di non essere
seguito: solo il litigio rende plausibile una partenza improvvisa e cancella la
necessità di giustificarla con spiegazioni o bugie. Avrei dovuto rendermene conto.
Sarebbe riuscito ugualmente a esasperarti. E un maestro nell'arte di provocare, e
chissà da quanto tempo meditava quella commedia. In certe cose ha una
pazienza disumana. Mi ha negato fiducia. No, ha applicato il suo ragionamento:
chi non sa, non parla. Se ignoriamo dov'è e cosa sta facendo, tacere non ci costa
fatica. Se lo sappiamo, tacere diventa una scelta e un rischio di tradirsi. E poi c'è
un'altra regola che lui segue prima di gettarsi in un'impresa in cui potrebbe finire
male: tagliare i ponti con le persone che ama e che lo amano. Di solito li taglia
con la brutalità o con l'insulto, ritenendo che una persona brutalizzata o
insultata soffra meno ad apprendere che è stato messo in prigione o ucciso. E gli
costa fatica, credimi, infatti doveva esser molto sconvolto ieri sera. Lo prova il
cassetto aperto, e la parrucca lasciata lì. Non credo che l'abbia lasciata lì perché
altrimenti avrebbe dovuto decolorarsi i baffi e le sopracciglia. Mah! Speriamo che

non abbia in mente qualche bravata speciale, qualche nuova sfida che lo
compensi delle sue delusioni. Ma c'è poco da illuderci: ora che anche gli emigrati
lo hanno respinto, vuole più che mai dimostrare di poter far tutto da solo. Non ho
bisogno di nessuno io, faccio tutto da solo, senza i comunisti, senza i
papandreisti, senza il padreterno. Non cambierà mai. E allora, Nicola? Allora
nulla. Non ci resta che attendere. E sperare che torni.
Tornasti al quarto giorno. Uno squillo di telefono e: Sono me! Sono qui! Qui
dove? Alla stazione di Roma! Prendo il treno e vengo! Tre ore dopo eccoti, con la
barba lunga, sporco, spiegazzato, più malconcio di un mendicante che ha dormito
tre notti dentro una fogna. Ma il tuo sorriso era quello di un bambino che ha
vinto una gara o è passato agli esami. Ci sono stato, ci sono stato! Faccio un
bagno e ti dico tutto! Poi riempisti la vasca, ti ci tuffasti con strilli beati, e il
pazzesco racconto fluì: senza una parola di scusa per la storia di Churchill o una
spiegazione che giustificasse i tuoi insulti. Eri stato in Grecia, naturalmente. Coi
tuoi baffi, la tua pipa, il tuo koboloi, riconoscibile tra mille, eri sbarcato
all'aeroporto di Atene col primo volo del mattino e, tranquillamente esibendo il
passaporto svedese di un certo signor Bjorn Gustavsson, t'eri presentato alla
polizia di frontiera. Contavi sul fatto che a volte i poliziotti guardino il passeggero
senza vederlo o confrontino le fotografie dei ricercati solo col ritratto che è sul
passaporto, e pazienza se ci avviene di rado: quando non v'è scelta bisogna
puntar sulla sorte, credere nella fortuna. Rouge ou noir, le jeu est fait, rien ne va
plus. Il poliziotto aveva sfogliato il passaporto con aria distratta, cercando sulla
lista degli indesiderabili il nome Bjorn Gustavsson, confrontando con le fotografie
dei ricercati la fotografia di Bjorn Gustavsson, poi ti aveva ringraziato con uno
sbadiglio: Thank you very much.
Nella mano sinistra tenevi la borsa più grande, quella col sottofondo così fondo
che c'erano entrati ben ventisette timbri, nella mano destra tenevi quella più
piccola con dodici timbri, e dirigendoti verso la dogana ti sentivi tutt'altro che
sollevato: alla dogana avrebbero potuto controllare il passaporto di nuovo,
accorgersi che le borse pesavano un po troppo. Ma se uno pensa a queste cose
non cava un ragno dal buco, no? Comportarsi come se fossero leggerissime,
dunque. Dirigersi verso l'uscita, trattare il doganiere col tono distratto di chi non
ha nulla da dichiarare, nossignore niente sigarette, niente liquori, niente regali,
solo qualche decina di timbri per fabbricare manifestini contro la Giunta ma

questo non ve lo dico e voi siete troppo stupidi, troppo pigri per trovarli. E se
invece non fossero stati affatto stupidi, affatto pigri? Di nuovo rouge ou noir, le
jeu est fait, rien ne va plus. Era andata anche lì, ed eccoti in città con una gran
voglia di correre alla casa col giardino di aranci e limoni, abbracciare tua madre,
ma non lo avevi fatto, s'intende, e per ventiquattr'ore eri rimasto sempre nascosto
in casa di un amico. Lì avevi lasciato i timbri e incontrato quattro compagni che
chiamavi Esercito Popolare di Resistenza Armata. Un nome che t'era piaciuto
perché le iniziali componevano la parola Las, Popolo. Laics, popolare. Antochì,
resistenza. Oploforì, armata. Strats, esercito. Infatti i timbri erano tutti firmati
Las. Ma cosa ci fai con un esercito di quattro soldati?! Vedrai. L'ho diviso in
reggimenti: Laos 1, Laos 2, Laos 3, Laos 4. Un uomo per reggimento. Non la
smetterai mai di bluffare, vero? No.
Il giorno seguente lo avevi impiegato a far ciò che in fondo all'anima ti premeva di
più: umiliare Joannidis. Il sistema che avevi scelto era semplice: mostrarti in vari
punti della capitale con apparizioni fugaci e improvvise, da Primula Rossa.
Entravi in un bar, ti fermavi su un marciapiede, salivi su un taxi, ne scendevi,
indugiavi nella hall di un albergo, e appena udivi quel gridolino soffocato,
Panagulis! E Panagulis?!? sparivi per riapparire altrove, magari in un quartiere
lontano, alimentando stupori e incertezze. E tornato Panagulis, l'hanno visto in
piazza della Costituzione. No, dinanzi al Politecnico. No, in Kolonaki. No, a
Kypseli. No, a Pagrati. No, alla Plaka. No, al Pireo. No, a Glyfada. Non è possibile,
sì che è possibile, l'ho osservato bene, era proprio lui coi suoi baffi e la sua pipa e
il suo koboloi, l'ho anche salutato, l'ho anche chiamato. Oppure: volevo salutarlo,
volevo chiamarlo, ma quando ho attraversato la strada, quando ho girato lo
sguardo, non c'era più.
Presto la voce era diventata notizia e la notizia era giunta al quartier generale
dell'Esa, il guaio è che Joannidis non ci aveva creduto. E tu come lo sai? Lo so
perché all'Esa ho telefonato due volte. E gli ho detto: "Badate, Panagulis è qui,
avvertite il brigadier generale". E il centralinista: Ci hanno già informato, non è
vero". Dopo un po ho telefonato di nuovo e gli ho detto: Badate che è vero, sono io
Panagulis". E sai che mi ha risposto, l'idiota? Mi ha risposto: E io sono
Karamanlisn.
Allora m'è venuta un'idea, l'idea di fornirgli una prova indiscutibile, e sono salito
sull'Acropoli, insieme a un amico, mi sono fatto fotografare davanti al Partenone

tenendo fra le mani un quotidiano aperto. perché si leggesse chiaramente i titoli e
la data, mi spiego? Se non si leggevano i titoli e la data, sembrava una vecchia
istantanea. Infine ho fatto stampare una copia formato cartolina e l'ho spedita a
Joannidis con questa dedica: Da Alessandro Panagulis che in Grecia ci viene
quando vuole, e vuole che tu lo sappia". Non ci credo. Te lo giuro!. E schizzando
fuori dalla vasca corresti a prendere le copie che avevi tenuto per te. Era come
dicevi. E per ripartire? Uhm! quello è stato difficile. No, è stato un miracolo. La
carta d'imbarco l'aveva ritirata il mio amico ma ora dovevo passare di nuovo il
controllo passaporti e non ti dico la paura.
Poi ho scorto una trentina di turisti che viaggiavano in gruppo e mi sono
mischiato a loro. Facevano tanta confusione che quel povero poliziotto ha perso la
testa. Non ha nemmeno capito chi di noi era Bjorn Gustavsson. Ha messo il
timbro e basta. Guarda.
Guardai e quasi mi si piegarono le gambe. Non per il timbro che era proprio il
timbro dell'aeroporto d'Atene, fresco di giornata, ma per il passaporto di cui t'eri
servito sia all'andata che al ritorno. Bjorn Gustavsson era un ragazzo che ti
assomigliava quanto un pechinese bianco assomiglia a un alano nero.
Aveva un volto delicato e imberbe, lineamenti così fini che a colpo d'occhio lo
avresti creduto un efebo o una fanciulla, capelli così biondi e occhi così chiari da
sembrare un albino.
E, quasi ci non bastasse, la sua data di nascita corrispondeva in pieno al suo
aspetto: diciotto anni. Sei pazzo, Alekos.
Uhm... Forse hai ragione. Bisogna che cambi la fotografia.
Oppure che mi tagli i baffi.
Non ti saresti mai tagliato i baffi e non avresti mai cambiato la fotografia. Però
avresti trovato un passaporto che apparteneva a un italiano il cui tipo fisico
corrispondeva un po al tuo, e i viaggi sarebbero continuati, sempre col prologo di
quell'assurda commedia. Di rado mi confidavi la verità. Fedele ai principi che
Nicola m'aveva spiegato, chi non sa non si angoscia e non parla, insieme sedotto
dal gusto della cospirazione, ogni volta che partivi per la Grecia riuscivi a
imbrogliarmi, attirarmi in qualche litigio che giustificasse il me ne vado.
E, sebbene conoscessi ormai il trucco, ogni volta ci ricadevo.
Non sai nemmeno telefonare. Che bisogno c'è di tenere l'indice infilato nel foro del
disco sia all'andata che al ritorno? Il disco torna indietro da solo, no? Piantala,

Alekos. Io telefono come mi pare. Non la pianto, togli il dito, mi rende
nervoso..Alekos, vuoi lasciarmi in pace, sì o no? Bene, ti lascio in pace, me ne
vado. Oppure: Venezia è una bambola morta.
Forse, però a me piace lo stesso. perché non hai gusto. Be', tutto si può dire
eccetto che chi ama Venezia non ha gusto. E io lo dico invece. Senti questo
profumo: è di cattivo gusto, puzza. Puzza di bambola morta, ecco perché ti piace
Venezia.
Scemo, villano. Scemo? Villano? Sì, ed aggiungo: hai ragione, ho cattivo gusto,
infatti vivo con te. Da oggi non ci vivi più, me ne vado. Te ne andavi e solo
l'indomani capivo d'esserci caduta di nuovo come una babbea. Poi, passati tre o
quattro giorni tornavi: Sono io! Sono me! Indovina dove sono stato! Oppure: Ciao,
alitaki. Ti ho portato un profumo da Atene. Questo non puzza. Non me ne
offendevo neanche più.
finché durava il viaggio, la stizza era sostituita dall'angoscia di saperti in pericolo;
dopo, era superata dal sollievo di rivederti.
Mi chiedevo semmai quale senso avessero quei rientri da Primula Rossa, a cosa
servissero fuorché a tenerti in esercizio, alimentare la schermaglia con la morte: a
prender contatti con Laos 1, Laos 2, Laos 3, Laos 4? Ad organizzare imprese che
puntualmente non si sarebbero realizzate? A tentar di strappare qualche soldato
ai comunisti o ai papandreisti, ridurre una solitudine che incominciava a pesarti?
Per non umiliarti, evitavo perfino di rivolgerti domande: fingevo di credere che si
trattasse di spedizioni utilissime e da cui sarebbero sfociate cose memorabili. Poi,
una sera di fine febbraio, eravamo in casa e leggevo i giornali, lo sguardo mi
cadde su una notizia da Atene. Dieci righe, non più. La notte prima, diceva la
notizia, quattro bombe erano esplose in una fabbrica, senza causar vittime. Una
quinta invece era scoppiata mentre due artificieri, un civile e un militare, la
stavano disinnescando. I due artificieri erano morti. Sul luogo la polizia aveva
trovato i manifestini di un gruppo che si definiva Laos 8. Ti cercai gli occhi:
Come vanno i tuoi quattro reggimenti? Non sono più quattro, sono otto
rispondesti con un sorriso felice. Ho arruolato Laos 5, Laos 6, Laos 7, Laos 8. Fra
qualche giorno vedrai che succede! E già successo, Alekos. Stanotte. Cosa?
Cinque bombe. Una è scoppiata mentre cercavano di disinnescarla.
Ha ucciso un civile e un militare. Dove? In una fabbrica. Io non c'entro. Sì che
c'entri. C'erano i manifestini di Laos 8. Il sorriso svanì. Balzasti in piedi, mi

strappasti di mano il giornale e: Devo partire.. Partire?! perché? perché mi hanno
disubbidito, disubbidito! In cosa? In tutto, in tutto! Non doveva scoppiare lì, non
doveva! Non doveva ammazzare nessuno, non doveva! Cretini! Imbecilli! Alekos, il
minimo che possa capitare a metter le bombe è che salti in aria chi va a
disinnescarle. Lo so. Devo partire. Alekos, non è colpa loro se sono morti quei due
artificieri. Sei anni fa poteva accadere lo stesso, anche una delle tue mine non
esplose. Lo so. Devo partire.
La resistenza armata è una guerra, Alekos, e alla guerra non si sparano
caramelle: se il tuo attentato a Papadopulos fosse riuscito, chissà quante persone
sarebbero morte con lui. Lo so. Devo partire. Non partirai! Stavolta te lo impedirò!
Non partisti. Ne io vi detti peso: era una tua caratteristica fare tutto il contrario di
ciò che annunciavi. Evidentemente, mi dissi, il trauma dei due morti aveva
causato in te una crisi passeggera e subito dopo avevi capito che sarebbe stato
saggio tenerti lontano dalla Grecia per un po. Non ne parlasti neanche più, ed era
trascorso un mese da quel dialogo, nel frattempo erano avvenuti i drammi che
vedremo, quando andammo a Roma ma, appena giunti a Roma, cominciasti a
dire che dovevi recarti a Milano. La cosa mi insospettì, anche perché non
avanzavi una scusa plausibile per recarti a Milano. Guardami in faccia, Alekos:
Milano o Atene? Macché Atene, che c'entra Atene? E poi, per convincerti che vado
a Milano, non hai che da accompagnarmi a Milano. D'accordo. Stasera? Stasera..
Prenota il vagone letto. Il vagone letto? Ma se non lo prendi mai! Se dici sempre
che è insidioso, una trappola, che chiunque può rubare le chiavi all'inserviente ed
entrare in cabina, che l'aereo è meglio? No, l'aereo, no. Oggi no. Prenotai il
vagone letto e, nel corso della giornata, pubblicizzasti la cosa in ogni modo
possibile: telefonando dall'appartamento coi microfoni nascosti, chiamando più
volte il portiere per assicurarti che la cabina ci fosse, informandoti ad alta voce
sull'orario preciso. Quando lasciammo l'albergo non c'era un cane che ignorasse
il tuo programma e, così reclamizzati, eccoci alla stazione, sul treno, nella cabina
dove l'inserviente sistema le valigie e dove, inaspettatamente, il sipario s'alza sulla
commedia. Tu non vuoi venire a Milano con me. Non voglio venire, Alekos?! Ma se
sono qui! Sei qui col muso lungo e la gente col muso lungo io non la sopporto. Ti
sbagli. Non mi sbaglio e a Milano con te io non ci vengo. In cabina con chi mi
guarda storto io non ci sto. Ascoltami bene, Alekos: l'idea di andare a Milano è
tua, io non ho alcun bisogno di andare a Milano. Non ho il muso lungo, non ti

guardo storto, e tu cerchi una rissa. Non starai mica per sostenere che Churchill
è morto stamani a vent'anni? E, mentre dicevo così, compresi che la storia del
recarsi a Milano col vagone letto era una commedia per trarre in inganno me e chi
controllava i tuoi spostamenti. L'avevi architettata per volare ad Atene senza che
ti seguissi e ancora una volta mi avevi mentito, ancora una volta c'ero cascata nel
modo più sciocco. gettai un'occhiata all'orologio; mancava un minuto alla
partenza. Presto il capostazione avrebbe fischiato, il treno si sarebbe mosso, e
non c'era più tempo di scaricar le valigie. Oltretutto ciò avrebbe attratto
attenzione e rovinato i tuoi piani. Non c'era proprio nulla da fare, dunque, nulla.
Caddi a sedere sulla cuccetta, udi la mia voce mormorare: Potevi evitarlo. Poi la
tua rispondere: No, non potevo. Il capostazione fischi. Ti lanciasti nel corridoio,
raggiungesti lo sportello, lo apristi, scendesti. Il treno si mosse mentre sgusciavi
via sotto la pensilina, a testa bassa, senza voltarti indietro.
Un giorno, due giorni, tre giorni: credevo che non sarei mai stata capace di
perdonarti quell'ennesima beffa e, infatti, alla casa nel bosco ero tornata soltanto
per raccogliere le mie cose, lasciarti una lettera che spiegasse il mio rifiuto di
continuare un rapporto simile. Non ero una Penelope che attende Ulisse tessendo
la tela, diceva la lettera, ero io stessa un Ulisse che aveva sempre vissuto da
Ulisse e il fatto che per te avessi tradito la mia natura diventando un Sancho
Panza non ti autorizzava a certe arroganze; comunque Sancho Panza segue don
Chisciotte, ne riscuote la confidenza, non viene abbandonato su un treno come
una valigia. Ma quando, quattro giorni dopo, ti vidi in quelle condizioni, la mia
rivolta sfumò. Sembravi una maschera di carnevale: metà del tuo volto era rosso
paonazzo e metà bianco, esangue. La linea che divideva i due colori partiva dalla
fronte, percorrendo il naso scendeva giù fino al mento e al collo, e se dalla parte
bianca l'occhio era normale, dalla parte rossa appariva mostruosamente gonfio.
Che cosa hai fatto?!? Invece di rispondere prendesti un fiasco di vino, lo stappasti
e ti mettesti a bere. In silenzio, con fredda determinazione, bicchiere dopo
bicchiere. Le sole parole che ogni tanto uscivano dalla tua bocca erano: Non
riesco a ubriacarmi, non riesco a ubriacarmi. Non ci riuscivi davvero, il tuo
sguardo restava limpido e la tua voce articolata, ti reggevi benissimo in piedi. A
metà fiasco ti dirigesti verso il mobile bar dove tenevamo i liquori che non ti
piacevano, tirasti fuori tutte le bottiglie che conteneva, le allineasti sul tavolo,
tornasti a bere ora da una bottiglia e ora da un'altra. Mischiavi di proposito,

magari versando insieme la vodka il whisky il cognac, poi trangugiando l'intruglio
con lo scatto deciso di chi inghiotte una medicina disgustosa, e finalmente fosti
ubriaco al punto che desideravi. Il terzo stadio, la morte temporanea. Per stavolta
essa non ti condusse nelle sconfinate pianure del sogno, non ti precipitò nel dolce
limbo della dimenticanza, nei soffici abissi del nulla. Presto ti riavesti e il risveglio
fu un pianto straziante, lacrime e singhiozzi che ti soffocavano, parole rotte che
filtravano dal fazzoletto bagnato in un ritornello monotono. Via, mi dicevano, via!
Via! Vai via, via! Chi te lo diceva, chi? Loro. Via, mi dicevano, via! Via! Vai via, via!
Ci volle l'intera notte perché capissi cos'era avvenuto ad Atene dove, dopo le
cinque bombe e la morte dei due artificieri, nessuno aveva più il coraggio di
avvicinarti, ne permetteva che tu ti avvicinassi. Soltanto due avevano accettato
un incontro sulla spiaggia, ma non per ascoltare ciò che volevi dire bensì per
informarti che questo era un addio: il tuo tipo di lotta non li interessava, sicché
avevano deciso di entrare in un partito e ci sarebbero entrati. Buona fortuna e
ciao. Allora ti chiesi dove tu avessi dormito e, indicando la parte paonazza del
volto, rispondesti: .Dove dormono i mendicanti e i cani randagi. Poi mi confidasti
che, dopo aver cercato invano un giaciglio per riposarti, verso l'alba eri tornato
alla spiaggia. T'eri disteso su un fianco, metà faccia appoggiata a un guanciale di
rena, metà esposta al sole che stava sorgendo, e subito t'aveva colto un malore.
Eri rimasto così, privo di sensi, fino al pomeriggio quando avevi aperto gli occhi
per trovarti circondato da un branco di ragazzini che si divertivano a
punzecchiarti e a spruzzarti d'acqua. E morto, è morto! Senza reagire, non ne
avevi la forza, t'eri alzato e a piedi avevi raggiunto l'aeroporto.
Mi frizzava una guancia e una palpebra, di questa stagione ad Atene il sole brucia
quasi quanto in estate, e avevo paura che si vedesse. Invece non si vedeva nulla.
E diventato rosso dopo, in treno. Ti medicai con la pomata per le scottature,
cercai di consolarti: Al prossimo viaggio, Alekos... Mi interrompesti: Non ci sarà
un prossimo viaggio. Da oggi sono veramente in esilio. Meglio così perché alle
bombe, agli scoppi, alle armi, io non ci credo più. Qualsiasi imbecille può pigiare
un grilletto, dar fuoco a una miccia, ammazzare due artificieri e perfino un
tiranno. E poi? Cosa cambia? Morto un tiranno se ne fa un altro, e spesso i futuri
tiranni sono proprio coloro che hanno sparato. No, non è seminando cadaveri che
si rende il mondo un po più sopportabile. E con le idee! Le vere bombe sono le

idee! Oh, Thes! Thes mu! Quanti anni ho sprecato! E tempo ch'io mi metta a
pensare. Il guaio è che sono stanco. Maledettamente stanco.
Era la prima volta che mi dicevi: le vere bombe sono le idee, qualsiasi imbecille
può pigiare un grilletto o dar fuoco a una miccia o ammazzare due artificieri e
perfino un tiranno.
Ti guardai sbalordita. Quando avevi incominciato a capirlo, cosa aveva fatto
scattare la molla d'una conclusione così contraria al tuo personaggio? Era stata
la morte dei due artificieri, era stato il trauma di vederti respingere dal tuo
esercito esiguo, oppure quegli episodi avevano sbocciato un seme che da sempre
dormiva nel retroterra della tua coscienza? Che vittoria se tu ti fossi messo
davvero a riflettere, dar corpo alle intuizioni che fino ad oggi avevi espresso
soltanto attraverso brevi sentenze o poesie! Che dono se tu fossi riuscito ad
affrontare le verità che non si affrontano mai perché non conviene o perché ce ne
manca il coraggio o perché una benda sugli occhi, la benda imposta dalle
dittature intellettuali, ci impedisce di vederle! Ad esempio i motivi per cui eri solo
e qualsiasi cosa tu facessi restavi solo. E i motivi per cui, lungi dall'essere un
male, ciò era un bene. Un dolore e una fatica, sì, ma un bene: l'unico modo
umano di battersi, di credere nella libertà, di rendere il mondo un po più pulito,
un po più intelligente, un po più sopportabile. perché il mondo non è un concetto
astratto: il mondo sono io, sei tu, è lui. E se non cambio io, se non cambi tu, se
non cambia lui, separatamente, individualmente, di propria iniziativa, non
cambia nulla e si resta schiavi.
Il fatto è che avevi ammesso la tua stanchezza. E che quella stanchezza esistesse
io me n'ero resa già conto. Se percorrevo a ritroso la storia delle ultime settimane,
potevo addirittura individuare l'episodio in seguito al quale ci m'era apparso
evidente. Ora te lo racconto.
All'inizio della primavera, quindi molto prima che il tragico viaggio ad Atene
spengesse ogni speranza di dare un senso al tuo esilio, la casa nel bosco era stata
scoperta. Ce ne eravamo accorti notando un gruppo di giovanotti in blue jeans
che dalla mattina al tramonto sostavano dinanzi al cancello, presso la fermata
dell'autobus. Erano strani giovanotti. Anzitutto perché a guardarli pareva che
stessero lì proprio per aspettar l'autobus ma quando l'autobus arrivava non ci
salivano; poi perché da lontano li vedevi discutere con vivacità ma, quando ti
avvicinavi, diventavano muti. Quasi non volessero farci udire in che lingua

parlavano. Il loro numero variava da tre a cinque, due però non mancavano mai
ed erano i due che alla cintura portavano una fibbia con la svastica. Italiani o
greci? Naturalmente avevamo anche considerato l'eventualità che fossero soltanto
oziosi cui piaceva incontrarsi in quel punto, oppure che i due con la svastica
abitassero nella villa, ma non una volta li avevamo sorpresi al di qua del cancello
e, alla fine, eravamo stati costretti ad ammettere che il motivo della loro presenza
eri proprio tu. Li mandava qualcuno cui interessava conoscere ogni tua mossa
per controllare i tuoi espatrii oppure qualcuno che si preparava a rapirti,
ucciderti? La prima settimana volevi affrontarli, poi ci avevi ripensato osservando
che se non ci molestavano con gesti o parole non potevamo prendere iniziative;
anzi era saggio fingere di non averli notati. L'unico atto di guerra al quale
indulgevi, sia uscendo di casa che rientrando, era brandire la pipa come una
spada: impugnarla cioè dalla parte del fornello. Sai che arma è questa? Se uno ti
aggredisce non hai che infilargliela in un occhio. E se manchi l'occhio? E lo
stesso, ovunque tu colpisca fai un buco. Purché il bocchino sia lungo, s'intende, e
non curvo. E guai a replicare che sarebbe stato meglio avere una rivoltella, che
avrei comprato una rivoltella, che l'avrei tenuta in borsa.
Niente armi! Te lo proibisco! La tua fiducia nell'uso bellico della pipa col bocchino
lungo e non curvo era così illimitata da renderti sordo ad ogni mia perplessità e,
del resto, non ti avrei mai visto con una rivoltella in mano. Tu che passavi per un
dinamitardo, un cultore di esplosivi e di armi, assalti alle caserme, resistenza
armata, per le armi avevi come una ripugnanza fisica. Non sapevi nemmeno
usarle, non eri nemmeno capace di imbracciare correttamente un fucile da
caccia: tenevi il calcio basso, non ci appoggiavi la guancia, e mancavi sempre
l'obiettivo. Anche se questo era un uccello addormentato su un ramo a due metri.
Poi ti consolavi dicendo: Se lo rivedo, quello lì, gli dò un colpo di pipa e lo stendo!
E torniamo ai giovanotti in blue jeans. La primavera scivolava piena di tepori
verso l'estate, quando la silenziosa persecuzione del gruppo dinanzi al cancello
finì e al posto di quella ne fiorì un'altra: più raffinata e crudele. Ogni notte,
appena spengevamo le lampade e ci mettevamo a dormire, dalla finestra col
terrazzo di ferro battuto irrompeva un bagliore rotondo e ci cadeva addosso come
un sasso di luce. In che modo riuscissero a dirigerlo dentro la stanza con tanta
esattezza non lo avremmo capito mai. Scrutando nel buio del parco, infatti,
vedevamo bene che la torcia elettrica era lontana, oltre i pini che orlavano il muro

di cinta: per colpire la nostra finestra il sasso di luce doveva quindi passare tra
decine di alberi e trovare un corridoio privo di tronchi e di fronde. Tuttavia ci
riusciva perfettamente e, malgrado la barriera delle persiane, il bagliore ci
tormentava senza fine: ora girando lento sulle pareti o sul soffitto o sul letto, ora
guizzando nervoso dall'alto al basso e da destra a sinistra, a segno di croce, ora
sfolgorando maligno a zigzag per investirci sugli occhi, caldo, impalpabile. E
questo era il momento in cui perdevi la testa. Non lo sopportavi proprio
quell'impalpabile caldo sugli occhi e, puntualmente, correvi a
spalancare le persiane, piombavi sul terrazzo e gridavi vigliacchi uscite dall'ombra
vigliacchi, se non uscite scendo io a cercarvi. E va da se che non scendevi mai: lo
sapevi benissimo che proprio questo volevano, esasperarti per farti scendere e
averti alla loro merce, poi dire che eri stato tu ad aggredirli. Quella volta invece
no. Nell'attimo stesso in cui il bagliore ci investì sugli occhi, ti vidi schizzare dal
letto infilare i pantaloni calzare le scarpe e, prima che me ne rendessi conto, eri
già sul terrazzo a tuonare Vengo! poi correvi verso la porta. Feci appena in tempo
a raggiungerti, sfilare la chiave, impossessarmene, ed ecco che con tutto l'impeto
della tua rabbia tenti di aprirmi la mano, diminuire la morsa delle mie dita,
agguantarmi il pollice poi l'indice poi il medio, ma più fai leva più stringo, allora
mi afferri il polso e me lo torci con malvagità, mi pieghi il braccio e sembra che tu
voglia scardinarlo, mi butti per terra e cadi con me che mi difendo male perché
posso opporti un braccio solo, una mano sola, per mi difendo e accetto il
combattimento. Un combattimento sordo, muto, cattivo, una lotta di serpenti che
si aggrovigliano per strozzarsi, entrambi decisi a non cedere, e intanto si
infliggono colpi, si fanno male senza che una parola esca dalla loro bocca, l'unico
suono è un ansimare affannoso, una specie di rantolo, e d'un tratto una mazzata
mi squarcia il ventre. Un dolore acutissimo. La chiave è nelle tue mani. La mia
voce rompe il silenzio per dire ciò che ignori: Il bambino.
Ti intirizzisti come colpito da una fucilata in mezzo alla fronte. Rimanesti qualche
secondo a fissarmi con gli occhi sbarrati, le labbra dischiuse. Poi esalasti
l'invocazione. Oh, Thes! Thes mu! Oh, Dio! Dio mio! Poi ti levasti e, dimentico del
bagliore che continuava a girare e guizzare impietoso su di noi, intorno a noi,
dimentico perfino di me che giacevo sul pavimento trafitta da quel dolore nel
ventre, insopportabile ora ed esasperato da mille coltelli, scoppiasti in
un'esultanza così frenetica che sembravi uscito di senno. Ridevi, piangevi, saltavi,

ballavi, applaudivi. Non ti accorgevi nemmeno della mia sofferenza, infatti non
per placarla mi sollevavi alla fine con delicatezza, mi posavi sul letto con
tenerezza, appoggiavi la testa al mio corpo, gorgogliavi buongiorno bambino,
ancora delle ancore, catena delle catene, gioia delle gioie, vino di tutti i vini, tu
non sai chi sono io, io sono te, non lo sai chi sei tu, tu sei me, sei la vita che non
muore. La vita, la vita, la vita.
I zoì, i zoì, i zoì. Scappa dal buio, bambino, scappa presto e noi andremo lontano,
in un posto dove non ci potranno trovare, dove potremo giocare. Basta soffrire,
basta lottare. Quel monologo pazzo, soave, meraviglioso, straziante, mentre i colpi
di coltello crescevano di numero e intensità, e il rimpianto di non avertelo detto
prima mi ammutoliva, il rimorso di non aver capito prima che un figlio sarebbe
stato l'unico rivale del tuo destino. perché, se lo avessi capito prima, non avrei
avuto
bisogno di scagliarmi sulla porta e sfilare la chiave e ingaggiare quel
combattimento bestiale, subire quel terribile calcio che lo aveva ferito a morte.
Sul fatto che la mazzata lo avesse ferito a morte non esistevano dubbi, i sintomi si
annunciavano già inequivocabili: nessun miracolo, n'ero certa, avrebbe potuto
resuscitare l'inerte creatura sepolta dentro di me. Tuttavia tacevo, incapace di
spazzar via la tua inutile felicità: meglio lasciarti qualche ora nell'illusione,
pensavo, e nel frattempo rimanere immobile, recuperare le forze per trascinarmi
da un medico. Così feci e, al mattino, ben attenta a non svegliarti, mi staccai
piano da te, mi recai a udire la conferma di ci che sapevo. Ma avevo fatto i conti
senza calcolare che dirtelo dopo sarebbe stato molto peggio perché ne saresti
rimasto sconvolto in modo assai più violento: fino a rinnovare il complesso di
colpa in cui ti maceravi, ogni volta, pensando alle creature che avevi amato e
perduto. Tuo padre, tuo fratello Giorgio, Policarpo Gheorgazis. Io sono la morte. Io
mi porto addosso la morte e la distribuisco mormorasti quando mi vedesti e
vedesti quell'inerte informe fagottino. Poi sparisti per quattro giorni e la sera che
ti rividi durai fatica a riconoscerti. Le occhiaie livide, la barba lunga, la camicia
sozza di rossetto, il fiato che puzzava di alcool, camminavi barcollando e sembravi
la caricatura di uno sciagurato che ha trascorso quattro giorni e quattro notti
gozzovigliando in bagordi sfrenati. Dio sa dove, Dio sa con chi. E senza dar
spiegazioni, senza neanche chiedermi come stavo, crollasti sulla poltrona a
dondolo, attaccasti uno sconnesso lamento sulla stanchezza che ti svuotava il

corpo e l'anima, sono vecchio, sono già vecchio, guarda ho i capelli bianchi, ho
anche una lombaggine, e mal di fegato e la tosse.
I capelli bianchi erano un ciuffetto argenteo che avevi già a Boiati, la lombaggine
era un reumatismo lieve e passeggero, il mal di fegato era l'ovvia conseguenza del
bere, la tosse l'ovvia conseguenza del fumare. Ma in quel momento ti credevi
davvero vecchio. perché ti sentivi sconfitto dall'esistenza.
Eppure ti mettesti a pensare. Faticosamente a volte, ingenuamente altre, magari
liquidando con una certa faciloneria concetti da approfondire, oppure
presentando verità ovvie come se fossero scoperte nuovissime, in alcuni casi
addirittura ripetendo principi enunciati centocinquanta anni prima da un
anarchismo individualista che dietro le sue doppie lenti Nenni aveva subito
individuato, ma ti mettesti a pensare: meravigliosamente libero dagli schemi delle
dittature intellettuali che soprattutto in quegli anni accecavano e ammutolivano.
Leggevi, scrivevi. Rientrando in casa o in albergo, ti sorprendevo quasi sempre a
leggere o a scrivere. Bigliettini, fogliolini, appunti che poi mi traducevi o mi leggevi
con l'orgoglio di un fanciullo che ha composto un bel tema in classe. Senti cosa
ho fatto oggi, senti cosa ho deciso oggi, te lo leggo ecco qua. Questa è l'epoca degli
ismi.
Comunismo, capitalismo, marxismo, storicismo, progressismo, socialismo,
deviazionismo, corporativismo, sindacalismo, fascismo: e nessuno s'accorge che
ogni ismo fa rima con fanatismo. Questa è l'epoca degli anti: anticomunista,
anticapitalista, antimarxista, antistoricista, antiprogressista, antisocialista,
antideviazionista, anticorporativista, antisindacalista, antifascista: e nessuno
s'accorge che ogni ista fa rima con fascista.
Nessuno dice che il vero fascismo consiste nell'essere anti per principio, per bizza,
cioè nel negare a priori che in ogni corrente di pensiero vi sia qualcosa di giusto o
qualcosa da usare per cercare il giusto. E ad incasellarsi nel dogma, nella cieca
certezza d'aver conquistato la verità in assoluto, sia essa il dogma della verginità
di Maria o il dogma della dittatura del proletariato o il dogma dell'Ordine e Legge,
che si perde il senso anzi il significato della libertà: unico concetto inappellabile e
indiscutibile. Tant'è vero che la parola libertà non ha sinonimi, ha solo estensioni
o aggettivi: libertà individuale, collettiva, personale, morale, fisica, naturale,
religiosa, politica, civile, commerciale, giuridica, sociale, artistica, di espressione,
di opinione, di culto, di stampa, di sciopero, di parola, di fede, di coscienza. Al

limite essa è l'unico ismo cioè l'unico fanatismo ammissibile: perché senza di essa
un uomo non è un uomo e il pensiero non è pensiero. Bravo! Ti piace? Ti piace
veramente? Allora senti quest'altra perché quest'altra è più importante, parla
della destra e della sinistra, degli intellettuali di merda che con la loro falsa
sinistra mi hanno proprio rotto i coglioni. Agitavi un foglio pieno di segnacci,
cancellature, e ricominciavi a declamare.
Molti intellettuali credono che essere intellettuali significhi enunciare ideologie, o
elaborarle, manipolarle, e poi sposarle per interpretare la vita secondo formule e
verità assolute.
Questo senza curarsi della realtà, dell'uomo, di loro stessi, cioè senza voler
ammettere che essi stessi non sono fatti soltanto di cervello: hanno anche un
cuore o qualcosa che assomiglia a un cuore, e un intestino e uno sfintere, quindi
sentimenti e bisogni estranei all'intelligenza, non controllabili dall'intelligenza.
Questi intellettuali non sono intelligenti, sono stupidi, e in ultima analisi non
sono nemmeno intellettuali ma sacerdoti di una ideologia. Con l'ottusità dei
sacerdoti non riconoscono che, una volta sposati all'ideologia, e peggio ancora se
sposati all'ideologia con un matrimonio che esclude l'adulterio e il divorzio, non si
è più liberi di pensare. perché si piega tutto a quella soluzione, si giudica tutto
secondo quegli schemi: da una parte l'inferno e dall'altra il paradiso, da una parte
il lecito e dall'altra l'illecito. Ergo, per fare i coerenti costoro diventano incoerenti
anzi disonesti. Prendi l'intellettuale di sinistra, l'intellettuale che oggi va di moda,
o meglio l'intellettuale che segue la moda per comodità o per paura o per
mancanza di fantasia: egli sarà sempre pronto a condannare le dittature di
destra, bontà sua, per mai o quasi mai le dittature di sinistra. Le prime le
disseziona, le studia, le combatte coi libri e coi manifesti; le seconde le tace o le
scagiona o al massimo le critica con imbarazzo e con timidezza. In certi casi
addirittura ricorrendo a Machiavelli il fine giustifica i mezzi. Quale fine? Quello di
una società concepita su principi astratti, calcoli matematici, due più due fa
quattro, tesi e antitesi uguale sintesi, e cioè senza tener conto che nella
matematica moderna due più due non fa necessariamente quattro, magari fa
trentasei, o senza tener conto che nella filosofia più avanzata la tesi e l'antitesi
sono la medesima cosa, che la materia e l'antimateria sono due aspetti
dell'identica realtà? E grazie ai loro calcoli, cioè al lugubre fanatismo delle
ideologie, all'illusione anzi alla presunzione che il Buono e il Bello stiano da una

parte sola, che un genocidio o un assassinio o un abuso sono considerati
illegittimi se avvengono a destra e diventano legittimi o almeno giustificabili se
avvengono a sinistra. Conclusione, il grande malanno del nostro tempo si chiama
ideologia e i portatori del suo contagio sono gli intellettuali stupidi: i sacerdoti
laici e non disposti ad ammettere che la vita (ci che essi chiamano Storia)
provvede da sola a ridimensionare le loro masturbazioni mentali, quindi a
dimostrare l'artificialità del dogma. La sua fragilità, la sua irrealtà. Se non fosse
così, perché i regimi comunisti ripeterebbero le stesse infamie dei regimi
capitalisti? perché avrebbero gli stessi Joannidis, gli stessi Hazizikis, gli stessi
Teofilojannacos, gli stessi Zakarikis dei regimi fascisti? E perché si
combatterebbero fra loro, sorretti da sentimenti e bisogni come l'amor di patria e
il nazionalismo egoista? E tempo di denunciare il malanno, senza timidezze,
senza imbarazzi, senza paure. E per farlo non bisogna fermarci a Marx e ai
marxisti, bisogna tornare indietro di almeno duemila anni, rifarsi all'ideologia
cristiana. E quella che ha concepito l'innaturale divisione, da una parte il lecito e
dall'altra l'illecito, da una parte il Paradiso e dall'altra l'Inferno. Oggi i padroni del
nostro cervello, i teologi della sinistra, non fanno che ripetere gli errori di quei
maestri: togli all'asta della bandiera la croce, mettici la falce e il martello, e vedrai
che rimane la stessa cosa: un cencio che sventola i soliti privilegi, le solite
ambizioni, i soliti imbrogli..
Poi: Ti piace? Ti piace davvero? Sai, sono appunti. Peccato che non li abbia presi
prima, a Boiati. Eh! Peccato che non li abbia presi a Boiati. Il fatto è che in
prigione non si riesce a pensare.
Si ha tutto quel tempo eppure non si riesce a pensare, è già abbastanza se si urla
qualche poesia..
Studiavi. Proudhon, per esempio, il cui socialismo libertario e negatore di violenza
si addiceva alla tua ricerca. E poi Platone, sebbene non capissi cosa cercavi in
Platone, e poi scrittori come Albert Camus che chiamavi Camìs perché in greco la
u si pronuncia i: ne c'era verso di farti pronunciare Camus. .Camus! Camìs!
Adoravi Camus-Camìs perché nella tarda adolescenza t'era capitato di leggere il
testo della sua polemica con Sartre. Un idealista che sa opporsi al messianismo
dei principi assoluti dicevi di Camus-Camìs. E, magari inserendo qualcosa di tuo,
una frase o un paragone o un ragionamento, alterandone la forma per tua
convenienza, ne recitavi spesso i brani che riassumevano le tue posizioni. Senti

questa: "Le religioni organizzate non corrispondono ai bisogni dell'uomo moderno,
le pantomime religiose non hanno senso nella nostra epoca, sia che esse vengano
dalle chiese, sia che esse si presentino con gli abiti nuovi o pseudonuovi del
marxismo'. Ora senti questa: "Un uomo intelligente non può accettare
un'ideologia che lo consegna per intero alla Storia, che lo considera un soggetto
passivo di essa. E infame parlare degli uomini in termini di compiti storici, è
pericoloso. perché, dopo averlo detto coi libri, lo si dice con la polizia: stabilendo a
che ora devo o non devo andare a letto, a che ora posso o non posso bere una
bottiglia di vino, infine mettendomi in fila sulla piazza Rossa perché vada a
inginocchiarmi sul Santo Sepolcro di Lenin. No, non si può giustificare qualsiasi
cosa in nome della logica e della Storia. Non è la logica che fa la Storia!" Camus
non dice così, Alekos. Dice: la Storia non è tutto. E poi non parla affatto della
bottiglia di vino e del Santo Sepolcro di Lenin! Che c'entra? Io lo completo, lo
perfeziono. A volte, invece, trascrivevi i brani con lo scrupolo di un amanuense
che copia il Nuovo Testamento su pergamene miniate, e me li recitavi con fedeltà:
Bisogna, oggi, formulare due domande. Accettate o no, direttamente o
indirettamente, d'esser ucciso o fatto oggetto di violenza? Ve la sentite o no,
direttamente o indirettamente, di uccidere o recar violenza? Coloro che
risponderanno a entrambe le domande saranno automaticamente impegnati in
una serie di conseguenze da cui risulterà un nuovo modo di impostare il
problema della lotta . Ed anche: Poiché l'uomo è stato consegnato per intero alla
Storia, non può più rivolgersi verso quella parte di se stesso che è vera quanto la
parte connessa alla Storia, e viviamo nel terrore. Per uscire dal terrore è
necessario riflettere e agire secondo il nostro riflettere. E in gioco la sorte di
milioni di europei che sazi di violenze e di menzogne, delusi nelle loro più grandi
speranze, provano ripugnanza all'idea di uccidere i loro simili, sia pure per
convincerli, o all'idea d'esser convinti col medesimo sistema . Pagine, queste, su
cui sembrava che tu cercassi una conferma della tua svolta: non credere più alle
bombe, agli scoppi, alle armi, alla lotta condotta col sangue.
Eppure tale svolta era così netta che avevo addirittura cessato di chiedermi se
fosse fiorita da un seme sepolto nel sottoterra del tuo subconscio o se fosse
dipesa da un bisogno di pace il cui detonatore era stato il bambino perduto. Mai
che trasparisse da te un pentimento, una nostalgia per le imprese temerarie, le
sfide impossibili. Tutto ci che facevi ora sembrava la quintessenza del

ragionamento e della ragionevolezza: partecipare a conferenze e comizi, diffondere
tra gli emigrati il libro di poesie che nel frattempo era stato pubblicato, recarti a
Bruxelles per incontrare gli esponenti del Mercato Comune Europeo. Perfino la
tua nuova monomania era quanto di più pacifico si potesse immaginare:
consisteva, semplicemente, nell'ottenere dalla radio italiana lo spazio necessario a
trasmettere un programma bisettimanale che venisse captato in Grecia.
Programmi del genere esistevano già in Francia, in Inghilterra, in Germania, però
poco udibili per la distanza; la radio italiana invece aveva una lunghezza d'onda
in grado di raggiungere tutta la regione compresa fra lo Ionio e l'Egeo.
Così andavi sempre a Roma per spiegarlo ai ministri, ai sottosegretari, ai capi
partito: insistente, paziente, caparbio, deciso a non lasciarti scoraggiare
dall'indifferenza, l'ipocrisia, il gesuitismo del vedremo tenteremo riferiremo. E
nemmeno quando fu chiaro che non avresti ottenuto un bel nulla, che
l'indifferenza e l'ipocrisia e il gesuitismo avrebbero come sempre trionfato,
mutasti la tua condotta. Peccato dicesti. Ecco un'altra amarezza, un altro prezzo
da pagare. Era la tua frase preferita, ormai. E ogni volta che la udivo non credevo
ai miei orecchi perché, questo è il particolare più straordinario, le tentazioni di
riprendere l'antica strada risuonavano intorno a te come il canto delle sirene che
invocano Ulisse tra Scilla e Cariddi. Odisseo, Odisseo! Vieni, o prode Odisseo!
Ascoltaci, figlio di Laerte, approda! In Europa i palestinesi continuavano a
seminare ovunque massacri; in Germania la guerriglia urbana era divenuta
sistema costante; in Italia la filosofia della violenza cresceva di minuto in minuto.
Sequestri, ricatti, sparatorie, uccisioni non erano più patrimonio esclusivo della
destra: costituivano una lugubre moda dell'estrema sinistra e non ci voleva molto
a capire che lungi dall'estinguersi essa sarebbe lievitata per trasformarsi in
costume. E se tali sirene avessero sciolto le corde con cui Ulisse s'era legato
all'albero maestro della sua nave? E se Ulisse avesse ceduto al richiamo per
dimenticar la sua svolta, la sua nuova battaglia contro i mulini a vento? Mi
rispose un'urlata selvaggia: Non hai capito nulla di me, nullaaaa! Come osi
insinuare che io abbia qualcosa in comune con quei chierichetti del fanatismo,
quei burocrati del terrorismo, quegli irresponsabili che sparacchiano alla John
Wayne sul comodo terreno della democrazia, cattiva sì ma democrazia, malata sì
ma democrazia, quei settari che non rischiano le torture e i plotoni di esecuzione
di una dittatura? Non sono un terrorista, io! Non lo sono mai stato! Credo nella

democrazia, io! Mi batto contro i tiranni, io, te ne sei dimenticata?! Io ti proibisco,
ti proibisco di confondermi con quei disgraziati che versano sangue per applicare
gli schemi ideologici delle loro astrazioni! Quei fascisti vestiti di rosso, quei
rivoluzionari del cazzo! E la battuta rivoluzionari del cazzo sarebbe diventata da
quel giorno uno dei tuoi slogan preferiti. Per condannare le timidezze e le
debolezze delle democrazie che cedono invece ti saresti affezionato allo slogan
Questa non è libertà, è una fiesta di libertà. E una sera in cui Roma pullulava
disordine, vetrine infrante, negozi assaltati, automobili bruciate, seppi perché
accanto a Proudhon e Camus tenevi anche Platone. Infatti lo apristi a una pagina
segnata e, fremente di convinzione, ti mettesti a declamare:
Quando un popolo divorato dalla sete di libertà ha per capi malaccorti coppieri
che gliene versano quanta ne vuole, fino a ubriacarlo, accade che se i governanti
resistono alle richieste dei sudditi sempre più esigenti essi vengono dichiarati
reprobi e accusati di voler togliere la libertà. E accade pure che chi si dimostra
disciplinato verso i suoi superiori viene definito un uomo senza carattere, che il
padre impaurito finisce per trattare i figli da suo pari, che il figlio non ha più
timore ne reverenza pei genitori, che il maestro non osa rimproverar gli scolari e li
adula, sicché costoro si fanno beffe di lui e pretendono gli stessi diritti e la stessa
considerazione dei vecchi. E i vecchi per non apparire troppo severi danno
ragione ai giovani. L'anima dei cittadini si fa allora sofferente all'estremo, e
ovunque avvengano casi di sottomissione i più se ne sdegnano, e non ammettono
di ubbidire, e finiscono col non curarsi delle leggi scritte ne delle leggi non scritte,
e non hanno più riguardo ne rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce
e si sviluppa la malapianta: la tirannide. Infatti ogni eccesso suole portare
all'eccesso opposto, sia nelle stagioni che nelle piante che nei corpi, e a maggior
ragione nei reggimenti politici.
Per quanto è ottuso il potere costituito, il Potere al potere che si serve di tutto, di
tutti, e che non muore mai. Quant'è cieco, sordo, ignorante. Proprio la medesima
sera quel Kissinger che aveva confermato il rifiuto a concederti il visto per gli Stati
Uniti venne a Roma in visita ufficiale e, scortato da centodieci guardie del corpo,
unto d'onori come un satrapo orientale, più grottesco di sempre, si installò al
nostro albergo. Da quel momento nessuno in città fu più sorvegliato di te che
predicavi contro la violenza e declamavi Platone. Non solo le stanze adiacenti alla
nostra erano occupate da agenti dell'Fbi ma i loro colleghi ci spiavano senza sosta

dalle finestre socchiuse dell'edificio di fronte: inconfondibili nelle loro orrende
camicie hawaiane, le loro manacce pelose e strette sulle lattine di birra. E quasi ci
non bastasse, l'intero corridoio del nostro piano formicolava di agenti in borghese
con la rivoltella alla cintura: incaricati, fra l'altro, di rovistare nei nostri cassetti.
Due volte rientrando in camera trovammo oggetti spostati o manomessi. Ma forse
sbaglio a definire il Potere al potere cieco sordo ottuso ignorante. Il Potere vede
tutto, ode tutto, sa tutto. E in quel caso sapeva che il vero nemico del miserando
personaggio eri tu, non gli equivoci barricaderi che negli anni seguenti avrebbero
sempre sparato a persone innocue ed inermi. Mai a un fascista.
CAPITOLO III
Una mattina fu metà luglio e ti svegliasti annunciando: La Giunta sta per cadere .
Poi mi raccontasti il sogno fatto durante la notte e da cui traevi il vaticinio che la
Giunta sarebbe caduta. Ti trovavi in fondo a un pozzo pieno di pesci e così buio
che il cielo, visto da quel fondo, era un chiarore remoto. Ti trovavi laggiù da un
tempo incalcolabile, secoli e secoli forse, e volevi una cosa sola: scappare su verso
il cielo. Ma la parete del pozzo era liscia, neanche un buco, una sporgenza
qualsiasi per arrampicarti, e non potevi far altro che augurarti un miracolo.
D'un tratto il miracolo era avvenuto, sulla parete erano apparsi buchi e
sporgenze, e avevi preso a salire. Una fatica tremenda perché spesso scivolavi,
cadevi di nuovo tra i pesci e dovevi ricominciare daccapo. Una fatica lunghissima.
Altri secoli forse. Infine eri arrivato al bordo del pozzo dove t'eri avvinghiato per
riprendere fiato e guardare quel che c'era fuori. C'era un deserto di ghiaia. Al
centro del deserto, una montagna con un masso in bilico sulla sua vetta. E
all'improvviso da quella montagna s'era alzato un boato, il boato sordo che
annuncia la valanga, il masso aveva incominciato a vibrare, s'era piegato in
avanti, s'era staccato dalla vetta per rotolar giù: schiantarsi in tanti sassolini
uguali a quelli che formavano il deserto. T'aveva colto un'ondata di felicità. Breve
quanto un battito di ciglia però e seguita da una collera cieca perché, sulla vetta
della montagna, era subito apparso un secondo masso: identico al primo ma
stabile. Era stata la sua stabilità a incollerirti, infonderti l'irresistibile bisogno di
diroccarlo, e a quel punto avevi fatto il gesto di scavalcare il parapetto. Ma
invano. Una forza misteriosa trasformava le tue gambe in blocchi di piombo, le
tue braccia in fiumi di debolezza. Avevi tentato ancora ed ancora: non era valso

che a scoraggiarti, lasciarti lì sul bordo del pozzo. Soffrivi in modo atroce, anche
perché capivi che il nuovo masso andava diroccato, se tu non lo avessi diroccato
non avrebbe vibrato mai, non si sarebbe staccato mai dalla vetta per rotolare giù,
schiantarsi come il primo, e quanto fosse durata quella sofferenza non lo
ricordavi. Nel sogno t'era parsa lunghissima. Maturavano le stagioni, il caldo si
alternava al freddo, il freddo al caldo, il sole alla pioggia, la pioggia al sole, e tu
restavi aggrappato lì, metà corpo fuori del pozzo, metà dentro il pozzo, e gli occhi
incollati al masso. Per ti sembrava di ricordare che all'inizio era estate e che dopo
la neve era caduta due volte, due volte eran passate le rondini.
Ripassavano appunto le rondini quando avevi deciso di tentar qualcosa, non
guardare e basta. E avevi allungato una mano per ghermire una pietra, scagliarla
contro il masso, fargli perdere l'equilibrio. Un atto pericoloso, te ne rendevi conto,
perché da tempo avevi compreso che i buchi e le sporgenze della parete erano
scomparsi: se tu fossi caduto non saresti risalito mai più. Tuttavia bisognava
tentare, sapevi anche questo, e sporgendoti avevi raccolto una pietra. L'avevi
alzata per scagliarla. Ma nell'attimo stesso in cui ti accingevi a scagliarla, dal
masso era partito un terribile vento. E t'aveva investito con violenza spietata
strappandoti dal bordo del pozzo. Ed eri precipitato di nuovo, laggiù in fondo tra i
pesci, per sempre.
Che sogno orribile, Alekos. Sì, orribile. Non riesco a scordarlo. Eppure un sogno
che annuncia la caduta della Giunta non dovrebbe essere orribile. No, ma non
annunciava la caduta della Giunta e basta. Chi mi faceva precipitare di nuovo nel
pozzo e per sempre non era la Giunta: era chi erediterà la Giunta. Oh, smettila!
Non precipiterai in nessun pozzo. Sogni queste cose perché le pensi di giorno: i
sogni che facciamo dormendo non sono che riflessi confusi dei pensieri che
abbiamo da svegli. La scienza dimostra che... La scienza non esiste, la scienza è
un'opinione. E non dimostra un bel nulla, tanto meno la vita e la morte. Nessuna
discussione, invece, sul significato che attribuivi al resto: la montagna
rappresentava il Potere, l'eterno potere che incombe senza via di scampo, e il
masso in bilico sulla montagna rappresentava il regime di cui il Potere si serve
finché decide di buttarlo via, sostituirlo con uno che in circostanze diverse gli
serve di più.
Dittatura, democrazia, rivoluzione: tutti massi in bilico sulla montagna. E a conti
fatti il medesimo masso, la medesima maledizione che gli uomini si portano dietro

dal giorno in cui si aggregarono in una tribù. Ma se il masso caduto e frantumato
in ghiaia era la Giunta, chi era quello apparso al suo posto? E perché volevi
abbatterlo visto che aveva sostituito la Giunta? perché ti teneva incollato al
parapetto del pozzo, mezzo corpo fuori e mezzo dentro, impedendoti di
scavalcarlo? Questo sì, volevo saperlo. Ma il masso che prende il posto della
Giunta, chi è? Vuoi dire se ha un nome, se ha un volto? Certo che ce l'ha.
Dimmelo. No, tanto si rivelerà presto. Presto? Sì, ormai è questione di giorni,
forse di ore. E ventiquattr'ore dopo ci fu il colpo di stato a Cipro, il tentativo di
assassinare Makarios, l'invasione turca dell'isola; una settimana dopo la Giunta
convocò i leader politici che Papadopulos aveva estromesso e delegò a loro la
responsabilità di formare un governo che salvasse il paese dalla guerra con la
Turchia. Però non ne esultasti. Ti limitasti a mormorare: II masso si è staccato
dalla montagna, il masso rimane sulla montagna. Quando parti per Atene?
Quando parto, o quando partiamo? Quando parti, io non vengo. perché? Non
capisco. Capirai ascoltando una vocina che ti saluta: cara amica, carissima, quale
piacere incontrarla, io leggo sempre i suoi libri, i suoi articoli, sono un suo
ammiratore, un suo collega, sa, scrivo anch'io.
Partii senza di te. E se non a capire incominciai a intuire appena scesi
all'aeroporto di Atene dove fui immediatamente fermata, chiusa in uno
sgabuzzino. Passavano tutti, ormai, in quel momento passava Teodorakis che
veniva da Parigi, ma il mio nome era sulla lista nera e, perché lo depennassero,
mi lasciassero uscire dallo sgabuzzino, ci volle un bel po. Un poliziotto sembrava
favorevole, un altro contrario, per trovare un accordo bisticciavano fra di loro e
non sapevano chi avrebbe dovuto autorizzare il mio ingresso: il nuovo ministero
degli Interni o l'Esa? La notte avanti Karamanlis era rientrato dall'esilio e aveva
giurato come primo ministro, ora il governo si componeva di civili in maggioranza
perseguitati dalla dittatura. Per Ghizikis continuava ad essere presidente della
Repubblica, Joannidis manteneva il controllo dell'esercito e dell'Esa, neanche un
esponente del regime era stato arrestato, e i prigionieri politici rimanevano in
carcere: da qualsiasi lato si esaminassero le cose, il giudizio scivolava negli
enigmi di una commedia ambigua. Lo dicevano tutti, del resto, che niente era
chiaro, niente era sicuro eccetto il particolare che la Giunta non era caduta:
aveva abdicato. E non di sua spontanea volontà bensì per ordine degli americani
ovviamente contrari a una guerra tra Grecia e Turchia cioè tra due paesi

appartenenti alla Nato. Ma non sempre un regime che abdica è un regime morto
e, se abdica tenendosi i posti chiave cioè la presidenza e l'esercito e la polizia, può
addirittura riprendersi il potere nel giro di una notte. Quindi la situazione poteva
cambiare di nuovo e all'improvviso. Dipendeva da Joannidis.
Non era un segreto per nessuno che egli avesse ceduto soltanto quando
l'ambasciatore degli Stati Uniti aveva riferito l'autaut di Washington e comunque
gridando al tradimento, accusando la Cia d'avergli suggerito l'errore del golpe a
Cipro, sibilando mi hanno preso per i fondelli, sono stato un ingenuo. Ma ora si
considerava tutt'altro che vinto, non faceva che alludere alle truppe con cui
avrebbe difeso il suo onore, ai carri armati con cui avrebbe reagito alle offese, e la
gente aveva paura. Superato l'entusiasmo del primo momento, i più se ne stavano
tappati in casa per evitare di compromettersi e nessuno parlava di libertà: al
massimo, d'un profumo di libertà. Lo stesso Karamanlis, sempre imbronciato o di
malumore, aveva l'aria d'aspettarsi il peggio. L'unica persona che non sembrasse
nutrire timori o preoccupazioni era il neo ministro della Difesa Evanghelis
Tossitsas Averoff. Colui che ora mi salutava con una vocina di flauto: Cara amica,
carissima, quale piacere incontrarla, io leggo sempre i suoi libri, i suoi articoli,
sono un suo ammiratore, un suo collega, sa, scrivo anch'io! Stava sulla soglia
della mia camera, scortato da un ufficiale della Marina, e le sue mani
imprigionavano le mie come valve di una conchiglia che nessun coltello può
aprire. Morbide, tuttavia, disossate. Lo osservai incuriosita. Sotto le sopracciglia
arcuate i suoi occhi neri e tondi penetravano i miei come gli occhi di un
ipnotizzatore, irrequieti tuttavia e così scivolosi che sembravano due olive
immerse nell'olio. Sotto i baffetti striati di grigio la bocca, buffa perché aveva la
forma delle bocche sdentate e invece era piena di denti, sorrideva l'estasi
dell'innamorato che troppo a lungo è rimasto lontano dalla sua bella e finalmente
si accinge ad amarla in un letto. Ruolo, questo, che non si addiceva ne al suo
fisico ne alla sua età: era un ometto sui sessant'anni, dalle spalle strette e
spioventi, i fianchi larghi e la pancia pingue; un gran naso torto, gobbo alla
radice, sormontava un volto altrettanto privo di seduzioni.
Per la fronte era altissima, intelligente, sentivi che era intelligente assai prima di
capirlo con la ragione. E, se non era intelligente, era astuto dell'astuzia che non si
distingue dall'intelligenza. Inoltre era duro. Sentivi anche questo. E sentendolo te
ne sbalordivi, ti dicevi che niente in un simile aspetto e in un simile

comportamento poteva giustificare l'idea della durezza eppure la durezza esisteva:
nascosta tra le pieghe di una untuosa flaccidità. Liberai le mani dalle valve della
conchiglia che per un attimo s'era leggermente dischiusa: Entri, signor ministro,
si accomodi. Entrò, licenziò l'ufficiale con un gesto secco di sussiego, sedette sulla
poltrona, e il minuetto di complimenti ricominci. Signor ministro, ma io non
pretendevo che lei si disturbasse a venire fin qui. Toccava a me venire da lei. Cara
amica, carissima! Un cavaliere non permette che una signora si scomodi a recarsi
da lui. E una signora di tale fascino, di tale grazia, notorietà! Se non fossi venuto
avrei commesso una sgarbatezza ai limiti della più imperdonabile cafoneria.
Comprende il mio italiano? Parlava un ottimo italiano, senza errori e senza
accenti. Il suo italiano è impeccabile, signor ministro, sia nella scelta dei vocaboli
che nella pronuncia. Neanche Panagulis lo parla bene quanto lei. Avevo fatto il
tuo nome di proposito, per vedere come reagiva, ma lui non reagì affatto, quasi
non lo avesse udito. Cara, carissima! Imparai l'italiano in Italia, sa? Quand'ero
prigioniero di guerra a Rimini. Rimini? Anche Zakarakis era prigioniero di guerra
a Rimini. Zakarakis chi? Il direttore di Boiati, il carcere di Panagulis. Di nuovo
non raccolse. Rimini, Roma, bei tempi. Imparammo tutti l'italiano in quegli anni.
Zakarakis no. A proposito, signor ministro, che ne è dei vari Zakarakis,
Teofilojannacos, Hazizikis? O dovrei chiederle anzitutto di Joannidis? Se lo
chiedono tutti. Se la Giunta non è più al potere, si chiedono, perché Joannidis
rimane a capo dell'Esa? Sospirò. Si agitò due volte sulla poltrona. Chiuse gli
occhi, li riaprì, infine si lanci in un appassionato preambolo.
Prima di rispondere alla delicata domanda doveva narrarmi alcuni antefatti,
disse, antefatti di cui nessuno era a conoscenza: troppa gente credeva che la
causa del cambiamento fosse Cipro, lo stupido colpo di stato a Cipro. Eh, no,
cara amica! No, quello fu solo il principio. Ciò che ha spinto i militari ad
abbandonare il governo del paese è stato scoprire che la catastrofe sarebbe giunta
dalla Bulgaria. Dalla Bulgaria?!? Sì, cara amica, sì: dai comunisti. Sempre lo
zampino dei comunisti. perché cosa hanno fatto i comunisti bulgari appena ci
siamo trovati nei guai con la Turchia a Cipro? Hanno ammassato decine di
migliaia di truppe alla frontiera. E cinquecento aerei russi da combattimento, dico
cinquecento, sono giunti negli aeroporti militari bulgari. E duemila tecnici russi,
duemila dico, sono scesi in Bulgaria attraverso la Romania. E i militari della
Giunta si sono lasciati travolgere dal panico. Un panico durato trentasei ore. Le

trentasei ore più disperate della loro vita perché... be', perché sono patrioti. Che
piaccia o no riconoscerlo, veri patrioti. Patrioti con la maiuscola. Joannidis
compreso, Joannidis per primo. E Ghizikis ha riunito i suoi capi di Stato
maggiore, gli ha detto: "La patria è perduta, signori, per salvarla non c'è che
delegare il comando ai civili". Poi ci ha chiamato...
Parlava, parlava, e un misterioso disagio mi indispettiva insieme al rammarico
d'averlo cercato. perché lo avevo cercato? Chi me lo aveva suggerito? Non tu. Non
avevi mai pronunciato il suo nome, mai alluso al particolare che fosse sua la
vocina del cara amica carissima. Chi allora? Ah, sì, Canellopulos, l'ex primo
ministro che la notte del golpe era stato arrestato e che oggi avrebbe dovuto
occupare il posto di Karamanlis.
Conoscevo Canellopulos, lo avevo conosciuto nei giorni in cui chiedevi il
passaporto, e dall'incontro era nata una bella amicizia. Mi piaceva il suo volto
ascetico, stanco, la sua grazia di vecchio gentiluomo deluso, ammiravo il suo
coraggio, la sua cultura di gran liberale, e appena uscita dallo sgabuzzino
dell'aeroporto ero corsa a rivederlo. Avevamo parlato a lungo, senza ritrosie, per
sull'inaspettato richiamo di Karamanlis aveva sorvolato con mille imbarazzi, non
posso rispondere a questo, non voglio, devo evitare tale argomento. E d'un tratto:
Lo chieda ad Averoff. Interroghi Averoff. Avevo telefonato ad Averoff ed egli s'era
offerto di venire al mio albergo. Strana faccenda, comunque. Possibile che fosse
lui il masso in cima alla montagna? Malgrado le abili ciance sui bulgari e gli
ancor più abili elogi ai membri della Giunta, l'impegno quasi sfacciato che
metteva nello scagionarli, mancava un anello alla catena delle evidenze. Un anello
che magari era lì, a portata di mano, e che tuttavia non riuscivo a localizzare.
Proprio come quando si cerca un paio di occhiali che abbiamo sul naso.
Bisognava trovarlo. Bisognava seguire con maggior attenzione quel che andava
dicendo. Ed ora, cara amica, mi lasci spiegare in che modo si sono comportati
con noi Ghizikis e i suoi capi di Stato maggiore: da veri signori. Del resto con me
si sono sempre comportati da veri signori. Certo sa che fui coinvolto nella
mancata rivolta della Marina, la scorsa estate, e che mi arrestarono. Ebbene, non
mi torsero un capello. Irreprensibili. Ah, ci tengo a sottolinearlo: irreprensibili. E
ieri... Pensi, cara, giungevamo alla spicciolata e Ghizikis ci riceveva in piedi,
educato, gioviale, poi ci invitava a sedere e ci offriva aranciata o caffè. Quando ci
siamo stati tutti si è messo a sedere anche lui e con grande semplicità ha

dichiarato che la patria stava per cadere nella tragedia finale, per salvare la patria
l'intera Giunta aveva deciso di rinunciare a qualsiasi comando che non fosse
comando militare. Dopo ha chiamato i suoi capi di Stato maggiore e uno a uno
essi hanno ripetuto la medesima cosa. Si è passati alla discussione. Si è parlato
delle responsabilità. E qui Ghizikis è stato ammirevole. Onesto, umano,
ammirevole. S'è offerto come capro espiatorio.
Capisco che la fine del regime richiede un capro espiatorio, ha detto, e quindi mi
offro come tale. Io non volevo diventare presidente della Repubblica, signori, però
ho accettato di diventarlo ed è giusto che paghi. Be', inutile aggiungere che non
era nemmeno il caso di considerare tale proposta che anzi bisognava impegnarsi
a evitare rappresaglie popolari, castighi.
E in quel senso ci siamo impegnati. Infine abbiamo affrontato l'argomento
decisivo: la scelta di colui che avrebbe formato il governo. I più volevano
Canellopulos. Ma io volevo Karamanlis. perché Karamanlis e non se stesso,
signor ministro? Il sorriso riapparve: Semplice, cara amica, semplice! perché io
non prescindevo dal ministero della Difesa! Ah, su questo punto sono sempre
stato categorico! Categorico! E ha vinto. Sì, cara amica, sì. Quando voglio una
cosa io la ottengo.
E quando ne voglio due, ne ottengo due.
Il ministero della Difesa, l'esercito! Ecco l'anello che mancava alla catena. Che
cosa dicevi tu a proposito dell'esercito? Questo: Chi comanda l'esercito, in Grecia,
comanda la Grecia . Cercai gli occhi neri e tondi, le due olive immerse nell'olio:
Signor ministro, chi comanda oggi in Grecia? Le due olive si indurirono e la
vocina di flauto divenne gelida: Lei che ne pensa, cara amica? Un'ora fa pensavo
Joannidis, signor ministro. Cara amica! Sono io l'uomo a cui il brigadier generale
Joannidis ubbidisce. Sono io l'uomo che comanda l'esercito. E chi comanda
l'esercito, in Grecia, comanda la Grecia Vero, signor ministro? Chi lo dice?
Panagulis. Si alzò di scatto. E stato davvero un piacere incontrarla, un piacere
squisito. Peccato che ora debba andarmene. Si avviò verso l'uscita, mi porse le
mani disossate, mi chiuse di nuovo la destra nelle valve della conchiglia. Spero di
incontrare presto anche il nostro amico, glielo dica. A proposito, quando ritorna?
E senza aspettar la risposta si allontanò cancellando in me ogni residuo di
dubbio. Soltanto due giorni dopo esso riprese a bucarmi la mente. I detenuti
politici incominciavano a lasciare le carceri, la gente si mostrava di nuovo giuliva,

il profumo di libertà assumeva a poco a poco i contorni di una libertà: e se mi
fossi sbagliata?
Sorridesti beffardo: I massi in cima alla montagna non sono necessariamente
malevoli, e se le prigioni non si svuotassero dei detenuti politici che senso
avrebbe parlare di libertà? Non si comporterebbe mai da tiranno, lui: è
intelligente.
Sai come ha fatto a liquidar Canellopulos? A un certo punto della riunione con
l'aranciata e il caffè, ha proposto una pausa per meditare ed è uscito con gli altri
politici. Poi, con la scusa di andare al cesso, è rimasto nel palazzo presidenziale.
Avviatevi pure ci vediamo più tardi. Ha raggiunto di nuovo l'ufficio di Ghizikis e
insieme a lui ha chiamato Karamanlis a Parigi.
Parta subito venga a comporre il governo. Quando gli altri sono riapparsi col
risultato del loro meditare, Karamanlis aveva già accettato l'incarico e stava
volando ad Atene con l'aereo di Giscard d'Estaing. Un capolavoro. E mi taglio la
testa se questo capolavoro non era stato preparato da Averoff prima che la Giunta
abdicasse . Comunque ha detto che spera di incontrarti presto. Quel figlio di
cane. E poi mi ha chiesto quanto torni. Quando torni? Invece di rispondere,
stavolta, ti avvicinasti alla finestra e mi indicasti una coppia che sedeva al bar di
fronte all'albergo: un giovanotto in blue jeans e una donna. Sui trent'anni, lei,
elegante, piacente. Petto florido e capelli biondo cenere. Chi sono, Alekos? Non lo
so. Lui non l'ho mai visto. Lei sì. Anche ieri, a Ginevra. L'indomani dalla mia
partenza per Atene eri andato a Ginevra per assistere alla conferenza su Cipro. A
Ginevra? Sì, almeno un paio di volte.
E la prima volta non l'ho riconosciuta. Ho sentito una specie di inquietudine e
basta. La seconda per... Riconosciuta? Sì, da Stoccolma. Ovunque andassi, a
Stoccolma, capitava lei.
All'inizio non ci facevo caso, la credevo una mitomane svedese. Ma poi dovetti
convincermi che non era ne mitomane ne svedese. perché? perché non parlava
svedese. La osservai di nuovo, con perplessità. .Ne sei sicuro? Sicurissimo.
Oltretutto ama le parrucche. A Stoccolma era bionda come qui ma a Ginevra era
castana. Per questo la prima volta non l'ho riconosciuta. Pensaci bene, Alekos.
Forse la donna di Ginevra non è la stessa che ora sta lì sul marciapiede. Forse le
assomiglia e basta. Da lontano si giudica male. Non la giudico da lontano: era
sul mio aereo. Ha preso il mio aereo. Ho avuto tempo di osservarla bene. E lei se

n'è accorta? Spero di no. Staccati da quella finestra, non vorrei che se ne
accorgesse ora. Me ne staccai. E il giovanotto? Mai visto. Comunque sono certo
che lui non conta. E lei che conta, è lei che mi segue. E con molta destrezza. E
una professionista ad alto livello, una spia davvero in gamba. Spia di chi? Non lo
so. Per saperlo devo agguantarla, e per agguantarla devo lasciarla fare ancora un
po. Potrebbe lavorare per chiunque: per il Kyp, per il Sid. E se mi segue per il Sid
è per rendere un favore al Kyp. Che i servizi segreti italiani e i servizi segreti greci
si scambino favori, lo sanno tutti. Alekos, ma il Kyp ubbidiva alla Giunta! E ora
ubbidisce al nuovo governo. I servizi segreti sono sempre a disposizione del
Potere, non cambiano perché cambia un regime o una politica. A volte per salvare
la faccia cambiano i loro uomini, anzi i loro dirigenti, però è come infilare alla
stessa mano un guanto nuovo e identico al vecchio. E io non credo nemmeno che
Averoff si sia curato di infilare al Kyp un guanto nuovo. Sì ma per quale motivo il
Kyp dovrebbe pedinarti o chiedere al Sid di pedinarti, ormai?! Un uomo del tuo
passato, del... A certa gente il mio passato non interessa.
Interessa il mio presente, anzi il mio futuro. Il futuro. Il tuo futuro. Ecco
l'interrogativo che mi assillava da quando era caduta la Giunta. Cosa ne avresti
fatto ora del tuo futuro, della tua vita? Ti cercai gli occhi: Dunque, Alekos,
quando torni?Ma, di nuovo, sviasti l'argomento indicando la donna e il ragazzo in
blue jeans. Uhm! Scommetto che vorrebbero saperlo anche quei due. Anzi
scommetto che ai loro padroni piacerebbe molto se in Grecia ci tornassi dentro
una cassa da morto. E, per la seconda volta, non rispondesti.
L'indomani lo stesso. E così il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Uno a uno
rientravano tutti: politici, attrici, studenti, scrittori, non di rado bugiardi che
all'estero c'erano stati soltanto per salvare la pelle o per recitare la comoda
commedia del perseguitato politico. Sono una vittima della Giunta, abbasso la
Giunta! Ricevuti come eroi ed eroine da masse vociferanti, sudate, magari dalle
stesse persone che a te avevano sbattuto la porta in faccia, scendevano
all'aeroporto di Atene e alzando il pugno chiuso, strillando viva il popolo viva la
libertà, correvano a gettare le basi d'una carriera parlamentare.
Liberali, socialisti, antifascisti dell'opportunismo. E tu zitto, fermo. Osannato
come un guerriero antico, un Agamennone che torna dagli spalti di Troia,
Papandreu informava la stampa che sarebbe rimpatriato via mare e sbarcato a
Patrasso per marciare sulla capitale con un corteo di automobili e di autobus,

una selva di bandiere rosse. Andrea viva Andrea. E tu fermo, zitto. Mentre la mia
perplessità aumentava. Che tu indugiassi perché non volevi mischiarti al ritorno
dei cani che abbaiano quando il pericolo è passato, agli sciacalli che ingrassano
sulle altrui sofferenze? Che senza dittatura il tuo paese ti interessasse meno, che
insomma l'idea di affrontare un'esistenza normale ti riempisse di noia? E il
dramma di molti combattenti, pensavo, finita la guerra non sanno riabituarsi alla
pace. E frasi alle quali non avevo dato mai peso mi rintronavano ora negli orecchi
per sostener quella tesi. Quanto capisco Guevara! Piuttosto che rompermi le
scatole a Cuba, anch'io sarei andato a morire in Bolivia! Oppure: Stamani ho
incontrato un greco che lotta per davvero, un trotzkista. Peccato che abbia la
scheda e non si possa lavorare insieme. Mi ha detto: caro mio, se cade la Giunta
noi due diventiamo disoccupati e la barba ci arriva ai ginocchi! In Italia la barba
non ti arrivava ancora ai ginocchi: c'erano i giovanotti con la svastica alla cintura,
le bionde con le parrucche, il sospetto che a qualcuno piacesse vederti
rimpatriare dentro una cassa da morto. La misteriosa persecuzione infatti
continuava, aggravata da un episodio non trascurabile. Consegnato il reportage
sul 23 luglio, ci eravamo recati a Zurigo e, mentre stavamo cenando in un
ristorante vicino alla casa di Nicola: Oh, no! Eppure sull'aereo non l'ho vista.
Alekos, non dirmi che è qui. Sì, invece. Alle tue spalle. Non voltarti. Sola o
accompagnata?.
Sola. E di che colore, stavolta? Neri, ha i capelli neri. Che facciamo? Una prova.
Usciamo e ci trasferiamo in un altro ristorante. Se ci segue anche lì... Interrotta
la cena, e in modo ostentato, eravamo usciti e avevamo raggiunto una taverna
giardino al capo opposto della città. Qui, dopo qualche minuto, eccola affacciarsi
con l'aria di cercare qualcuno, guardarci un attimo come distratta, poi andarsene
con l'aria di dire: Pazienza, non c'è . Corriamole dietro, Alekos, affrontiamola. E
con quale pretesto? Non è un crimine cambiare parrucche e trovarsi nelle stesse
città. E nelle stesse strade, negli stessi ristoranti. Se non vuoi affrontarla,
rivolgiamoci alla polizia.
Brava! E cosa diresti alla polizia? C'è una donna bionda, no, bruna, no, castana,
che capita sempre dove siamo noi? Senza contare che i servizi segreti si servono
proprio delle polizie.
Diamole corda. Voglio proprio togliermi il gusto di prenderla con le mani nel
sacco. Sì, forse era questo che ti tratteneva dal rientrare in Grecia, conclusi alla

fine. Il fascino oscuro di saperti più in pericolo all'estero che in patria, la paura di
annoiarti nella normalità e negli applausi che certo avrebbero tributato anche a
te.
Ma all'improvviso, una sera: Ho deciso. Rientro il 13 agosto, rientro l'anniversario
del mio attentato a Papadopulos .
Era questo dunque che aspettavi! Non esattamente, sebbene l'idea di rinfrescar la
memoria a qualcuno mi diverta abbastanza. E per qualcuno non intendo solo gli
Joannidis o gli Averoff.
Intendo anche i compari dell'altra sponda, quelli che non hanno fatto mai nulla.
Alekos, che cosa significa non esattamente? Significa... Ricordi quando mi
chiedesti se preferivo Garibaldi o Cavour? Sì, e tu mi rispondesti che preferivi
Cavour. Cioè la politica. Be', dopo aver meditato su alcune cose, sulla destra e
sulla sinistra e sugli uomini, non sono tanto sicuro di amare quella politica. E
tornare in Grecia significa tornare in quella politica. Poi, cambiando
bruscamente discorso, quasi che il parlarne ti desse fastidio, dicesti che
comunque il problema immediato era un altro. Era arrivare al 13 agosto.
Per arrivare al 13 agosto bisognava prendere alcune precauzioni. E la prima
precauzione era quella di tenerti lontano dai luoghi in cui i misteriosi persecutori
tanto interessati ai tuoi spostamenti sapevano di poterti dare la caccia: la casa
nel bosco, la casa in Toscana, la stessa città di Roma. Decidemmo dunque di
trascorrere qualche giorno al mare, così regalandoci un po di riposo, un po di
intimità, e scegliemmo l'isola d'Ischia dove un amico albergatore ci avrebbe
accolto anche se fossimo arrivati all'improvviso. L'importante è non dirlo, non
prenotar camere, viaggiare quasi senza valigie. Nessuno se ne accorgerà, nessuno
ci troverà. Ventiquattr'ore dopo, invece, lei ci aveva già ritrovato. Ammesso che ci
avesse mai perso di vista. Con la sua aria falsamente distratta, il suo petto
florido, i suoi capelli biondo cenere, di nuovo biondo cenere, stava alla stazione di
Roma e a circa dieci metri da noi aspettava il nostro treno: il rapido per Napoli.
Non sola, per: con un ragazzo in blue jeans sul tipo di quello che la
accompagnava nel bar di fronte all'albergo di Milano. Io non capisco, Alekos... Ma
perché vogliono tanto sapere cosa fai e dove vai?!
Forse non vogliono soltanto questo. Forse vogliono qualcosa di più. Incomincio
proprio a credere che vogliano qualcosa di più. Partiamo ugualmente? Certo.
Tanto ovunque sarebbe lo stesso, ormai. E mi interessa vedere quale sarà la sua

prossima mossa. Bene. Salimmo su un vagone lontano dal suo, ci
accomodammo in uno scompartimento occupato da due vecchi coniugi e, quasi
subito, ecco il ragazzo in blue jeans con un pacco dentro una busta di cellofan.
Posa il pacco sul portabagagli, siede accanto a te, si mette a sfogliare un
giornalino di fumetti pornografici. Alla fibbia della cintura, una svastica simile
alla svastica dei tipi che sostavano dinanzi al cancello della casa nel bosco. Ma il
particolare sgradevole non era nemmeno la svastica, era il nervosismo che lo
agitava, quasi fosse tormentato da un grosso problema o da una paura. Buttato
via il giornalino, sospirava, sbuffava, lanciava strane occhiate al pacco. A un certo
punto si alzò, lo prese, lo posò di nuovo, lo prese di nuovo, spaventando i due
vecchi coniugi, infine si allontanò bestemmiando: Cristo qua, Madonna là, cazzo
su, cazzo giù. Andiamogli dietro, Alekos. No, è questo che cerca: una rissa. Se
reagisco, distraggo l'attenzione da lei e poi non posso nemmeno controllare se
prende l'aliscafo per Ischia. perché lo prenderà, vedrai. E a me fa comodo: mi
serve come conferma e come pretesto per acchiapparla, sapere chi è e chi la
manda e a che scopo. Incomincio ad averne abbastanza di questa storia. E
quant'è vero che io sono io, stavolta l'acchiappo. Le faccio sputare tutto.
L'aliscafo era affollatissimo. A fatica eravamo riusciti a imbarcarci ed ora, chiusi
dentro una barriera di corpi, stavamo pigiati sul ponte: invano tentando di farci
largo per trovare un angolo comodo. Anche muoverci di mezzo metro era
impossibile. L'abbiamo perduta mormorai. Forse. Era meglio affrontarla appena
scesi dal treno. .Forse. Appena scesi dal treno, infatti, era riapparsa insieme al
ragazzo in blue jeans.
Stavano in fondo alla pensilina e il ragazzo non aveva più il pacchetto dentro la
busta di cellofan, lei gli parlava animatamente come se stesse rimproverandolo.
Di che? Di non averti provocato a sufficienza? Senza scomporti e sempre fingendo
di non averla notata, mi avevi spinto fuori della stazione: Vieni, non ti voltare . Il
tragitto fra la stazione e l'imbarcadero era breve, lo avevamo percorso a piedi per
accorgerci meglio se ci seguiva. Ma non ci aveva seguito. Ammenoché non sia
venuta col taxi e sia arrivata prima. Forse. In tal caso è giù tra i passeggeri
seduti. Forse. Oppure non ci segue più, si fermò a a Napoli. Forse. I motori
rollarono, l'aliscafo si staccò piano dalla banchina. Meglio così. E, proprio mentre
dicevi meglio così, eccola al lato opposto del ponte che saluta due persone rimaste
a terra: il ragazzo in blue jeans e un giovanotto dalla faccia tonda e piena di nei.

Agitava la destra, la portava all'orecchio nel gesto di chi risponde al telefono,
ripeteva:
Alle otto! Vi chiamo stasera alle otto! Una voce fresca, spavalda, e un italiano
perfetto. I due annuivano con l'aria disciplinata di chi ubbidisce a un capo. Ti vidi
impallidire e poi, con uno scatto secco, tuffarti dentro la barriera dei corpi
incurante delle proteste. Che vuole, che spinge, dove crede d'andare.
Dopo dieci minuti tornasti: Non c'è. Non c'è?!? Non l'ho trovata. Ho girato l'intero
aliscafo. Non c'è. Vado io. Andai, sollevando altre proteste, che vuole, che spinge,
dove crede d'andare, la cercai dovunque. Anche nei gabinetti. Ma non la trovai.
Eppure è a bordo! Certo che è a bordo. Riproviamo insieme. No, la
sorprenderemo all'arrivo. Scenderemo per primi e la sorprenderemo. Scendemmo
per primi. Ci piazzammo ai piedi della scaletta, attenti a ogni passeggero, decisi a
non farcela sfuggire. Non ci distraemmo mai eccetto quando un turista si mise a
gridare che gli avevano rubato il portafoglio ed esplose una piccola rissa che ci
respinse all'indietro. E forse fu allora che scivolò via inosservata perché, poco
dopo, un'automobile si allontanò e dal finestrino posteriore era visibilissima la
sua testa bionda.
Il primo giorno non accadde nulla. Il primo giorno fummo quasi sereni. L'amico
albergatore ci aveva dato una piacevole stanza sul mare, l'albergo era ottimo, con
due ristoranti e una spiaggia privata e una bella piscina e una baia protetta dal
cartello Accesso Proibito , e ne fummo così consolati da concludere che era inutile
lasciarci vincere dalle rabbie o dalle angosce: tanto valeva goderci la nostra
vacanza. Al massimo saremmo stati attenti: niente uscire per strada, niente
spingerci al largo nuotando, restare sempre fra la gente cioè fra possibili
testimoni. Ma l'indomani mattina: Svegliati, svegliati!
Che c'è? Guarda. A cinque o seicento metri dalla riva, e proprio in linea diretta
con la nostra camera, sostava un grosso motoscafo coperto. Alekos, siamo al
mare e d'agosto. Non ti sembra normale vedere un motoscafo al mare e d'agosto?
Di giorno sì, di notte no. E lì da stanotte. E con questo? Con questo, i motoscafi
non vanno a spasso di notte, tantomeno sostano a quel modo. Che modo? Magari
stanno pescando! Che stiano pescando non c'è dubbio. Che stiano pescando
pesci lo escludo. Da quando è arrivato non si è mai mosso. Si sarà rotto il motore.
Se si fosse rotto il motore, sarebbero già andati a ripararlo o trainarlo. Il motore
funziona benissimo, scommettiamo? Scommisi e persi. Dopo qualche minuto il

motoscafo rollò e si allontanò, per riapparire molto presto e fermarsi nel punto di
prima. Lì rimase fino a mezzogiorno quando rollò di nuovo e si allontanò di
nuovo, per riapparire di nuovo e fermarsi di nuovo: un centinaio di metri più
vicino alla riva. Alle tre del pomeriggio, lo stesso. E così al tramonto.
A intervalli di circa tre ore andava e tornava, ogni volta accostandosi d'un
centinaio di metri. A bordo c'erano quattro persone: possibile che nessuna
scendesse a terra? Lo chiedemmo al bagnino e lui mugugnò che l'estate è piena di
pazzi, non si contano i pazzi d'estate, l'anno scorso una coppia era rimasta al
largo quasi una settimana: si chiamavano gare di resistenza.
La risposta ci convinse a tal punto che all'ora di cena, scortati dall'amico
albergatore, ci recammo in un ristorante del porto dove mangiasti con appetito e
bevesti con allegria. La notte, poi, dormisti un sonno sereno. Io no. Neanche un
attimo avevo preso sul serio i discorsi del bagnino, al ristorante non avevo fatto
che guardarmi in giro, sicché mi alzavo di continuo, di continuo andavo alla
finestra per controllare se il motoscafo stava ancora lì. Stava ancora lì: illuminato
dalla luna dondolava sul mare tranquillo e a chiunque sarebbe sembrato
l'imbarcazione più innocua del mondo. All'alba lo stesso, e dondolava. durante il
mattino lo stesso, e dondolava. A mezzogiorno lo stesso, e dondolava. Neanche
alle tre del pomeriggio, quando invece di salire in camera scendemmo alla baia
protetta dal cartello Accesso Proibito e senza preoccuparci che fosse deserta ci
stendemmo all'ombra di una roccia, s'era mosso. Stava lì e dondolava:
sciaguattando con forza, ora, perché a forza di avvicinarsi era giunto a meno di
duecento metri dalla riva. Te lo indicai: Non ti preoccupa davvero più? Sorridesti
con noncuranza: Ieri sera al ristorante avrebbero potuto beccarmi senza fatica.
M'ero sbagliato, non sono qui per me, non sono pericolosi . Pericolosi forse no.
Strani, sì. Non lo soffrono il caldo a star sempre fermi sotto il sole? E un
motoscafo coperto. E non hanno mai voglia di tuffarsi? Saranno pigri. E perché
non si vedono mai? Non so. C'è una cosa che mi lascia perplessa: dondola,
dondola. Voglio dire, non sembra ancorato. perché non calano l'ancora? Subito il
tuo sorriso scomparve, neanche t'avessi dato un'idea che non ti aveva mai
sfiorato la mente. Balzasti in piedi, dicesti: Non muoverti, vado a dare un'occhiata
. E prima che potessi trattenerti t'eri gettato in acqua, nuotavi dritto verso il
motoscafo.

Ciò che avvenne dopo si svolse molto in fretta. Ripensandoci rivedo tutto come un
film proiettato con l'acceleratore in un tempo che rincorre se stesso,
precipitosamente, freneticamente, il che è strano perché i nostri gesti non erano
precipitosi, non erano frenetici: ti muovevi con calma, mi muovevo con calma. La
calma era indispensabile se volevamo riuscire, e un'esibizione di assoluta
indifferenza: lo compresi appena udii il motoscafo rollare. T'eri molto avvicinato
nuotando, ormai stavi a una cinquantina di metri da lui, e di colpo, con una
capriola, ti inabissasti, ti rovesciasti per tornare indietro a larghe bracciate
decise, lente ma decise, ogni bracciata una spinta vigorosa e un lungo solco di
spuma, mentre lui si muoveva, altrettanto lento ma altrettanto deciso, quasi si
divertisse a concederti un vantaggio, ritardare il piacere di venirti addosso,
conscio della propria superiorità e sicuro di vincere. I quattro giovanotti ben
visibili, infine. Quello al timone era molto giovane e biondo, gli altri tre bruni, sui
trent'anni, e ti fissavano ostili, accigliati, più ostili e accigliati via via che la
distanza diminuiva, e certo tu sentivi che diminuiva, però continuavi a nuotare
col medesimo ritmo regolare e preciso, senza voltarti, senza guardarli, senza
tradire alcun nervosismo, puntando l'ingresso della baia, la strozzatura dov'era il
cartello
Accesso Proibito perché lì il passaggio era angusto e il motoscafo avrebbe avuto
difficoltà ad entrare. Guadagnavi almeno due metri a ogni bracciata, ancora un
po di sforzo e avresti raggiunto lo scoglio del moletto, guai se ti stancavi, se ti
scoraggiavi, ma non ti stancavi, non ti scoraggiavi, ed ecco, eri quasi dentro la
baia, ti aggrappavi allo scoglio, salivi sul moletto, lo percorrevi a passo cadenzato,
tranquillo, sempre senza voltarti, senza guardarli, quasi non ti importasse del
motoscafo che s'era fermato e dei giovanotti che discutevano incerti se scendere o
no. E intanto io ti venivo incontro cercando di imitare la tua flemma, ignorare il
tuo volto contratto dalla tensione, verde, i tuoi occhi spalancati ed increduli; il
mio cuore che batteva tumultuoso. Avevo lasciato l'accappatoio, le scarpe, i tuoi
pantaloni, i tuoi sandali, tutto insomma presso la roccia, e sapevo che tutto
doveva restare lì, come se ci allontanassimo per un poco e basta, sapevo che
presto mi avresti agguantato per un polso e spinto nel recinto della piscina poi
sulla terrazza, poi nell'ascensore dicendo: Sorridi. Ti porsi il braccio, mi
agguantasti il polso: Sorridi! Sorridi! Mi spingesti nel recinto della piscina, poi
sulla terrazza, poi nell'ascensore: Le chiavi di camera ce l'hai? Fummo in

camera, sbirciasti tra le fessure delle persiane: Due sono scesi, ci aspettano giù.
Sei stata brava a lasciare tutto giù. E se vengono qui? Non verranno. Non ne
hanno coglioni. Aspettano che si scenda a prendere le nostre cose, ti dico. Ora
vestiamoci, svelta. E poi? Poi usciamo e saltiamo su un taxi, andiamo al porto e
prendiamo il primo battello che capita. Niente bagagli Quelli restano qui.
Telefoneremo domattina perché ce li mandino insieme al conto. Fino a domattina
nessuno deve sapere che siamo partiti. Nessuno.
La tua voce era fredda ma il tuo volto era ancora contratto dalla tensione, bianco,
e le tue mani tremavano mentre ti vestivi. Tremavano anche mentre passavi con
falsa disinvoltura dinanzi al portiere, e mentre salivamo sul taxi, andavamo al
porto, ci imbarcavamo sul battello per Napoli, qui correvamo alla stazione
centrale per mischiarci al formicaio d'un accelerato di seconda classe. Non t'avevo
mai visto così. Solo quando fummo sul treno le tue mani smisero di tremare e
sulle tue guance tornò un po di colore e rompesti il mutismo in cui t'eri arroccato:
mi raccontasti perché avevi fatto quella capriola nell'acqua, eri tornato indietro.
Avevi notato la cosa giusta: l'ancora non era davvero calata. Non si cala se
bisogna essere pronti a mettersi in moto. Ho avuto un attimo di incertezza e il
biondo ha detto: eccolo! I tre si sono affacciati. M'è parso che uno avesse la
rivoltella. Eppure non credo che volessero ammazzarmi. Se avessero voluto, ne
avrebbero avuto tutto il tempo. Sono certo che volevano rapirmi. Possono farlo
nelle prossime ore, Alekos. Il tuo aereo decolla dopodomani. Lo so, ma stasera
non faranno niente, non ci hanno mica visto partire. Chi ci ha visto partire? Il
bagaglio è in camera, il conto è da pagare, nessuno sospetta che siamo tornati a
Roma! Di questo sembravi talmente sicuro da non lasciarmi esprimere ne dubbi
ne consigli, e a Roma volesti recarti subito in albergo e di lì in Trastevere dove
scegliesti una trattoria all'aperto. E qui cenavamo quando un profondo respiro ti
svuotò i polmoni: Qual è il limite in cui un uomo rischia di non farcela più?
perché dici questo? perché ci hanno ritrovato. L'automobile verde, guarda, laggiù.
Guardai. Era una Peugeot verde scura, parcheggiata all'altro lato della piazza, e
dentro si scorgeva un tipo con gli occhiali scuri. Forse aspetta qualcuno, Alekos.
Proprio così. Aspetta me. Forse tra un po se ne va. Non se ne va, non se ne va. E
da mezz'ora che sta lì. Potrebbe essere un caso. Potrebbe. E non lo è. Pagasti.
Chiamasti il taxi. Il taxi venne e, appena si mosse, anche la Peugeot si mosse per
tallonarci con tale impudenza che l'autista si spenzolò due volte dal finestrino ad

urlare: Imbecille, che vuoi? E presto lo seppe perché sul viale che costeggia il
fiume il tipo con gli occhiali scuri si affiancò mostrandoci, nitido alla luce dei fari,
il suo sorriso sardonico, la sua faccia ben sbarbata, le sue mani inguantate, la
sua giacca a quadrettini, elegante, la sua cravatta blu. Dopo essersi affiancato ci
superò, rallentò, si affiancò di nuovo per superarci di nuovo, rallentare di nuovo,
e infine, ripetendo la manovra di Creta, colpo di testa e colpo di coda, ci investì
scaraventandoci sul marciapiede. L'autista fu bravo.
Non solo riuscì ad evitare l'albero contro cui ci saremmo altrimenti schiantati ma
dopo, incitato da te, si lanciò in un inseguimento che ci permise almeno di
registrare il numero della targa. Al solito, falsa.
Fu per via della targa falsa, sempre una targa falsa, che esplose la mia
esasperazione e, gridando che non ti avrei rimandato in patria dentro la cassa da
morto, chiesi l'intervento della polizia. E la polizia inviò una scorta di tre agenti in
borghese. Tu non li volevi, naturalmente, urlavi sciagurata, incosciente,
ridicolizzarmi così mettermi alle calcagna i braccianti del Potere, non capisci che
farsi proteggere dalla polizia è da ingenui, oltretutto significa rinunciare a ogni
speranza di sapere chi sono e chi li manda. E avevi ragione: dopo la tua morte
avrei scoperto che la polizia italiana era più interessata a sorvegliare te che chi
voleva rapirti o ucciderti; conosceva perfino la bionda con le parrucche, una
croata di nome Jagoda, detta la Salamandra per la sua resistenza e la sua
velenosità,
al servizio del Sid e della Cia, amica di un generale missino e madre badessa di
gruppi fascisti. Non a caso i tre agenti che ti concessero sembravano mandati
apposta per avvertire gli incauti: attenti ragazzi non vi fate avanti sennò siamo
costretti ad arrestarvi. Si esibivano in modo grottesco, serrandoti dentro una
specie di abbraccio protettore come infermieri che tengono in piedi un ammalato,
annusando e scrutando i passanti come cacciatori che avanzano in una giungla
infestata di fiere, magari sbottonando la giacca perché si vedesse che avevano la
rivoltella infilata nella cintura. Litigammo per questo, e a tal punto che cancellai il
mio viaggio ad Atene, lo sostituii con un viaggio a New York, e passammo le
ultime ventiquattr'ore da estranei che stanno insieme solo per salvare la faccia
agli occhi degli altri. E così la domanda che da alcuni giorni mi bruciava le
labbra, che invano avevo tentato di riesumare dopo l'accenno bruscamente
interrotto, in quale modo saresti tornato alla politica, quella politica, cioè in quale

modo avresti messo a frutto le cose che avevi capito quando t'eri messo a
pensare, rimase un interrogativo sospeso nell'aria.
L'aereo per Atene e l'aereo per New York sarebbero decollati quasi nello stesso
momento e il litigio era ormai superato: una frase scherzosa di Sancho Panza che
lascia don Chisciotte per diventare governatore di Baratteria ma tornerà felice di
fargli da scudiero aveva rotto il ghiaccio. Tu mi avevi chiesto perdono, io t'avevo
chiesto perdono, e ora sedevamo placati ad attendere che annunciassero la
partenza dei due voli, dirci alcune delle cose non dette in quelle ventiquattr'ore.
Che avremmo continuato a tenere la nostra casa nel bosco, che entro due
settimane io sarei venuta da te o tu saresti venuto da me, che in nessun caso
saremmo rimasti a lungo lontani l'uno dall'altra, che abitare a indirizzi diversi in
paesi diversi ci avrebbe restituito al sollievo delle reciproche libertà quotidiane
senza cambiare nulla. Per entrambi sapevamo che un capitolo della nostra
esistenza s'era concluso e la tristezza ci bucava con mille rimpianti, dal rimpianto
di non esserci sempre capiti o aver rivaleggiato in durezze superflue al rimpianto
insanabile d'aver perduto un figlio che non sarebbe nato mai più, e ogni tanto
cadevano silenzi dolorosi, la tua mano cercava la mia mano, i tuoi occhi i miei
occhi. Si intercalavano anche frasi inutili, le stesse con cui si riempiono i vuoti
quando il treno sta per partire e non parte, sicché un minuto diventa
lunghissimo, non passa mai. Vai a Washington o ti fermi a New York? Ti telefono
appena arrivo. Sì e tu scrivi. D'un tratto: Che ne è di padre Tito de Alencar Lima?
Ti guardai stupita.
Era un anno che t'avevo raccontato la sua storia e in un anno non avevi mai
pronunciato il suo nome, non mi avevi mai chiesto cosa fosse stato di lui. Sta a
Parigi. Eri ancora a Boiati quando il governo brasiliano lo rilasciò insieme a
settanta detenuti politici in cambio di un ambasciatore rapito. Andò a Santiago
del Cile, ci rimase fin dopo la morte di Alende. Poi, grazie all'intervento dell'Onu,
Pinochet gli concesse l'estradizione. Scelse di rientrare a Parigi e chiudersi in un
convento di frati domenicani. perché all'improvviso ti interessa padre Tito de
Alencar Lima? Sorridesti evasivo: Non mi paragonavi a padre Tito de Alencar
Lima? Sorrisi anch'io: Solo prima di conoscerti. Ti paragonavo a tanta gente
prima di conoscerti.
Ma perché all'improvviso ti interessa padre Tito de Alencar Lima? perché l'ho
sognato, stanotte. Ancora! Non saresti mai guarito, dunque, da questa malattia

dei sogni? Sentiamo, che faceva nel sogno padre Tito de Alencar Lima?
Camminava sulle foglie e alzava le braccia. Che cosa significa? Non lo so ma
sento... sento che è molto infelice. Forse non ha più voglia di battersi. E guai a
non aver più voglia di battersi. Si alzano le braccia e si muore. L'altoparlante
gracchiò, annunciò il tuo volo. Ci alzammo per raggiungere il cancello d'imbarco.
Allora ciao. Ciao. Ci sarà molta gente ad aspettarti, eh? Oddio! Immagina che
folla. Stai attento, allora. Non preoccuparti.
Abbiamo ancora un mucchio di tempo da passare insieme.
Almeno due anni. Mentre stavo aggrappato al bordo del pozzo, nel sogno della
montagna, passava un'estate, un autunno, un inverno, una primavera, e un'altra
estate, un altro autunno, un altro inverno... Volavano le rondini quando s'è levato
il vento: fa quasi due anni. Non dire sciocchezze! Non sono sciocchezze. Quante
volte devo ripeterti che i sogni non sono sciocchezze?
Una settimana dopo, all'incirca, mi capitò tra le mani un giornale con un titolo
che diceva: Padre domenicano suicida a Parigi . Il suicida era padre Tito de
Alencar Lima La notizia diceva che il suo corpo era stato trovato in un bosco, con
le vene tagliate, e che identificarlo era stato difficile perché giaceva lì da almeno
quindici giorni. Con molta probabilità la sua morte risaliva al 13 agosto.
Parte quarta CAPITOLO I
Nella fiaba dell'eroe è il ritorno al villaggio che giustifica le pene sofferte e le
imprese compiute nel regno dell'impossibile: senza il ritorno la sua lunga assenza
perderebbe ogni significato. Per il ritorno è anche l'esperienza più amara che egli
deve affrontare, un dolore che lo strazia più di quanto lo straziarono le battaglie
sostenute nel periodo delle grandi prove, e non solo perché fino alle porte del
villaggio egli è avversato dagli dei che non si stancano di collaudarlo, di
tormentarlo, ma perché rientrando tra i comuni mortali egli deve subire la loro
ingratitudine, la loro indifferenza, la loro cecità.
In un'unica fiaba l'eroe si risparmia l'amara esperienza, il dolore: quella del
guerriero indù Muchukunda che per non restare deluso dagli uomini chiede agli
dei di addormentarlo in un sonno che durò millenni, da quel sonno si sveglia
convinto che gli uomini non meritavano il suo sacrificio, e allora si chiude in una
caverna per liberarsi di se stesso, addormentarsi in un sonno da cui non si
sveglierà mai. Ebbene, queste cose non t'erano sconosciute al momento di salir

sull'aereo che t'avrebbe ricondotto in patria. Il tuo rinunciare ai viaggi clandestini
dopo che eri stato respinto da tutti e t'eri ritrovato su quella spiaggia con metà
faccia bruciata dal sole di mezzogiorno era nato anche dalla definitiva conferma
dell'altrui ingratitudine e indifferenza e cecità; il tuo indugiare in un esilio che
caduta la Giunta non aveva più ragion d'essere era sorto anche dalla
consapevolezza della nuova solitudine in cui saresti caduto al ritorno. Destra e
sinistra, ideologie, partiti, conformismi, schede per il computer. Ciò che non
sapevi, che addirittura non sospettavi, era la delusione che ti avrebbe
schiaffeggiato al tuo sbarco ad Atene. Ci sarà molta gente ad aspettarti? Oddio!
Immagina che folla. Voglio dire, sul fatto che all'aeroporto ti sarebbero state
dedicate accoglienze trionfali non avevi il minimo dubbio. Io neanche. Nei periodi
che segnano il passaggio da regime a regime ogni pretesto è buono per inneggiare,
mi ripetevo mentre volavo a New York, e perbacco: a migliaia erano corsi a
ricevere un Karamanlis che per undici anni se n'era stato comodamente a Parigi,
un Papandreu che per sette anni se n'era stato placidamente in Canada; a
migliaia s'erano sgolati per le piccole vittime della dittatura o per i pavidi che
all'estero non avevano fatto altro che attendere giorni migliori: chissà cosa
sarebbe successo, dunque, al tuo arrivo del 13 agosto. Chissà con quale rilievo i
giornali avrebbero sottolineato l'emblematicità di quella data, la scelta di tornare
l'anniversario del giorno in cui avevi tentato di restituire al paese dignità e libertà.
Così, quando ti telefonai da New York, le tue parole si abbatterono sopra di me
con la pesantezza di una bastonata: soltanto un paio di giornali avevano
pubblicato la notizia, ma in due righe talmente nascoste che pochi le avevano
notate, e chi le aveva notate non s'era scomposto. Infatti l'esiguo gruppetto che
attendeva oltre il recinto della dogana era formato da amici, conoscenti, ragazze
desiderose di portarti a letto, zii, zie, nipoti, cugini di primo e secondo e terzo
grado, persone messe insieme con frenetiche telefonate, su vieni facciamogli
trovare un po di gente. Poi qualcuno che alzava un patetico cartello viva la libertà,
qualcuno che alzava una ancor più patetica bandiera rossa, qualcuno che
strillava eccitato fate largo, come se ci fosse stato qualcosa da allargare. Era
crepitato un applauso simile a quelli che si odono quando si spengono le
candeline sulla torta del compleanno, t'eri lasciato sballottare e sbaciucchiare da
bocche scalmanate, palpeggiare da mani sudate, quindi eri sparito dentro
un'automobile e fino all'indomani mattina non t'aveva rivisto nessuno. perché,

Alekos, cosa hai fatto? Mi sono ubriacato peggio d'un maiale. E sono stato con
una puttana. Grassa. perché, Alekos, perché? perché mi ha vinto come un
bambolotto del tiro a segno. Non fu tanto la storia della puttana grassa a
colpirmi quanto il tono lugubre della tua voce: molto tempo dopo, studiando i
cinismi e le incoerenze con cui avresti spesso avvilito il tuo bel personaggio,
donne prese e buttate via, amici insultati, ubriacature insensate, mi sarei chiesta
se tutto ci non fosse incominciato il pomeriggio e la sera del 13 agosto 1974, in
seguito allo squallore di quel ritorno. Qualcosa s'era rotto dentro di te a scoprire
che la data del 13 agosto non significava nulla nel paese per il quale t'eri battuto,
che a migliaia erano corsi a ricevere Karamanlis e il figlio di Papandreu e le
piccole vittime della dittatura, ma non l'unico che avesse osato l'inosabile e che
fosse stato condannato a morte. Qualcosa che t'aveva incattivito, a un certo
punto addirittura imbestialito in una smania di degradazione masochista, e ci a
dispetto di una realtà che conoscevi benissimo: se tu fossi stato dalla parte di
Karamanlis o di Papandreu, cioè inserito negli schemi della destra e della
sinistra, in uno dei dogmi che dividono il mondo e intruppano gli uomini come
giocatori o simpatizzanti d'una squadra di calcio non importa quanto inetta o
quanto gaglioffa, allora i giornali avrebbero dato la notizia del tuo arrivo con
grande rilievo e tutti si sarebbero ricordati che il 13 agosto era l'anniversario
dell'attentato a Papadopulos; anche da te sarebbero venuti a migliaia. perché li
avrebbero mandati, messi in fila e mandati, allo stesso modo in cui li avevano
messi in fila e mandati da Karamanlis e da Papandreu e dagli altri. Ma un po di
popolo, dimmi, c'era sì o no? Esplodesti col fragore di una bomba: II popolo! Il
buon popolo che non ha mai colpa in quanto è povero ignorante innocente! Il
buon popolo che va sempre assolto perché è sfruttato manipolato oppresso! Come
se gli eserciti fossero composti solo da generali e da colonnelli! Come se a fare la
guerra e a sparare sugli inermi e a distruggere le città fossero i capi di Stato
maggiore e basta! Come se i soldati del plotone di esecuzione che doveva fucilarmi
non fossero stati figli del popolo! Come se quelli che mi torturavano non fossero
stati figli del popolo! Calmati, Alekos. Come se ad accettare i re sul trono non
fosse il popolo, come se a inchinarsi ai tiranni non fosse il popolo, come se ad
eleggere i Nixon non fosse il popolo, come se a votare pei padroni non fosse il
popolo! Calmati, Alekos.

Come se la libertà si potesse assassinare senza il consenso del popolo, senza la
vigliaccheria del popolo, senza il silenzio del popolo! Cosa vuol dire popolo?!? Chi
è il popolo?!? Sono io il popolo! Sono i pochi che lottano e disubbidiscono, il
popolo! Loro non sono popolo! Sono gregge, gregge, gregge! E agganciasti il
ricevitore.
Allora ti scrissi una lettera, una delle poche che d'ora innanzi ci saremmo
scambiati. Ero addolorata, scrissi, e non tanto per la sbornia maialesca, per la
squallida festicciola sessuale con cui avevi sciupato un ritorno denso di
significati, purtroppo ci sarebbero state altre sbornie nella tua vita, altre puttane
grasse e magre e ne grasse ne magre, quanto per ciò che avevo udito prima che tu
interrompessi la telefonata. Infatti ci dimostrava che il tuo riflettere non era
servito a nulla.
Non le sapevi già certe cose? Non risaliva a Boiati la tua poesia sul gregge?
Sempre senza pensare / senza un'opinione propria / Una volta gridando osanna
/ e l'altra a morte, a morte. Non avevamo discusso a iosa su questo popolo che
va sempre dove gli dicono di andare, fa sempre quello che gli dicono di fare, pensa
sempre ci che gli dicono di pensare, succube di ogni autorità costituita, di ogni
dogma, ogni chiesa, ogni ismo, ogni moda, assolto in ogni sua colpa e viltà dai
demagoghi cui non importa nulla di lui e assolvendolo mirano soltanto a
schiavizzarlo meglio per servirsene meglio? Non avevamo concluso che secondo
quei demagoghi il popolo è un'astrazione numerica, un concetto per sottrarre il
singolo alla sua identità e alla sua responsabilità, che invece l'unico fatto reale è
l'individuo e che ogni individuo è responsabile per se stesso e per gli altri? In un
mio libro sulla guerra, sul Vietnam, avevi anche letto l'esempio della pallottola del
fucile M16. Una pallottola che viaggia quasi alla velocità del suono, e viaggiando
gira su se stessa, entrando nella carne continua a girar su se stessa, e rompe e
lacera e dissangua, sicché anche ad esser colpiti a un muscolo si muore in un
quarto d'ora. Una pallottola atroce, e atroce che qualcuno l'avesse inventata, che
un governo l'avesse adottata, che un industriale vi si fosse arricchito. Per
altrettanto atroce che gli operai di una fabbrica la costruissero, scrupolosamente,
coscienziosamente, con l'avallo dei loro sindacati, dei loro partiti socialisti e
pacifisti, scartandola se un difettino ne rallentava la corsa e le impediva di
rompere lacerare dissanguare; altrettanto atroce che i soldati di un esercito la
sparassero, mirando bene affinché non andasse sprecata per carità, sentendosi

assolti dal lurido slogan ma eseguo gli ordini. Io ne ho abbastanza della battuta io
eseguo gli ordini, eseguivo gli ordini, ho eseguito gli ordini, ti scrissi, ne ho
abbastanza della responsabilità attribuita ai generali e basta, ai ricchi e basta, ai
potenti e basta: noi che siamo dunque? Dati anagrafici, numeri da manipolare a
loro piacimento nelle guerre e nelle elezioni, nel propagarsi delle fottute ideologie
e chiese e ismi? E anche colpa nostra, mia, tua, sua, di chiunque ubbidisce e
subisce se quella pallottola viene inventata e fabbricata e sparata. Dire che il
popolo è sempre vittima, sempre innocente, è un'ipocrisia e una menzogna e un
insulto alla dignità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni persona. Un popolo è
fatto di uomini, donne, persone, ciascuna di queste persone ha il dovere di
scegliere e decidere per se stessa; e non si cessa di scegliere, di decidere, perché
non si è ne generali ne ricchi ne potenti. Ma il motivo per cui ti scrivevo, conclusi,
non era neanche ricordarti cose che sapevi: era raccontarti qualcosa che ti
riguardava. Una storia ambientata agli inizi dell'Ottocento nel New England, tra i
pionieri delle colonie olandesi in America, protagonista un contadino di nome Rip
Van Winkle. Quando Rip rientrò come te al suo villaggio, le cose erano assai
cambiate: ci si apprestava a celebrare le elezioni. E poiché erano passati cent'anni
nessuno lo riconosceva, ne lui riconosceva nessuno. Col suo fucile da caccia,
seguito da uno sciame di donne e bambini, Rip si mise a vagar per le strade e
giunse a una taverna dove si teneva un comizio. Entrò per ascoltare e, poiché era
diverso da tutti, attirò l'attenzione dei politici che subito lo circondarono
scrutandolo con interesse. Finito il comizio, anche l'oratore si avvicinò. Lo trasse
in disparte e gli chiese per quale dei due partiti avrebbe votato. Rip spalancò la
bocca, esterrefatto. Allora si avvicinò uno del pubblico e, tirando Rip per la barba,
ripete la domanda: era un federalista, lui, o un democratico? Di nuovo Rip
spalancò la bocca, esterrefatto, e cadde un gran silenzio. In quel silenzio ecco
farsi largo un signore dall'aria autorevole, con la feluca in testa. Il braccio sinistro
sul fianco e la mano destra appoggiata al bastone, costui si piantò dinanzi a Rip e
gli ingiunse di spiegare cosa facesse alle elezioni con un fucile in spalla e un
gruppo di sciagurati alle calcagna: intendeva forse provocar disordini nel
villaggio? Da esterrefatto Rip divenne costernato e rispose che lui era una
persona perbene, un nativo del luogo: era tornato per rendersi utile, assumersi le
sue individuali responsabilità, il fucile lo aveva perché i tipi come lui portano a
volte il fucile, ma non lo aveva mai usato a sproposito, e comunque lui non votava

ne per i federalisti ne per i democratici. Allora scoppiò un gran tumulto. "Uno che
non vota ne per i federalisti ne per i democratici! Un profugo! Un eretico!"
gridavano tutti. "Cacciatelo! Arrestatelo!" Poi Rip fu preso e bastonato dagli uni e
dagli altri. Ecco, Alekos: per il gregge e pei tipi con la feluca, cioè per la politica
dei politici, tu sei proprio Rip Van Winkle.
In realtà la storia non era proprio così, io l'avevo un po alterata a mio uso e
consumo. Per giustificarsi, ad esempio, Rip rispondeva: Oh, signori! Io sono un
pover'uomo, tranquillo, un nativo del luogo, un fedele suddito di Sua Maestà, che
Dio lo benedica! Inoltre Rip non era un vero eroe, ne uno che avesse sofferto, s'era
semplicemente addormentato e le sue imprese col fucile le aveva compiute nel
sonno. Ma tu non lo sapevi e, appena ricevuta la lettera, mi telefonasti: Buona la
storia di Rip Van Winkle, per fra me e lui c'è una differenza.
Lui viene subito bastonato, io invece no. Presto ci saranno le elezioni e ci
crederesti? Mi vogliono tutti: da Karamanlis a Papandreu, dai comunisti
all'Unione di Centro. Non è possibile! Sì che è possibile. Nella politica dei politici
tutto è possibile. Nella politica dei politici ci si serve di chiunque, a costo di offrire
una poltroncina in Parlamento. La voce suonava quasi festosa: chiaro che il
trauma del primo giorno era dimenticato. E tu cosa intendi fare, Alekos? M'è
piaciuto soprattutto il particolare del tipo autorevole con la feluca.
Alekos... Sì? Ti ho posto una domanda. Quale domanda?
L'hai udita benissimo. Sì, e io te ne pongo un'altra: conosci un modo per fare
politica senza entrare nella politica dei politici? Io voglio fare politica. La politica
per me è un dovere, è uno strumento di lotta. A cosa serve battersi per la libertà
se quando c'è un po di libertà non la si usa per fare politica? Ho tentato di
uccidere un uomo perché si potesse fare politica, ho seminato dolore perché si
potesse fare politica, sono stato in prigione e in esilio perché si potesse fare
politica: dovrei forse ritirarmi a vita privata, ora che stiamo per avere un
Parlamento? Devo entrarci in quel Parlamento, devo entrarci come Ulisse che
entra nella città di Troia col suo cavallo di legno. Quindi ho bisogno di un cavallo
di legno. Cioè di un partito. Sì, di un partito. E con ciò? Con ciò è lo stesso che
cedere a un ricatto, Alekos. No se una volta entrato nella città di Troia, me ne
vado per conto mio. E poi non ho scelta, ti dico. L'unico dilemma ormai è... Ciao,
costa troppo parlare di queste cose fra Atene e New York.

Per qualche giorno non ti richiamai, tanto lo sapevo qual era il dilemma. Era il
solito dilemma di noi senza scheda, senza chiesa, senza patria, il solito dilemma
di chiunque voglia cambiare un po questo mondo senza irreggimentarsi nei codici
del computer: presentarsi con chi, cedere al ricatto con chi. Non col partito di
Karamanlis, ovvio, ne col partito di Papandreu, scartati quei due poli del tuo
disprezzo, non restavano che i comunisti e l'Unione di Centro. Una specie di club
liberal socialista, questo, che negli anni Sessanta aveva coalizzato i socialisti, i
socialdemocratici, e gruppi vaganti di sinistra. Che tu ti presentassi coi
comunisti, mi sembrava improbabile: sai che festa quando ti avrebbero sentito
dire una delle tue boutades preferite e cioè che le dittature di destra finiscono
prima o poi col cadere ma quelle di sinistra non cadono mai. Che tu ti regalassi
all'incerto club dell'Unione di Centro, mi sembrava una specie di beffa fatta per
masochismo.
A parte il suo leader, Mavros, che giudicavi un brav'uomo, si trattava di
mestieranti privi di idee e di domani. Tuttavia non avevi scelta: se volevi diventare
deputato e batterti in Parlamento, agli uni o agli altri avresti dovuto aggregarti,
sia pure come indipendente. E alla fine, morsa dalla curiosità, allo stesso tempo
allarmata da un silenzio che non annunciava nulla di buono, ti telefonai. Ma
stavolta la voce non suonava festosa.
Era piuttosto un fiume di rabbioso scontento. Hai deciso? Sì.
Con chi? Con chi, che significa con chi?! Con quale partito della sinistra. Sinistra,
sinistra, che vuol dire sinistra, la sinistra è una bugia, è un alibi con la parola
Popolo, un paio di mutande con la parola Popolo, ecco la bandiera della sinistra,
cataramene Criste, Cristo maledetto! Un paio di mutande per giocare a scacchi
con la destra, io piglio la torre e tu pigli l'alfiere, io piglio il re e tu pigli la regina!
Tanto le pedine sono uguali, non cambia che il colore, cataramene Criste! E se
non vuoi startene con le mani in mano, devi indossare quelle mutande, devi
sventolare quella bandiera, devi presentarti con quell'etichetta, hai ragione, è un
ricatto. Un lercio ricatto. Sì, mi sono piegato al ricatto. Con chi, Alekos? Con chi?
Con chi volevi che mi presentassi, ho scelto il ricatto che mi sembrava meno
ricatto, il partito che mi sembrava meno partito: l'Unione di Centro. Ah! Non è
una gran scelta, lo so, ma lì non vi sono demiurghi, non vi sono ingannapopoli, e
nemmeno preti che accendono candele sull'altare della dea Storia, può anche
darsi che finisca col trovarmici bene. Che intendi dire? Non ti presenti come

indipendente? No, mi sono iscritto. Iscritto?! Rimasi senza parole. Dunque avevi
capitolato in pieno. Dunque l'impotenza di noi senza scheda, senza chiesa, senza
patria, aveva vinto. L'alternativa d'altronde qual era? Andare predicando per le
case e le piazze come Socrate? Tornare a gettar bombe come coloro che chiamavi
rivoluzionari del cazzo? Pronto, pronto! Dove sei? Sono qui, Alekos. Credevo che
tu avessi agganciato. Oh, no. Pensavo. A cosa? A nulla di importante, caro. A
nulla. Allora mi fai gli auguri? Sì, caro.
Ti faccio gli auguri. .E quando vieni? Eh? Quando vieni?
Quando vieni? Ora ogni telefonata finiva con la domanda:
Quando vieni? E telefonavi quasi quotidianamente, chiamata diretta, prenotata,
diurna, notturna, pagata ad Atene, pagata a New York. Non sempre perché sentivi
la mia mancanza o perché avevi qualcosa da dirmi ma perché il telefono era il tuo
balocco preferito, una delle tue passioni travolgenti. Risaliva agli anni
dell'adolescenza, quella passione, e cosa l'avesse originata non so; per so che non
aveva mai perso vigore e che nemmeno il controllo dei servizi segreti e delle polizie
era mai riuscito ad estinguerla. A telefono cospiravi, flirtavi, predicavi, seducevi,
organizzavi, facevi amicizie, superavi gli attacchi di malumore o di noia: Ah, se
avessi avuto un telefono nella mia cella a Boiati! La prima cosa che mi avevi
chiesto venendo in Italia era stata: Quanti telefoni hai? Ed eri rimasto male a
scoprire che gli apparecchi erano tre ma il numero era uno solo: nella casa col
giardino di aranci e limoni avevi due apparecchi e due numeri, nel tuo studio di
deputato avresti
avuto sei apparecchi e tre numeri. Anche se squillavano tutti insieme e in stanze
diverse non ti inquietavi, al contrario te ne beavi: quel fracasso diventava musica
per i tuoi orecchi, un concerto di arpe di violini di clarinetti di flauti, e guardarti
saltare dall'uno all'altro come un grillo felice era uno spettacolo indimenticabile;
udirti rispondere, addirittura incredibile. Non respingevi mai nessuno a telefono,
non ti lamentavi mai del disturbo, ti buttavi sulla cornetta come un morto di fame
si getta su un panino imbottito e: Sono io! Sono me! Ma soprattutto ti piaceva
chiamare. Nel periodo del tuo esilio in Italia v'erano giorni in cui non staccavi il
dito dai fori del disco, alla fine del mese arrivavano bollette così astronomiche che
al solo gettarvi un'occhiata cadevamo in crisi di sconforto profondo quanto la tua
colpevolezza. Poi pentito ti esortavi al plurale dobbiamo smetterla, dobbiamo
smetterla, e per qualche ora mantenevi l'impegno. Subito dopo per te ne scordavi

e, composto un numero, sempre in una città lontana, in un paese lontano: Sono
io! Sono me! Le interurbane ti incantavano, le internazionali ti estasiavano, le
intercontinentali ti conducevano in paradiso: dicevi che parlare con qualcuno al
capo opposto della terra era una cosa fiabesca, ai bordi del soprannaturale:
specialmente in diretta. Cercavi sempre gente che abitasse in luoghi remoti per
chiamarla in diretta, e ti avvilisti molto a scoprire che in Giappone si poteva
chiamare in diretta ma non conoscevi nessuno da chiamare in Giappone. Per
mesi continuasti a chiedermi: Non vai mica in Giappone? E la sera in cui replicai
insospettita perché diavolo volevi mandarmi proprio in Giappone, cosa ti serviva
in Giappone, confessasti: .Nulla! Ma se ci vai ti telefono! Le telefonate a New York
sostituivano le telefonate che non avevi mai fatto in Giappone, ti fornivano il
pretesto per godere la cosa fiabesca ai bordi del soprannaturale, e per questo non
coglievo la drammaticità del ritornello quando vieni. Per questo, quando venni ad
Atene, tutto mi colse alla sprovvista.
Sembrava che su di te fosse passato un anno di malattie. Il tuo volto s'era come
rimpicciolito, consunto, dissolta la pienezza delle guance rotonde ora si riduceva
a una vastissima fronte, due occhiaie livide, un naso secco e un paio di baffi. Il
tuo corpo s'era come svuotato, incurvato, scomparsa la robustezza delle spalle
diritte e del torace solido ora ciondolava l'atonia d'una pianta priva d'acqua e di
sostegno. Ma il particolare più impressionante non era nemmeno quella
decadenza fisica, era la sciatteria che ti immiseriva, una specie di degradazione
voluta, quasi che attraverso di essa tu volessi esprimere chissà quali proteste o
scontenti. Capelli unti e arruffati in una zazzera di ricciolini volgari, unghie nere,
giacca senza forma e zeppa di patacche, pantaloni senza piega e con le borse ai
ginocchi, camicia sporca e sbottonata, cravatta a sghimbescio, e puzzavi. Sai il
puzzo acre di chi non si lava da tempo o dorme con gli abiti addosso. Ne fui così
scandalizzata che invece di lasciarmi condurre a casa tua condussi te in albergo,
per buttarti dentro la vasca da bagno, dare quei vestiti a lavare, mandarti dal
parrucchiere; ma anche ripulito e sbarbato avevi un'aria così tapina da stringere
il cuore. Ne riuscivo a immaginare perché. Alla fine, stavamo andando all'ufficio
che avevi aperto in via Solonos, ti interrogai. Avanti, Alekos. Cos'è? C'era,
incominciasti prendendola larga, che ti sentivi scocciato perché la famiglia è un
gran peso, ecco, un gran conforto ma anche un gran peso, un ricatto che ci
accompagna per l'intero ciclo della nostra esistenza, prima da neonati poi da

bambini poi da adolescenti poi da adulti, una specie di partito al quale ti trovi
iscritto venendo al mondo, una dittatura che non ti scrolli di dosso neanche a
fare resistenza, perché malgrado tutto la ami, accidenti: prendi la madre ad
esempio. Lei è la terra e il sole e i pianeti e le galassie e il cosmo di ogni cosmo, la
legge di ogni legge, l'amore di ogni amore, è universale, in India la rappresentano
con quattro braccia e una ghirlanda di teste umane in capo, le teste dei figli che
ha mangiato, infatti la chiamano Kalì la Sanguinaria; in occidente la
rappresentano con un'aureola di luce e un sorriso dolcissimo, un volto doloroso e
soave, la chiamano Maria Vergine, quel povero Cristo ci mise trent'anni prima di
andarsene pei fatti suoi perché lei lo ricattava col suo amore, pretendeva che lui
facesse il falegname; nella mitologia greca invece è Teti dalle tonde spalle, è Gea
dall'ampio seno, è Giunone dai larghi fianchi, è Pallade Atena dagli occhi di gufo
rutilante e guerriera, è Giocasta cioè la più tremenda di tutte perché il suo Edipo
lei se lo sposa, se lo genera e se lo sposa e lui ci rimette anche gli occhi. E
comunque tu la chiami è sempre lei, la grande genitrice che ci crea e ci distrugge,
ci protegge e ci punisce, castrandoci col suo affetto e le sue gelosie, cataramene
Criste.
No, Alekos, non è questo. Un sospiro rassegnato: Hai ragione. E anche questo ma
non è questo. Allora cos'è? Ti lanciasti in un'altra tirata, stavolta contro le donne
che ti corteggiavano, che non ti davano pace, più spietate, più carnivore di ogni
Giocasta, di ogni Maria Vergine, di ogni dea Kalì, e la colpa era una che invece di
venire ad Atene io ero andata a New York lasciandoti a disposizione come un
bambolotto del tiro a segno, e un uomo è fatto di carne, la carne è debole, inutile
che tu mi guardi a quel modo, mi rubano i coglioni e ci casco, ce ne sono di quelle
che venderebbero l'anima pur d'essere sbatacchiate due minuti in ascensore, e se
gli fai la cortesia dopo non te ne liberi più, ma la peggiore è la grassa che mette le
corna al marito, non me la levo di torno, non mi molla quella puttana, non mi
guardare così, ho detto, è colpa tua, ripeto, cataramene Criste! No, Alekos. Non è
nemmeno questo. Secondo sospiro: No, non è nemmeno questo. E anche questo
ma non è questo. Allora, avanti, cos'è? Ed ecco la terza filippica, stavolta contro
la tua città, dacci un'occhiata, per capirlo non hai che darci un'occhiata, questa
piazza per esempio, ci abitavo da bambino e ricordo che a quel tempo c'erano
case piene di grazia, bei balconi di ferro, tetti rossi, facciate con la patina del
tempo, ora solo casermoni, simbolo d'un'ignoranza che non sa cambiare ne

conservare, non sa che distruggere e dimenticare, abbiamo dimenticato tutto,
anche Socrate anche Platone, non ci resta che il mare e il cielo, il sole per
crescere i pomodori, s'è perduta l'antica fierezza, del resto sette anni si son tenuti
la dittatura, c'è voluto il sangue di Cipro perché ritrovassero uno straccio di
libertà con Evanghelis Tossitsas Averoff, questa gente capace di vivere nel
pettegolezzo e basta, nell'intrigo e basta, nel piccolo imbroglio, levantini ci
chiamano e hanno ragione, traditori, infingardi, io non mi fido di nessuno, non
posso fidarmi di nessuno, cataramene Criste!
No, Alekos, non è questo. No, non è questo. E anche questo ma non è questo.
.Dunque, Alekos, cos'è? Alzasti un volto carico di sgomento: C'è... C'è che ho
sbagliato tutto . .Hai sbagliato tutto?! Sì. perché queste elezioni sono una farsa,
un alibi di chi indossa le altre mutande, quelle con la parola Libertà. Elezioni
mentre Joannidis è ancora capo dell'Esa, cataramene Criste! Mentre i
Teofilojannacos, gli Hazizikis, i Malios, i Babalis, se ne vanno a spasso impuniti!
Mentre Papadopulos se ne sta comodo nella sua villa di Lagonissi! Mentre l'unico
processo che si celebri è quello contro sua moglie Despina per diecimila miserabili
dracme che il Kyp le passava ogni mese! Non faceva nulla per guadagnarsele dice,
frode allo Stato. Chi se le è guadagnate, invece, è cittadino benemerito. E se gridi
che schifo ti rispondono: ma come? C'è la democrazia, ora, c'è la libertà. Ci sono
le elezioni, anche Panagulis si presenta candidato. Ebbene non voglio essere
candi dato! Non voglio esser complice di questa farsa! Ho sbagliato a dire sì! Ho
sbagliato a tornare! Ho sbagliato tutto, sì, tutto! E me ne vado! Me ne vado, me ne
vado! Te ne vai... dove?!
Dove avrei dovuto andarmene quando la Giunta ha abdicato! In Cile, tra i baschi,
all'inferno! Ovunque battersi significhi battersi e non fare a pugno con le ombre,
con gli alibi!
Ecco cosa ti succhiava le guance, ti illividiva le occhiaie, ti svuotava in una
decadenza fisica, voluta. Ma allora non eri cambiato, avevo commesso un errore a
credere che nei pochi mesi trascorsi a pensare fosse maturato un personaggio
nuovo: le vere bombe sono le idee. Le idee non ti bastavano, le sfide da condurre
con l'intelletto, e forse non avevi dimenticato neanche il fascino della morte, il
misterioso rimpianto che avevo visto a Egina. Ti guardai come si guarda una
porta che ci sforzavamo di aprire senza accorgersi che era già aperta.

Che replicare? Con quali parole aiutarti? Con la vecchia battuta che morire è
facile, il difficile è vivere? Col vecchio ragionamento che in guerra chiunque riesce
a fare l'eroe, in pace non ci riesce quasi nessuno? Non avrebbe cambiato nulla,
tanto più che le tue erano verità sacrosante: quelle elezioni non sarebbero servite
che ai Karamanlis, ai Papandreu, agli Averoff, e con la parola Libertà si imbroglia
altrettanto bene che con la parola Popolo. .Non so che dirti, Alekos. Ci credo. Su,
vieni. Eravamo giunti a via Solonos e stavi spingendomi verso il portone del
casamento dov'era il tuo ufficio. Entrammo, salimmo con l'ascensore, fummo in
un pianerottolo lungo, dinanzi a un uscio col tuo nome, e subito mi sfuggì un
grido.
Sotto il tuo nome c'era una grande croce, e sotto la croce due date: 17 novembre
1968 17 novembre 1974. .Alekos! Cosa significa, Alekos? .Significa quel che hai
capito mormorasti.
Significa che qualcuno a cui non piace che sia rimasto vivo sei anni fa vorrebbe
vedermi morto il prossimo 17 novembre.
Poi, con risorta vivacità: Sai che concludo? Non me ne vado, no. Non ci rinuncio a
quella candidatura: alle elezioni mi presento eccome. Ah, quanto mi piacerebbe se
fossero il 17 novembre! E, come gli autori della laconica minaccia sapevano, esse
si sarebbero svolte proprio il 17 novembre. La notizia venne data poco tempo
dopo.
Era stato come annaffiare una pianta ammalata di siccità, nel giro di una
settimana eri rifiorito anche fisicamente. Via l'aspetto consunto, le occhiaie livide,
le spalle curve, la sciatteria, la tristezza, don Chisciotte aveva ritrovato se stesso e
la sua fantasia galoppava di nuovo nel regno delle bizzarrie folli, degli entusiasmi
stupefacenti. Un'idea! Quelle due date sotto la croce mi hanno suggerito un'idea!
Stamperò diecimila manifesti con lo slogan: "Il 17 novembre 1968 la Giunta
condannò a morte Alessandro Panagulis, il 17 novembre 1974 il Popolo lo
eleggerà deputato al Parlamento". Così ci schiaffo anche la parola Popolo e i
portatori di mutande mi votano. Sì, Alekos, ma... Anzi, metà manifesti e metà
francobolli. Così si risparmia la colla: una leccata e via. E si attaccano dove ci
pare: sui finestrini dei taxi, degli autobus, dei bar, sulle sedie, sui tavoli, addosso
alla gente. Passa uno e paf, glielo appiccichi sulla schiena, su un braccio. Oppure
sul sedere. Te lo immagini Averoff col mio francobollo sul sedere? Sì, Alekos,
ma...

Senti questa: invece dei soliti manifestini voglio distribuire il mio libro di poesie.
Mille copie, diciamo. Non è un gesto simpatico, chic? E poi contribuisce alla
diffusione della cultura. Sì, Alekos, ma chi si occupa della tua campagna
elettorale: il partito? II partito? Che c'entra il partito? C'entra perché una
campagna elettorale costa denaro. Denaro? Che denaro?
Ad esempio il denaro per stampare quei manifesti, quei francobolli, e per
comprare quei mille libri. I libri ce li compriamo da noi, con lo sconto, i manifesti
e i francobolli ce li stamperemo da noi, in qualche modo, io non accetto nulla dal
partito! Alekos, non ti illuderai mica di condurre una campagna elettorale con un
libro di poesie e qualche francobollo da appiccicare sul sedere della gente?! No,
poi ci sono i comizi.
Ma anche i comizi costano! Per organizzarli ci vogliono molte persone e... Ho i
miei amici. Avrai bisogno di automobili, di... Ho le automobili dei miei amici.
Avrai bisogno di telefoni e... Sì, i telefoni sì! E di un ufficio. L'ufficio ce l'ho..
Quello di via Solonos? Ma se è un buco più grande della tua cella a Boiati!
Ascoltami, Alekos... No, non ti ascolto. perché se ti ascolto mi tiri fuori la logica, e
con la logica io mi scoraggio. E se mi scoraggio non vinco. I soldi li troveremo. Se
non li troveremo, pazienza. Farò senza uffici, senza automobili, senza telefoni,
comprerò qualche barattolo di vernice, qualche pennello, e scriver il mio nome sui
muri. E se non avrò i soldi per comprare la vernice, i pennelli, lo scriver col
carbone: Votate per me. Nessun ostacolo ti spaventava, anzi accendeva il tuo
orgoglio e la tua immaginazione: se il modo di fare democrazia era sbagliato,
dicevi, perché non incominciare ad avversarlo rifiutando le immoralità della
macchina elettorale? Si spendono miliardi per trasformare i comizi in kermesse
festaiole! Si tagliano foreste per fabbricare la carta che si sprecherà nei manifesti!
Si bruciano fiumi di benzina per trasportare i candidati in automobile! Un
candidato onesto dovrebbe cavarsela con una bicicletta e un megafono. Senza
contare che i cosiddetti sostenitori non danno nulla per nulla: un finanziamento è
sempre una corruzione antelitteram, cioè un debito che prima o poi ti verrà
presentato con richieste di favori o di imbrogli. Che eri rifiorito, del resto, divenne
evidente il giorno in cui contrabbandasti i cinque milioni coi quali avresti
condotto l'intera campagna elettorale.
Persuaso alla fine che con una bicicletta e un megafono non saresti andato
lontano, e neppure col votate per me scritto a carbone sui muri, quindi qualche

manifesto ci voleva, e anche un ufficio meno scomodo del buco in via Solonos,
allo stesso tempo deciso a non accettare una dracma dai tuoi concittadini, mi
avevi nominato tuo tesoriere personale all'estero e spedito in Italia a elemosinare
aiuti presso i portatori di mutande con la parola Popolo. Errore ingenuo, visto che
il gran protetto dei socialisti italiani era Papandreu, che soltanto su di lui si
concentrava la loro prodigalità internazionalista.
Ma, un bel mattino: Vittoria! Vittoria! Esortato da Nenni, un gruppo periferico
aveva disubbidito al Comitato centrale mettendo insieme una colletta che ora ti
aspettava a Venezia. E poiché la Biennale di Venezia t'aveva invitato alla
cerimonia d'apertura, biglietto aereo compreso, potevi venir subito a ritirare la
somma senza rimetterci un soldo. Che somma, Alekos? Una somma enorme.
.Quanto enorme? Vedrai. Ventiquattr'ore dopo eccoti in piazza San Marco dove
due brav'uomini giunti da Modena ti consegnano un fagotto legato con uno
spago. Li ringrazi tra baci e abbracci, corri in albergo, rompi lo spago con dita
tremanti, e sul letto si sparpaglia una grandine di banconote da diecimila.
Alekos... sarebbe questa la somma enorme? Sì! Cinque milioni, pensa! Cinque
milioni! Lo sai quante cose ci faccio io con cinque milioni? E intanto li contavi,
estasiato, li palpeggiavi, li accarezzavi, li allineavi dentro una valigetta che da quel
momento ci avrebbe seguito ovunque, in motoscafo, in gondola, nei ristoranti, nei
musei, perfino all'inaugurazione nel palazzo dei Dogi dove avresti preteso che la
tenessi sulle ginocchia per poterla controllare mentre pronunciavi il tuo discorso,
e al banchetto dove l'avresti nascosta sotto la tavola: ben stretta fra le gambe.
Non la lascio in albergo, no. Altrimenti me la rubano e addio campagna elettorale.
L'eventualità di un furto essendo l'unico assillo che dimostravi, credevo che tu
non avessi considerato il problema di trasferire quel denaro in Grecia: particolare
non trascurabile dato il rigore della legge italiana sul contrabbando di valuta.
Invece lo avevi considerato eccome: me ne accorsi quando ti accompagnai
all'aeroporto e ti chiudesti insieme alla valigetta nel cesso per uscirne mezz'ora
dopo con un passo che non mi convinceva. Camminavi in modo così strano.
Sembrava che tu avessi le gambe di legno, non piegavi nemmeno i ginocchi.
Peggio, non stacvcavòi nemmeno i piedi da terra: li strascicavi, rigido come un
automa: Alekos! Che hai fatto? Eh! Mezzo milione in una scarpa, mezzo milione in
un'altra scarpa, un milione intorno alla gamba sinistra, un milione intorno alla
gamba destra, e il resto nelle mutande.

Ciao. E con un meraviglioso sorriso ti presentasti al controllo di polizia dove un
agente ti perquisì dalle ascelle ai fianchi, in cerca di armi, aprì la valigetta, frugò
tra le carte, esaminò il portafoglio: Niente valuta italiana? Neanche una lira. Buon
viaggio, grazie. Grazie a lei, si figuri, e via, rigido come un automa, senza sollevare
i piedi ne piegare i ginocchi, col tuo tesoro che nessuna banca di Atene avrebbe
voluto cambiare tanto era spiegazzato, strappato, maleodorante. Sono soldi,
questi, o calzini sporchi? Per saresti riuscito ugualmente a trasformarli in
dracme, e con una parte ci avresti anche affittato ci che chiamavi il mio quartier
generale.
Il quartier generale si componeva di due stanzoni lerci, scrostati, con le vetrate
semicoperte da un ritratto che t'avevano fatto al tempo del processo e il cartellone
che t'eri scelto come simbolo: un pugno levato a stringere un ramoscello d'olivo e
una colomba bianca. La colomba che c'entra, perché? Non c'entra, mi piace., E il
ramoscello d'olivo? Mi piace anche quello. Ma cosa significa? Boh! L'arredamento
consisteva in un paio di tavolacci, una scrivania prestata, otto sedie sgangherate
e regalate da otto donatori diversi, una poltrona zoppa, un vaso da fiori, un
fornellino elettrico per il caffè e molti apparecchi telefonici di cui uno rosso a
gettone. Le persone che ci incontravi erano persone prive di qualsiasi esperienza
politica, giovanotti con l'unico merito d'esserti ciecamente devoti, ragazze con
l'unico vantaggio d'essere innamorate di te, parenti affezionati e una vecchia col
cappellino e gli occhiali doppi da miope. Chiunque si offrisse di lavorare gratis
infatti veniva accolto e usato senza limiti ne misericordia, compresa la poveretta
che il tuo cinismo chiamava quella puttana grassa. Dottori in medicina venivano
impiegati per incollare manifesti, laureati in architettura per scrivere il tuo nome
sui muri, vecchie zie e paralitici per rispondere al telefono o fare il caffè; ma
sebbene ognuno si sfiancasse di buona volontà, la campagna procedeva
disastrosamente. Anzitutto il materiale di propaganda era scarso. A parte i
francobolli con le date 17 novembre 1968 17 novembre 1974 e qualche dozzina
di cartelli col ramoscello d'olivo e la colomba, si riduceva a un centinaio di
volantini con la tua fotografia del passaporto.
Quanto alle mille copie del libro di poesie giacevano in un magazzino della
dogana, bloccate da una pesantissima tassa che ti rifiutavi di pagare. Poi la
stampa non si occupava in nessun modo di te. Tesi a pubblicizzare le loro
clientele di destra e di sinistra, i giornali non dicevano nemmeno che eri

candidato. Infine non facevi nulla per sedurre gli elettori, chiedergli il voto. Ti
limitavi a parlar nei comizi e questi erano il tuo tallone d'Achille. Soltanto al
processo, con la morte in faccia, eri riuscito ad esprimerti con efficacia: in
circostanze normali, non avevi un briciolo d'arte oratoria. Non sapevi costruire un
discorso scorrevole, mancavi di qualsiasi brio, ti facevi prendere dalla timidezza e
per darti un contegno ti lasciavi andare a gesti sbagliati come ficcare le mani in
tasca o brandire in modo minaccioso la pipa. In tanta catastrofe anche il fascino
della tua bella voce svaniva ed essa diventava debole, grigia, impoverita dalle
papere in cui incespicavi, oppure distorta da un berciare sguaiato. Quasi ciò non
bastasse, detestavi per principio i comizi. Sostenevi che sono soltanto esercizi di
retorica, bugie, spettacoli per imbrogliare la gente, manipolarla, ubriacarla di
promesse che non verranno mai mantenute, e per non renderti colpevole di quei
delitti cadevi nell'eccesso contrario sottolineando verità brutali, esponendo
concetti impopolari: il veleno delle ideologie, l'ottusità dei dogmi, la disonestà
degli alibi, la falsità del progresso, la viltà delle masse che ubbidiscono. Magari
riassumendo tutto in slogan e battute sommarie. Ascoltarti era talmente
angoscioso che ogni volta vi assistevo col cuore in sospeso e chiedendomi oddio,
oggi cosa combinerà?
Non che ci venissi spesso, di solito preferivo evitarmi il tormento, e non che
capissi bene ci che dicevi nella tua lingua. Per, se venivo, mi bastava orecchiare i
vocaboli sossialisms, socialismo, fassisms, fascismo, epanàstassis, rivoluzione,
las, popolo, sovraca, mutande, ghis tou Papandreu, il figlio di Papandreu, per
ricostruire un discorso che ormai sapevo a memoria e che suonava press'appoco
così: Socialismo quale socialismo, oggi chiunque parla di socialismo, la parola
socialismo è diventata la salsa di ogni pietanza, il fiore all'occhiello di ogni bugia,
una moda. Ci siamo forse dimenticati che anche Mussolini cianciava di
socialismo, anzi veniva dal socialismo, e anche Hitler? Nazismo non è forse
l'abbreviazione di nazionalsocialismo? Uno dice socialismo e voi dietro, senza
chiedervi che socialismo, senza guardare in faccia chi dice socialismo, il figlio di
Papandreu per esempio, lui che la parola socialismo ce l'ha scritta sulle mutande,
e lo stesso la parola rivoluzione, la parola Resistenza. Quale resistenza, quale
rivoluzione? Perfino Papadopulos chiamò il suo colpo di stato rivoluzione, e
perfino Pinochet: anche a destra non v'è dittatore che non ricorra alla parola
rivoluzione. Vogliono farla tutti questa rivoluzione e poi non la fa nessuno, meno

che mai coloro che si definiscono rivoluzionari, perché con le loro rivoluzioni non
cambia che il padrone, il regime.
La rivoluzione non si comanda. Esiste un'unica rivoluzione possibile ed è quella
che si fa da soli, quella che avviene nell'individuo, che si sviluppa in lui con
lentezza, con pazienza, con disubbidienza! La rivoluzione è pazienza, è
disubbidienza: non è fretta, non è caos, non è ci che vi raccontano i demagoghi
con la bacchetta fatata. Non date retta a chi vi promette miracoli, non date retta a
chi si impegna a cambiare le cose in quattro e quattr'otto come un mago. I maghi
non esistono, i miracoli non esistono. I demiurghi si fanno beffe di voi, brutti
scemi, che siete abituati a farvi prendere per il naso da tutti, a subire; questa
facciata di democrazia può essere abbattuta con un soffio se seguite le
chiacchiere dei falsi rivoluzionari! Teniamocelo stretto questo straccio di libertà
regalata sul sangue di Cipro. Regalata, sì, e la libertà regalata dà sempre frutti
che sanno di sale: se non state attenti, queste elezioni gioveranno soltanto agli
eredi della Giunta. perché la giunta non è caduta, ha semplicemente cambiato
tattica, delegato il suo potere a cialtroni vestiti da liberali, a luridi porci come
Evanghelis Tossitsas Averoff, alla schifosissima destra che spadroneggia da
secoli, che fino a ieri ballava il minuetto con Papadopulos, con Joannidis, e che
oggi lo balla coi barricaderi, coi cultori di altri totalitarismi. E voi non ve ne
accorgete. perché non pensate. Tanto c'è sempre qualcuno che pensa per voi, che
decide per voi: padrone dimmi cosa devo fare, compagno dimmi cosa devo
pensare.
La gente ascoltava ora delusa ora offesa e ora smarrita: ma che diceva costui,
perché li maltrattava e li frustrava nelle loro speranze? Cosa intendeva con la
storia delle mutande, della pazienza, della libertà regalata, del socialismo che è
una parola, una salsa, una moda, a cosa alludeva col finalino del pensare e non
pensare, compagno dimmi cosa devo pensare? Loro avevano sempre creduto che
il bene fosse bene, il male fosse male, che i cattivi stessero da una parte e i buoni
dall'altra, mai sentito dire che invece fossero la stessa cosa e che per star meglio
si dovesse fare le rivoluzioni da soli: come si fa a fare le rivoluzioni da soli? In
maggioranza eran poveri cristi dalle mani callose, il volto di chi obbedisce dacché
mondo è mondo, tappeti d'ogni potere, strumenti d'ogni ambizione, vera merce di
scambio tra i Breznev e i Pinochet, gli Averoff e figli di Papandreu: bastava

guardarli per rendersi conto che al comizio ci venivano per ricevere un po di
speranza e non per essere rimproverati. No, questo giovanotto che parlava
dimesso, incespicando, monotono, e d'un tratto si impennava per urlare pazzie,
non lo capivano proprio. Così il comizio finiva in freddezza, al massimo con piccoli
applausi di cortesia, più incerti e leggeri d'una pioggerella d'estate, e tu partivi
imbronciato a bordo di un camioncino che non contribuiva davvero a vestirti
d'autorevolezza. Era un camioncino prestato non so da chi, tappezzato di
francobolli e di manifesti con l'orribile fotografia del passaporto, talmente vecchio
che se non lo spingevi il motore non si avviava: vedertelo pigiare, ansimando, era
uno spettacolo che pochi apprezzavano e che molti giudicavano desolante. A ciò
aggiungi che spesso i tuoi avversari si vendicavano senza pietà, gli intellettuali
specialmente, e con la prosopopea di chi ha letto o finge di avere letto i quaranta
volumi di Marx ed Engels nonché i quarantacinque volumi di Lenin nonché la
Scienza della Logica di Hegel, gridavano all'ignoranza o alla superficialità o alla
fragilità di pensiero. Oppure si limitavano a ghignare: Lascialo dire, non sa quello
che vuole, è un rozzo, un romantico, un dinamitardo fallito, in fondo che meriti
ha? Ha messo due bombe. E una non gli è nemmeno scoppiata, l'altra ha aperto
un buco nell'asfalto e basta. Parole, queste, che ti ferivano a morte anche se non
lo davi a vedere e continuavi imperterrito con le tue verità spietate, i tuoi
camioncini sconquassati, le tue scrivanie imprestate, le tue sedie regalate, i tuoi
miserabili cinque milioni ormai ridotti a poche dracme, e l'incrollabile certezza di
vincere la grande scommessa: La gente in fondo mi capisce. La gente mi voterà.
finché giunse il giorno delle elezioni.
Come quando si aspetta il verdetto di una giuria che decide il nostro futuro, o il
risultato di un esame medico da cui dipende la nostra salute, e più esso tarda a
venire più ci assale il timore che annunci un morbo senza rimedio, una condanna
senza appello, così io aspettavo la tua telefonata da Atene, camminando su e giù
per la stanza d'uno squallido albergo in Giordania. Non avevo voluto vedere il tuo
ultimo comizio, me n'era mancato il coraggio. Però da un balcone dell'hotel
Grande Bretagne avevo visto il comizio di Karamanlis che si svolgeva alla stessa
ora della stessa sera, avevo visto la gente da cui credevi d'essere capito ed eletto.
L'avevo vista arrivare: ordinata, disciplinata, intruppata, davvero gregge che va
dove vuole chi comanda, chi promette, chi spaventa, a occhi chiusi tanto non c'è
neanche bisogno di vedere la strada, la strada è un fiume compatto di lana che

approderà alla piazza scelta dal potere in carica, in questo caso piazza Sintagma
ad Atene e viva Karamanlis, in altri casi piazza Venezia a Roma e viva Mussolini,
piazza San Pietro in Vaticano e viva il Papa, Alexanderplatz a Berlino e viva Hitler,
Trafalguar Square a Londra e viva Sua Maestà la regina, piazza Concordia a
Parigi e viva De Gaulle, piazza della Pace Celeste a Pechino e viva Mao Tse Tung,
piazza Rossa a Mosca e viva Stalin, anzi viva Krusciov, anzi viva Breznev, viva chi
capita, cioè viva chi sta in cima alla montagna, mai viva i cristi che muoiono
perché le pecore diventino uomini e donne. I cristi si applaudono soltanto ai loro
funerali, quando non disturbano più. L'avevo vista riempire la piazza, diventare
una massa compatta, un esercito di ottocentomila, e ne avevo avuto paura. Non
tanto per il numero quanto per il rigore geometrico con cui li avevano allineati in
squadre e centurie, la metodicità con cui sventolavano le bandiere e agitavano i
cartelli e alzavano le fiaccole, la regolarità con cui scandivano gli evviva
obbedendo ai coordinatori con i walkietalkie. Un, due, tre: Karamanlis!. Un, due,
tre: Karamanlis!. E ogni Karamanlis erano quattro colpi di cannone sparati a
distanza precisa l'uno dall'altro, un addensarsi del bombardamento già così
intenso e così spaventoso da sopraffare del tutto il discorso del vecchio politicante
che, illuminato dai fari e scortato da Evanghelis Tossitsas Averoff, si sgolava
dicendo diosacche: l'unica parola che si distinguesse era il nome del suo partito,
Nea Democrazia. Forse spiegava cosa fosse questa nuova democrazia, in che
modo si accingesse a fotterli, ma loro non volevano saperlo, volevano inneggiarlo e
basta, sicché se egli avesse urlato il risultato di una partita di calcio, Real Madrid
Manchester due a uno, o se avesse urlato una ricetta di cucina, prendete la
braciola infarinatela poi salatela e friggetela, sarebbe stato proprio lo stesso,
avrebbero continuato lo stesso a sparare la quadruplice cannonata, sventolare
bandiere, agitare cartelli, obbedire ai caposquadra che a loro volta obbedivano ai
capocenturia che a loro volta obbedivano ai coordinatori con i walkie talkie che a
loro volta obbedivano al gran regista dell'apoteosi. Chi era il regista? Aveva
pensato anche ai fuochi d'artificio e ai piccioni sebbene non avesse previsto
l'incidente dei piccioni. A un certo punto la notte s'era accesa di luci rosse, verdi,
viola, d'oro, fontane di stelle, dalle gabbie nascoste dietro il tetto del palazzo
presidenziale centinaia e centinaia di piccioni erano stati lanciati in direzione
della piazza. Invece di volare armoniosamente, per, s'erano messi a sbatter le ali
come farfalle ubriache, e subito, terrorizzati dal frastuono, dai fuochi, dalle

bandiere, dalla imbecillità umana, avevano perso il controllo dell'intestino
lasciando cader sulla folla una pioggia di liquidi caldi escrementi. Poi Karamanlis
e Averoff se n'erano andati, entrambi pulendosi la giacca su cui i piccioni avevano
defecato secondo gli indiscriminati criteri di uguaglianza che solo gli animali
rispettano, sul ritmo dell'inno nazionale che echeggiava dagli altoparlanti gli
ottocentomila avevano sgombrato la piazza: sempre ordinati, disciplinati,
intruppati. Dietro front, avanti, march! Sulla piazza era rimasto un sudiciume di
volantini, fogliacci, scarpe perdute, bottiglie vuote, gusci di pistacchi che le
spazzatrici automatiche avevano con sveltezza raccolto, ed era successo qualcosa.
Era successo che, forse a caso, forse di proposito, uno dei tecnici addetti al
funzionamento degli altoparlanti aveva messo un disco di Teodorakis: la canzone
scritta da Teodorakis dopo la tua condanna a morte.
E al posto dell'inno nazionale s'era diffusa quella musica triste, le parole: Otàn
ktipissis di fores, k'istera tris ke pali di, Alexandrè mu... Quando busserai due
volte, e poi tre e poi due, Alessandro mio... Turbata ed incredula ero scesa giù a
vedere come reagisse la gente, ma nella piazza ormai deserta non c'erano che due
giovani, due figli del popolo, due agnelli del gregge, e uno diceva: Ti anìa! Pis ìne
afts Alexandrs? Che lagna! Chi è questo Alessandro? L'altro rispondeva alzando le
spalle: Den xero, non so.
Non avevo voluto neanche aspettare il risultato delle votazioni, anche in questo
caso me n'era mancato il coraggio. Però ero passata al tuo quartier generale la
notte dello scrutinio e m'era bastato a capire come si mettevano le cose. Tutti
avevano l'aria di chi non si fa illusioni, i telefoni squillavano solo per dare cattive
notizie, di ora in ora il partito di Karamanlis saliva in classifica e il tuo partito ne
scendeva. Quanto alle preferenze che tu avevi riportato, erano così scarse che le
agenzie di stampa davano già per certa la tua sconfitta. Cinque voti nella sezione
tale, dieci nella sezione tal'altra, quindici al massimo, e in molti casi nessuno.
Inutilmente, circondato dai giovanotti e dalle ragazze che per un mese e mezzo
avevano lavorato per te, facevi e rifacevi le somme con la speranza di raggiungere
il numero di voti necessario ad essere eletto. Inutilmente la vecchietta col
cappellino chiamava e richiamava per conoscer le cifre definitive, ripeteva le
somme, scopriva che avevi sbagliato di tre voti, no cinque, no sei: la sostanza
dell'amara realtà non cambiava e il tuo volto diventava sempre più risucchiato e
più bianco. All'alba, incapace di assistere fino in fondo a quell'agonia, me n'ero

andata e solo l'indomani mattina t'avevo rivisto. Dormivi, disfatto. Ma appena
t'avevo sfiorato i capelli t'eri svegliato, ed eri esploso in un pianto stizzoso: Il
popolo vota chi gli dice bugie! Il popolo vota chi lo prende in giro! Il popolo vota
chi spende miliardi per farsi votare coi fuochi d'artificio e i piccioni! Il popolo vuol
essere schiavo, gli piace essere schiavo, gli piace! Poi eri ricaduto nel sonno
disfatto ed io m'ero staccata da te per partire, evitare di trovarmi ad Atene il
momento in cui la tua sconfitta sarebbe divenuta ufficiale. Entro tre giorni avrei
dovuto andare in Giordania per intervistare re Hussein, e di questo m'ero servita:
mentendo t'avevo lasciato sul guanciale un biglietto in cui dicevo che l'incontro
con Hussein era stato anticipato quindi bisognava che mi recassi
immediatamente ad Amman. Poi ero venuta davvero ad Amman. Qui t'avevo
cercato un paio di volte ricevendo risposte vaghe, convincendomi che nel migliore
dei casi in Parlamento ci saresti entrato per il rotto della cuffia cioè col resto dei
voti trasferiti nella lista nazionale, e a un certo punto avevo addirittura smesso di
chiamarti: Chiamami tu appena sai qualcosa di preciso. Ecco perché ora
aspettavo come quando s'aspetta il verdetto di una giuria che deciderà il nostro
futuro o il risultato di un esame medico da cui dipenderà la nostra salute. E se il
partito non fosse riuscito nemmeno a farti eleggere per il rotto della cuffia? A cosa
sarebbe servito il sacrificio di entrare, ospite sgradito, nella politica dei politici?
Con quali altri mezzi avresti gettato il seme che ti premeva gettare sul fiume di
lana, tra gli immobili sassi della ghiaia che dorme ai piedi della montagna? Senza
contare che un seggio in Parlamento avrebbe potuto proteggerti un poco.
Oppure il contrario? Guardai l'orologio. Le undici, e l'incontro con Hussein era a
mezzogiorno. Mi avviai verso la porta. Il telefono squillò. Tornai indietro. La tua
voce festosa mi piovve dentro gli orecchi: Sono io! Sono me! Sono deputato! Sono
disonorevole! Cosa fu che spense così presto il sollievo? L'amarezza di sapere che
eri deputato coi voti avanzati agli altri, le briciole rimaste sulla tovaglia? La
consapevolezza delle nuove delusioni alle quali non avresti saputo resistere?
Oppure la leggenda che mi raccontò Hussein? Sua Maestà appariva più triste del
solito quella mattina e a un certo punto, parlando del suo fatalismo, mi chiese:
Conosce la leggenda di Samarcanda? Poi me la raccontò C'era una volta un uomo
che non voleva morire. Era un uomo di Isfahan. E una sera quest'uomo vide la
Morte che lo aspettava seduta sulla soglia di casa. Cosa vuoi da me? gridò
l'uomo. E la Morte: Sono venuta a... L'uomo non le lasci completare la frase, saltò

su un cavallo veloce e a briglia sciolta fuggì in direzione di Samarcanda. Galoppò
due giorni e tre notti, senza fermarsi mai, e all'alba del terzo giorno giunse a
Samarcanda. Qui, sicuro che la Morte avesse perso le sue tracce, scese da cavallo
e si mise in cerca di un alloggio. Ma quando entrò in camera trovò che la Morte lo
aspettava seduta sul letto. La Morte si alzò, gli andò incontro, gli disse: Sono
felice che tu sia arrivato e in tempo, temevo che ci perdessimo, che tu andassi da
un'altra parte o che tu arrivassi in ritardo. A Isfahan non mi lasciasti parlare. Ero
venuta a Isfahan per avvisarti che ti davo appuntamento all'alba del terzo giorno
nella camera di quest'albergo, qui a Samarcanda.
Vedrai quanto mi diverto io nella politica dei politici! Vedrai! E ora che posso
andare a caccia di quelle prove... Che prove?..I documenti dell'Esa, le prove sugli
uomini indegni! Mi ci vorrà tempo, ma ci riuscirò. L'importante è che non mi
mescoli a nessuno. Come oggi. Come oggi?!? Sì, come oggi.. E ti sembra giusto,
oggi, non mescolarsi a nessuno? Giustissimo.. Ad Atene si teneva una grande
manifestazione per commemorare il massacro del Politecnico, senza saperlo ero
tornata da Amman proprio in tempo per parteciparvi, e mentre ci dirigiamo al tuo
ufficio, per l'appunto vicino alla strada dove il corteo si sarebbe formato, eccoti
annunciare che non vuoi mescolarti a nessuno. Alekos, spiegami bene perché. Te
l'ho detto: per metter subito le cose in chiaro, per dimostrare subito che coi
bugiardi, con gli opportunisti, io non ci sto, che con le loro bandiere, i loro
cartelloni, io non ci cammino. Ci saranno tutti i partiti, e ogni partito ha arruolato
le sue comparse, e le butterà in quel corteo con un unico scopo: dare una prova
di forza, rivaleggiare in vanità. Guarda quanti ne ho io, ne ho più di te, ho anche
più bandiere più cartelloni. I partiti se ne fregano dei morti del Politecnico. I
partiti se ne fregano sempre dei morti. E quando penso che in questo gioco
sfileranno anche i servi che tacevano, che si cacavano addosso dalla paura, che
non volevano nemmeno udire la parola Resistenza, sai che ti dico? Preferirei
sfilare con Teofilojannacos.
Ci saranno anche quelli che la Resistenza l'hanno fatta, Alekos...Certo. Requisiti
dai partiti, usati dai partiti come garofani da mettere all'occhiello, sopraffatti dai
servi che tacevano e si cacavano addosso dalla paura. E sempre così. No, grazie:
ripeto che non ci sto. Con qualcuno dovrai pur stare, Alekos. Non vorrai sfilare da
solo o con me e basta. Non sfilerò ne da solo ne con te e basta. Sfilerò con quelli
che sono soli come me. Esistono. Sono pochi ma esistono. Li troverò. Dove?. Sui

marciapiedi. E alcuni ci sono già. I miei amici, guarda! Eravamo giunti al tuo
ufficio. Entrasti e, con un largo gesto della mano, indicasti il gruppetto che aveva
lavorato per te nella campagna elettorale. C'era la vecchia col cappellino e le lenti
da miope, c'era una nana d'un metro e quaranta con una borsa più grande di lei,
c'erano una decina di giovanotti, altrettante ragazze, e uno zoppo. I miei amici!
Faremo un isolotto che sta per conto suo. Non hai neanche una bandiera, un
cartello. Vuoi la bandiera? La vuoi colorata? Con una piroetta togliesti alla
vecchia col cappellino un bel foulard
rosso fiamma, scusami te lo ricompro, e poi con una biro ci scrivesti sopra
Elefter¡a ke Alit¡a. Libertà e Verità. Ecco fatto.
Ora c'è la bandiera, e colorata. Non manca che l'asta. Cercate un'asta! Qualche
chiodo! Un martello! Il martello c'era, i chiodi no, e nemmeno l'asta. Schiodate le
sedie, svitate le maniglie, rompete il tavolino! Alekos, che fai? La bandiera. I
cartelli. Non hai detto che ci vogliono anche i cartelli? Ma già loro stavano
schiodando, svitando, recuperando gambe di sedie e bullette, fabbricando cartelli,
operosi, veloci, e mezz'ora dopo eravamo per strada a far l'isolotto. In testa, la
vecchia col cappellino e la nana con la grande borsa: la vecchia alzando il suo
foulard scarabocchiato e imbullettato alla gamba di una sedia, la nana levando
un cartello illeggibile e ricavato da chissà che. In prima fila, io e te e lo zoppo e
due dei giovanotti, dietro gli altri. E ora che facciamo? Ora sfiliamo. Per conto
nostro. Cantando. Per conto nostro. Cantiamo che cosa? Avanti i morti, no?. Ci
muovemmo cantando. Avanti i mortiii! Portabandiere senza fine della lottaaa! E
dopo noiii! Ansiosi di innalzare gli stendardiii! Sembravamo un drappello di
straccioni. Ne v'era speranza di passare inosservati: per rimaner staccato dal
resto del corteo che ci precedeva e ci seguiva, smettevi di cantare e: Pente metra!
Cinque metri! Distanziatevi di cinque metri! E invano un tipo col bracciale,
incaricato di provvedere al servizio d'ordine, si avvicinava per pregarti di accorciar
le distanze, ripeterti che il resto del corteo era unito e bisognava che anche tu ti
adeguassi: gli rispondevi con tali ruggiti che il poveretto batteva subito la ritirata.
Pente metra! Cinque metri! Dai marciapiedi la gente guardava perplessa: ma chi
erano quei disgraziati che se ne andavano per conto loro guidati da una nana e
da una vecchia col cappellino? perché non stavano con gli altri? perché non
cantavano ciò che cantavano gli altri? perché non agitavano gli stessi cartelli, le
stesse bandiere, e portavano quei cenci grinzosi, quei cartelli illeggibili? E quello

che ordinava pente metra poi cacciava chiunque tentasse di unirlo al corteo, chi
era? A volte si udiva il tuo nome: E Panagulis, ti dico, non riconosci i baffi, la
pipa? sicché tu, compiaciuto, rispondevi con larghi gesti benedicenti, da pastore
di anime: Venite, venite! Marciavamo così, facendo di ogni fila un cordone,
quando ti sentii percorso da un brivido secco e piegasti la testa a indicarmi due
giovanotti, uno quasi biondo e uno bruno, che stavano fermi a un incrocio. Ben
vestiti, entrambi, e composti in una specie di severa ostilità. Li vedi? Li vedo, chi
sono? Due ex guardie dell'Esa. Due di quelli che mi bastonavano. Poi ti sciogliesti
dal cordone, alzasti le braccia: Alt! Tra urti e spinte, la seconda fila che cozzava
contro la prima, la terza che cozzava contro la seconda, la quarta che cozzava
contro la terza, il drappello si fermò bloccando l'intero corteo; soltanto la
vecchietta col cappellino e la nana con la grande borsa continuarono di qualche
passo ma presto s'accorsero di non esser seguite e tornarono indietro, sorprese e
confuse. Del resto apparivano tutti sorpresi e confusi, nessuno aveva compreso il
motivo per cui era esploso il tuo alt, e dall'ultima fila giungevano domande,
proteste: Chi ha detto di fermarsi? Avanti, muovetevi! Avanti, emprs! Ti toccai un
gomito: Alekos, andiamo. Non rispondesti. Stiamo bloccando tutto, Alekos.. Non
rispondesti di nuovo. Ma che cosa vuoi fare? Ancora silenzio. Isolato in un
dilemma che, me lo avresti confessato più tardi, era come reagisco, li picchio o li
uso, li tratto da nemici o da amici, un'incertezza che al solito si sarebbe risolta in
modo imprevisto, con l'irrazionalità del giocatore che calcola, pensa, poi smette di
calcolare, pensare, e agisce sull'impulso, rouge ou noir le jeu est fai
triennevaplus, fissavi i due proprio come si fissa il tavolo della roulette prima di
puntare a casaccio sul rosso e sul nero, sul pari o sul dispari, su un numero o un
altro, tanto l'uno o l'altro è lo stesso, ci che conta è agire, rischiare, sfidare la
sorte: non tenersi neutrali. Ed ecco, la decisione era presa, l'impulso era scattato,
ti staccavi dall'isolotto col tuo passo greve, lento, la tua strafottenza flemmatica,
quasi che la strada ti appartenesse e nessuno avesse il diritto di protestare contro
tale proprietà, raggiungevi i due che ti fissavano cinerei in volto, impauriti, e
portando la pipa alla bocca accennavi un sorriso, togliendola di bocca e levandola
verso il corteo gli indicavi il tuo gruppo. Venite. Vi aspetto. Poi, voltate le spalle,
col passo di prima, la strafottenza di prima, tornasti indietro ad aspettare che la
pallina finisse di girare dentro la scodella per fermarsi incastrata sul rosso o sul
nero, sul pari o sul dispari. Rouge ou noir, le jeu est fait, rien ne va plus.

Quanto durasse l'attesa non saprei dirlo. Mesi dopo, parlandone, avresti
sostenuto che era durata pochissimo, che l'intera scena si era svolta in un paio di
minuti al massimo tre.
Però a me e a coloro che avevano capito parve un tempo insopportabile, ore,
prima che la pallina si fermasse, e i due scendessero dal marciapiede, venissero
da te che li accoglievi a mani tese, ignorando i reclami del tipo col bracciale,
adirato ora e molto impaziente, muovetevi insomma ci muoviamo oppure no. Li
prendesti a braccetto. Ci facesti spostare e li prendesti a braccetto: uno alla tua
destra e uno alla tua sinistra.
Tenendoli uno alla tua destra e uno alla tua sinistra ricomponesti il cordone,
riprendesti il cammino, e che occhiataccia quando ti accorgesti della mia
esitazione. Sarebbe bastata quell'occhiataccia per rendersi conto che il tuo non
era stato un gesto di perdono o di misericordia bensì un gesto d'orgoglio anzi di
disprezzo. Ma non disprezzo per le due guardie dell'Esa, disprezzo per le ipocrite
leggi della comunità, per i politici che sul massacro del Politecnico ora frignavano
pianti molto redditizi, per la gente che ora partecipava al corteo ma che durante
la tirannia aveva taciuto o collaborato, insomma per le bandiere
dell'opportunismo o i cartelli della convenienza cui avevi rifiutato di mischiarti; e
pazienza se nessuno l'avrebbe compreso, nemmeno intuito. Infatti non lo
compresero, ne lo intuirono, e subito si sparse la voce che Panagulis aveva
perdonato due dei suoi più feroci torturatori, che con loro procedeva a braccetto
per le vie della città, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra come i ladroni
crocifissi alla destra e alla sinistra di Gesù Cristo, sissignori Gesù Cristo, e non
era una favola, chiunque poteva vederli, avanzavano lungo via Stadiu guidando il
gruppetto che se ne andava per conto proprio. E la voce svegliò coloro che
assistevano con distacco a quel corteo ben organizzato, troppo ben organizzato
per apparire sincero, coloro che non vi assistevano perché non gliene importava o
perché se ne sentivano esclusi, gli uni e gli altri si assieparono per veder Gesù
Cristo che avanzava tra i ladroni, e quando Gesù Cristo appariva, coi suoi baffi e
la sua pipa e la sua strafottenza, applaudivano convinti, commossi, qualcuno
gridava il tuo nome, qualcuno rispondeva al tuo invito venite venite. Per, a poco a
poco, accadde ciò che non avevi previsto: il gioco cessò d'essere un gioco e, sulla
scia di un'illusione l'orgoglio si trasformò in umiltà, il disprezzo in gratitudine
anzi amore verso chi da quei marciapiedi applaudiva senza aver capito nulla. Gli

indipendenti, concludesti, che stanno fuori dei cortei non per menefreghismo o
qualunquismo ma per protesta, rifiuto d'aggregarsi al fiume di lana.
I ribelli, ti convincesti, che alla liturgia delle cerimonie commemorative si
oppongono non per aridità o indifferenza ma perché cercano qualcos'altro,
qualcosa. Chissà che cosa ma qualcosa. Forse se stessi, la loro individualità
calpestata, la loro unicità offesa dalle masse, dal concetto di uomo massa.
Ed entrasti a capofitto nel ruolo che credevi ti attribuissero.
Cambiasti espressione, sguardo, andatura, cominciasti a dir grazie a chi si
aggregava, con gli occhi lucidi spesso, e allora sì che si aggregarono. Uomini e
donne, moltissime donne coi bambini per mano o a cavalcioni sulle spalle; giovani
e vecchi, moltissimi vecchi incoraggiati dalla vecchietta col cappello suppongo; e
ragazzi, richiamati dalla nana con la grande borsa suppongo; e zoppi, attratti
dallo zoppo in prima fila suppongo.
Dopo un centinaio di metri ne contai cinque di zoppi, tre col bastone e due senza,
e il vertice di questo fu un giovane grasso e sciancato, un poliomielitico che non
osando entrare nell'isolotto, vasto ora come un'isola, ci seguiva a fianco,
aggrappato a due enormi stampelle di alluminio. Come facesse a seguirci senza
restare indietro, è un mistero. Però ci riusciva, arrancando, ansimando,
trascinando le sue povere gambe disciolte, il suo povero corpo contorto, sicché a
un certo punto fermasti di nuovo il corteo, gli andasti incontro per baciarlo e
portarlo dentro, sistemarlo al centro della prima fila che si rimise in marcia sul
ritmo del suo passo vacillante, malfermo. E dopo questo non ci fu bisogno che tu
dicessi venite venite: venne tanta gente che in piazza Sintagma eravamo quasi un
migliaio.
Da trenta eravamo diventati quasi un migliaio.
Debuttasti così nella politica dei politici. Incominciasti così la serie dei tuoi poetici
tragici errori nella politica dei politici. perché su quell'esercito sgangherato e
improvvisato, incapace di lotta, venuto a te sull'equivoco di altri schemi, gli
schemi del perdono, della misericordia, dell'amore cristiano, insomma Gesù
Cristo, in cerca di qualcosa, forse, ma senza saperlo, maturasti l'illusione di non
esser più solo. E su tale illusione, purtroppo, ti lanciasti contro i mulini a vento
del drago che t'eri scelto.
CAPITOLO II

Il drago, nelle fiabe, ha un aspetto terribile. Quello di un serpente alato con molte
teste e lingue biforcute, di solito, oppure quello d'una gigantesca lucertola con
pupille di fuoco e artigli d'acciaio. Si nutre di vergini e di giovanetti, espelle fumo
dalle narici, divora chiunque si avvicini al ponte che protegge il suo reame; il
paesaggio intorno a lui è cosparso di teschi, ossa spolpate, membra straziate. Gli
avanzi di coloro che tentarono di abbatterlo senza riuscirci. Nella vita la sua
essenza non cambia ma il suo aspetto è diverso. A volte non lo si può neanche
definire perché simboleggia una realtà astratta, una situazione che esiste ma non
si vede. A volte, non lo si può neanche riconoscere perché si presenta come una
persona, cioè con un corpo normale, un tronco con due braccia e due gambe, una
testa con un naso e una bocca e due occhi.
Magari due occhi tondi, da ipnotizzatore, per così scivolosi da sembrare olive
immerse nell'olio, e mani morbide, disossate, e voce carezzevole, suasiva: Cara
amica carissima! Che piacere incontrarla, che onore! Insomma Evanghelis
Tossitsas Averoff non aveva nulla che esteriormente lo facesse identificare con un
drago e, malgrado il disagio che avevo avvertito incontrandolo, la stessa scoperta
che fosse lui il nuovo masso in cima alla montagna, non lo avrei mai dipinto su
un paesaggio di teschi e ossa spolpate e membra straziate. Del resto anche il suo
modo di vivere aveva le stigmate dell'inoffensività. Devoto a santa Reparata,
patrona del suo villaggio, ogni domenica si batteva il petto dinanzi alle icone per
farsi perdonare i peccati; amico di vescovi e di arcivescovi, credeva nel paradiso e
nell'inferno; padre amoroso, marito rispettoso, celebrava il culto della famiglia e
indossava l'abito della più assoluta moralità; abbastanza colto e grafomane,
pubblivcavòa libri di cui non si accorgeva nessuno e comunque non facevano
male a nessuno; ricchissimo, proprietario d'un feudo presso Giannina nell'Epiro
del nord, si sforzava in molti modi di smentire l'evangelico proverbio secondo cui
è più facile che un cammello passi dalla cruna d'un ago che un ricco approdi al
regno dei Cieli. Voglio dire, non indulgeva nemmeno in accidiose pigrizie, era
pieno di iniziative e operosità. Nella fattoria del suo feudo, ad esempio, la fattoria
di Mezzonovo, aveva importato addirittura le migliori vacche del CanadA e col
latte di queste produceva un eccellente parmigiano che chiamava mezzovano, un
eccellente gorgonzola che chiamava mezzovola, una eccellente ricotta che
chiamava mezzotta. Produceva anche un vino non perfido, il bianco Averoff e il
rosso Averoff, e di tutto ci andava così fiero che sarebbe stato difficile non

credergli quando affermava che la politica era per lui un nobile passatempo, un
modo per servire la bandiera del liberalismo. Diceva molto spesso le parole
libertà, liberalismo e, altrettanto spesso, esprimeva la sua sdegnosa condanna
delle dittature. Infatti si professava un vero antifascista fin dai tempi
dell'occupazione italiana e tedesca.
Eppure era un drago. Forse il drago migliore che a quel tempo e in quella
situazione il tuo paese potesse offrire a un eroe in cerca dell'ultima sfida perché,
con tutta la sua apparente inoffensività, il suo mezzovano e il suo mezzovola e la
sua mezzotta, la sua facciata liberale e il suo dichiarato antifascismo, a quel
tempo e in quella situazione egli rappresentava quanto nessun altro il Potere.
L'irredimibile, inestinguibile, indistruttibile Potere che anche nelle sue forme più
mimetizzate, nelle sue vesti più giustificate, ora in nome della patria e ora della
collettività, ora in nome della legge e ora della civiltà, ora in nome dell'ordine e ora
della giustizia, ora in nome della democrazia e ora della rivoluzione ci comanda, ci
amministra, ci imbroglia, ci ricatta, ci rincretinisce, ci fotte.
Padrone dimmi cosa devo fare, compagno dimmi cosa devo pensare. O addirittura
ci divora come il serpente alato delle fiabe, la gigantesca lucertola che sta a
guardia del ponte. Ne vale ucciderlo con la lancia di don Chisciotte perché rinasce
sempre dal suo cadavere, magari con un volto diverso, un
colore diverso, un linguaggio diverso per volere del Popolo anziché per volere di
Dio. E sempre stato così, sarà sempre così. Però guai se non lo combatti, se non
lo denunci, se non lo sbugiardi: il suo reame si allarga, il paesaggio intorno a lui
si riempie più che mai di teschi, ossa spolpate, membra straziate. Infatti è anche
avido, non si accontenta mai di quello che ha, si approfitta di ogni armistizio, ogni
rassegnazione. E coloro che via via lo servono o lo rappresentano, insomma lo
materializzano, i massi in cima alla montagna, hanno identiche caratteristiche di
avidità e risuscitabilità. Il caso, appunto, del drago che t'eri scelto: giunto al
comando per diritto atavico, patrimonio e cognome, divenuto per la prima volta
ministro dopo la Seconda guerra mondiale grazie alla sua fede monarchica, nei
trent'anni successivi politicamente morto e rinato mille volte, in sostanza mai
morto e ben vivo anche quando sembrava sepolto. Particolare dimostrato dal fatto
che neanche il golpe di Papadopulos lo aveva estromesso, neanche l'arresto dopo
la mancata rivolta della Marina lo aveva neutralizzato. Quanto all'incarico che
ricopriva nel governo legittimato dalla prova elettorale, inutile aggiungerlo, era

rimasto quello del ministero della Difesa. Sì, bisognava che d'ora innanzi tu
concentrassi su di lui tutte le tue energie. E lo avresti fatto, dicesti con decisione.
E gli altri, Alekos?. Quali altri? I sultani della demagogia, gli ideologi del
dispotismo, i rivoluzionari del cazzo. Degli altri mi occuperò dopo, se sarò vivo. E
se non sarò vivo, pazienza: qualcuno se ne occuperà al posto mio. Un uomo non
può combattere due battaglie nel medesimo tempo e su opposti fronti.
Specialmente se è solo. Deve combattere di volta in volta il nemico urgente, il
nemico immediato, a seconda del periodo e del paese in cui agisce. Se fossi
nell'Unione Sovietica o in Polonia o in Cecoslovacchia o in Ungheria o in Albania o
in Cina, il mio nemico sarebbe il potere che in nome d'una dottrina uccide la
libertà e chiude la gente nei gulag o negli ospedali psichiatrici. Combatterei i loro
abusi e le loro menzogne. Ma sono in Grecia. E ieri, in Grecia, il mio nemico si
chiamava Papadopulos, si chiamava Joannidis, domani si chiamerà Papandreu o
dio sa come, ma oggi si chiama Averoff. Si chiama destra. La destra arrogante e
viscida che indossa le mutande con la parola Libertà e si serve della democrazia
per tenerci in pugno. Se non concentrassi la mia lotta su di lei, su di lui, che
senso avrebbe aver ceduto al ricatto della scheda, aver accettato l'etichetta di un
partito nel quale non credo? A che servirebbe essere entrato in Parlamento? E poi
non c'è tempo da perdere. perché il prossimo colpo di stato sarà favorito proprio
da Averoff, il cui sogno è diventare il padrone della Grecia e riportare in patria il
suo re.
Che l'8 dicembre si fosse svolto il referendum repubblica o monarchia e che la
repubblica avesse vinto in modo definitivo e clamoroso era un particolare di cui
non sembravi tenere alcun conto. E ancora meno sembravi curarti del fatto che
Joannidis fosse stato finalmente arrestato e rinchiuso nel carcere di Koridallos
insieme a Papadopulos, Pattakos, Makarezos, Ladàs, i membri della Giunta: le
due cose avevano scarsa importanza, dicevi, un referendum si annulla, le porte di
un carcere si spalancano. L'unico punto che ti preoccupasse era combattere il
drago restando fedele a te stesso, senza cadere nelle pose protestatarie dei
papandreisti o nelle astrazioni chiesastiche dei comunisti, cioè senza lasciarti
contagiare dal conformismo dell'anticonformismo ufficiale. E così, mentre gli altri
deputati della sinistra si riempivano la bocca di sacre parole o di retoriche
banalità, incominciasti a tormentare Averoff con accuse precise: perché il signor
ministro non restituisce all'esercito gli ufficiali democratici che la Giunta cacciò?

Disturba il signor ministro che l'esercito sia composto anche di uomini onesti?
perché il signor ministro lascia che i seguaci di Joannidis comandino reggimenti e
divisioni che in qualunque momento potrebbero marciare su Atene e annullar di
nuovo questo Parlamento? Piace al signor ministro l'idea di un golpe che possa
essere utilizzato da chi sventola la bandiera del liberalismo? Risulta al signor
ministro che dal carcere di Koridallos il brigadiere Joannidis continuò a disporre
a suo piacimento dei suoi gheddafisti cioè degli ufficiali in grado di fare quel
golpe? Le chiamavi domande anzi superdomande.
T'eri coniato perfino un soprannome per questo, domandiere anzi
superdomandiere, e ora le tue telefonate incominciavano così: Sono io! Sono me!
Il domandiere superdomandiere! Indovina cosa ho fatto oggi? Una domanda ad
Averoff. No, una superdomanda! E lui? Mi ha dato una sotto risposta. Non gli
concedevi mai un po di tregua. Lo perseguitavi come una vespa che più viene
ignorata o cacciata più ti ronza attorno, petulante, invadente, decisa a bucarti col
suo pungiglione.
Neanche fosse, invece di un drago, il tuo nuovo Zakarakis. La tua nuova
monomania. Infatti, e memore della battuta vedrai quanto mi diverto io nella
politica dei politici, all'inizio pensavo che tu giocassi un po. Però quando venni in
Parlamento e ti vidi al lavoro, dovetti convincermi che non giocavi per niente e
semmai era lui a divertirsi con te. Bastava che tu gli rivolgessi la parola perché il
tuo volto si facesse contratto e la tua voce roca; il suo volto invece restava sereno,
e la sua voce soave. Che il giovane e valoroso collega avesse pazienza, indulgenza,
la situazione era delicata, difficile, il motivo per cui gli ufficiali di riserva non
erano stati richiamati in servizio non si poteva rivelare, neanche quello per cui i
seguaci di Joannidis non erano stati cacciati; si poteva dire soltanto che a poco a
poco le cose si sarebbero aggiustate per la soddisfazione di tutti. E grazie, giovane
e valoroso collega, grazie dal profondo del cuore per aver posto alla coscienza del
Parlamento un così grave problema. Sul golpe che continuavi ad annunciare,
neanche una sillaba.
Infine la domanda su Giorgio. La morte di Giorgio non aveva mai cessato d'essere
un'ossessione per te, avresti dato un anno della tua vita per sapere chi aveva
indotto gli israeliani a catturarlo poi consegnarlo alla Giunta, insomma per
recuperare il fascicolo che Teofilojannacos t'aveva sventolato in faccia durante
l'interrogatorio. Eccolo il fascicolo di tuo fratello Giorgio, eccolo! Ti piacerebbe

leggere cosa c'è scritto, eh?Avresti dato altrettanto per vedergli restituire post
mortem il grado di tenente che in seguito alla diserzione gli avevano tolto,
stabilire il principio che disertare l'esercito di un paese oppresso dalla dittatura
militare non è un reato bensì un dovere. Su questo argomento ti rivolgesti
dunque ad Averoff con voce più roca del solito, volto più contratto del solito, e
stavolta non fu neanche una domanda ma un ordine: che il signor ministro
rintracciasse ed esibisse il fascicolo sul tenente Giorgio Panagulis la cui vita era
stata merce di scambio tra Papadopulos e il governo israeliano; che il signor
ministro restituisse al tenente Giorgio Panagulis i gradi e gli onori negatigli dalla
Giunta; che il signor ministro ne lavasse la memoria insultata.
Averoff chiese tempo per cercare il fascicolo, poi rispose che non si trovava o
meglio che non esisteva, però anche se lo avesse trovato non lo avrebbe esibito
perché i documenti segreti vanno protetti. E perdesti il controllo. Levando l'indice
gli urlasti che tuo fratello s'era reso disertore per non servire la Giunta, che
altrettanto non poteva dirsi di coloro che oggi stavano al governo col compito di
proteggere i criminali e nascondere le colpe degli antichi amici, che in regime di
vera democrazia i documenti non devono essere segreti, che un giorno tu li
avresti trovati per sputtanare lui e il suo governo.
Anzi avresti trovato qualcosa di più, qualcosa che lo riguardava assai da vicino, e
sarebbe stato un bel Watergate. Fu così spietata, la tua replica, così minacciosa,
che egli se ne allarmò seriamente e l'indomani, incontrandoti fuori dell'aula, ti
venne incontro a braccia tese: Caro amico, carissimo, tra noi c'è
un'incomprensione da superare, perché non viene a cena da me e ne parliamo da
persone civili? Anche mia moglie gradirebbe conoscerla, caro amico, anche mia
figlia che è una sua ammiratrice! Ma tu, fingendo di non vedere quelle braccia
tese, e tenendo una mano in tasca, con l'altra reggendo la pipa, gli puntasti
contro il bocchino: Ascoltami bene, Averoff.
Quando c'è un Parlamento, i mali del paese si discutono in Parlamento: non a
cena tra un arrosto e un dessert. Qualche giorno più tardi, era il 24 febbraio, gli
ufficiali che Averoff non aveva epurato tentarono davvero il golpe di cui parlavi.
Un progetto di golpe, neanche un tentato golpe, sostenevano in molti. L'esercito
non vi aveva aderito che in parte, la Marina e l'Aviazione non vi avevano aderito
per niente, e infatti non era stato difficile stroncarlo sul nascere arrestando
trentasette ufficiali. Per quando una settimana dopo venni ad Atene ne eri ancora

sconvolto e senza un sorriso mi porgesti dieci foglietti scritti a mano: Leggi. Cosa
sono?. .Appunti per un articolo che voglio pubblicare in Italia. perché in Italia e
non in Grecia? .perché in Grecia non me lo pubblicherebbe nessuno.. Li lessi. Ed
ecco ci che dicevano. Uno. Sembra troppo diabolico per essere vero, eppure è vero
nella misura in cui è diabolico. Il tentato golpe del 24 febbraio scorso non fu
affatto un tentato golpe ma un golpe che lungi dal fallire
riuscì: nella misura e fino al punto che il ministro della Difesa Averoff desiderava
per attuare il suo piano. E il piano di Averoff era, anzi rimane, riportare in patria
il suo re e diventare il padrone della Grecia come piacerebbe alla Cia. (Spiegare
che Averoff ha alle spalle la Cia, che l'ha sempre avuta, che sotto la Giunta
lavorava per il Kyp quindi per la Cia.) Due. Averoff era molto al corrente di ciò che
stava per accadere la notte del 24 febbraio. Lo avevano ben informato che gli
ufficiali di Joannidis, i cosiddetti gheddafisti, stavano per prendere in mano il
paese e che ad Atene il sessanta per cento dell'esercito era con loro. (Spiegare che
i servizi segreti sono ormai nelle mani di Averoff che in quanto ministro della
Difesa controlla sia l'Esa che il Kyp.) Tre. Pochi giorni prima del golpe Averoff
aveva addirittura permesso che uno dei golpisti, un generale di fanteria presso il
Pentagono greco, si recasse nel carcere di Koridallos per rendere a Joannidis una
"visita di cortesia" . (Spiegare che le sole visite permesse sono quelle dei familiari
e degli avvocati.) Quattro. Il fatto è che Averoff voleva quel golpe. Era il primo
passo verso il suo obiettivo. Gli serviva per cacciare dall'esercito una quarantina
di ufficiali che avevano capito i suoi progetti e non erano disposti ad
assecondarlo. (Spiegare che con questa manovra golpistica è riuscito a cacciarne
trentasette.) Cinque. C'è da chiedersi se Karamanlis abbia completamente capito
che Averoff mira a un regime dittatoriale vestito di un abito parlamentare cioè
camuffato da un Parlamento che serva solo a far chiacchierare e non guidare la
politica del paese. (Spiegare che, trattando coi golpisti e maneggiandoli a suo
piacimento, Averoff promise di dare al loro gheddafismo una forma civile, europea
eccetera.) Sei. Anche se lo ha capito, Karamanlis non può fare molto. Egli non è
forte come vuol far credere quando racconta che non esiste ufficio del suo
governo nel quale non possa entrare ogni volta che gli garba. Tale ufficio esiste: si
chiama ministero della Difesa. (Spiegare che Karamanlis non può cacciare Averoff
perché Averoff comanda l'esercito e chi comanda l'esercito in Grecia comanda
anche il primo ministro. Spiegare che tra i due esiste una lotta sorda, segreta,

durissima.) Sette. A cosa alludeva Karamanlis quando, rispondendo alle
interrogazioni sul golpe, disse che oltre al pericolo del fascismo esistevano altri
pericoli e che la sua vita era più in pericolo della vita di chiunque? (Spiegare che
il golpe si è chiuso con un compromesso: quello tra Karamanlis e Averoff.) Otto.
Con un'unica mossa dunque, Averoff è riuscito a giocare tutti: da Karamanlis a
Joannidis. Ora i gheddafisti hanno capito bene che un colpo di stato non pu
avvenire senza un uomo politico dietro, che ristabilire una Giunta non è possibile
se non c'è un uomo politico dietro. Un uomo con le capacità politiche e
intellettuali di Averoff, non un soldataccio rozzo come Joannidis. Ma perché i
gheddafisti realizzassero questo, Averoff aveva bisogno di sottrarli a Joannidis.
(Spiegare che per questo Averoff non ci teneva ad arrestare Joannidis e lo pregava
di fuggire all'estero affermando che avrebbe provveduto lui all'espatrio
clandestino e alle spese per vivere lontano dalla Grecia. Spiegare che Joannidis
non accettò le proposte di Averoff in parte per orgoglio e in parte perché
conosceva la sua forza nell'esercito.) e Averoff non è un. cavallo che corre per
arrivare a facili traguardi e prima degli altri. La facciata del potere non gli
interessa, e sa avere pazienza. Il futuro dittatore della Grecia si chiama Averoff.
(Esigere il titolo su Averoff uguale futuro dittatore della Grecia.) Ti restituii gli
appunti, perplessa. Sei certo di volerne fare un articolo?Certissimo. E tu mi
aiuterai. Ti rendi conto che ti chiederanno le prove di quanto affermi? Le ho.
Tutte? Me ne manca una sola: quella che sotto la Giunta egli lavorasse per il Kyp.
Ma prima o poi la troverò. So dov'è. dov'è?. Negli archivi dell'Esa. Bene. Al lavoro.
Ci mettemmo al lavoro e la settimana seguente l'articolo apparve, col titolo che
desideravi. Ma qualcuno non lo gradì. E i misteriosi visitatori che avevano fatto
una croce sulle date 17 novembre 1968 17 novembre 1974 stavolta te lo dissero
con un messaggio ancora più cupo sulla porta del tuo nuovo ufficio in via
Kolokotroni.
L'avevi preso a Natale, il nuovo ufficio, per disporre d'una sede comoda e adatta ai
tuoi impegni, cioè per abitare in città.
T'era piaciuto anzitutto per la strada, molto vicina al Parlamento, e per l'edificio
logoro e dimesso ma pieno di grazia. Sai la grazia malinconica delle case fin de
siècle coi muri scrostati, i balconi di ferro, i vasi di geranio sui davanzali. L'atrio
non era bello perché confinava con un negozio di macchine tessili attraverso una
parete a vetri (particolare importante, vedrai, nella storia della tua morte) e

perché un portiere ostile e bavoso ci sonnecchiava sempre su una seggiolina di
paglia, per l'incanto riprendeva appena giungevamo all'ascensore.
Un vecchio ascensore che salendo scricchiolava e gemeva paurosamente, spesso
si bloccava tra un pianerottolo e l'altro, e se arrivava dritto al terzo piano
bisognava cantar vittoria. Al terzo piano non c'era che quell'appartamento
(particolare importante, anche questo, nella storia della tua morte) ed esso si
componeva di cinque stanze coi servizi, sistemate sui due lati di un corridoio. Le
prime tre stanze le avevi adibite ad uffici e sale d'aspetto per la gente che veniva a
trovarti, nella quarta avevi messo il tuo sacrario, il tuo studio; l'ultima, che stava
di fronte al bagno e alla cucina, l'avevi scelta per farci una camera soggiorno
uguale a quella della casa nel bosco. Infatti l'avevamo arredata come la casa nel
bosco, comprando in Italia i mobili, e in quei giorni ero venuta appunto per
aiutarti a sistemare nell'identico modo le suppellettili, i tappeti, i quadri, le tende,
i lampadari. Nella camera soggiorno il gran letto a divano, la libreria ottocentesca,
il trumeau del Settecento, il tavolino rotondo, la poltrona liberty e l'arazzo
francese; nello studio il tavolo lungo e massiccio, in stile fiorentino, il seggiolone
cardinalizio, le sedie comode per i visitatori graditi e scomode pei visitatori
sgraditi, lo stipo coi cassetti segreti per nasconderci i documenti che un giorno
avresti trovato per sputtanare Averoff. Alle pareti un campionario della tua
indipendenza politica: una riproduzione del quadro di Pelizza da Volpedo cioè i
contadini del Quarto Stato, una copia della prima pagina della Costituzione
Americana, una lastra di bronzo con la riproduzione della lapide scritta da Piero
Calamandrei sulla strage di Marzabotto, Ora e sempre Resistenza, un papiro coi
primi versi della Divina Commedia, e un ritratto di Sun Yatzen. Avevamo lavorato
fino a buio per mettere a posto così, poi eravamo andati a cena da Tsaropulos, ed
ora rientravamo a casa abbracciati, ridendo perché l'ascensore non s'era fermato
tra piano e piano: Ce l'ha fatta, ce l'ha fatta! Sempre ridendo uscimmo sul
pianerottolo, accendemmo la lampada a luce intermittente, ci avvicinammo alla
porta. E fu allora che lo vedemmo: un teschio, stavolta. Un grande teschio nero,
disegnato su una carta avana e fissato col nastro adesivo sotto il tuo nome.
Ricordo bene i tuoi movimenti. Prima irrigidisti il braccio intorno alle mie spalle e
per qualche secondo rimanesti impietrito a fissarlo. Poi, con esasperata lentezza,
ti allontanasti da me e strappasti via il nastro adesivo, staccasti il foglio, lo
ficcasti nella tasca della giacca. Poi infilasti le chiavi nella serratura e in punta di

piedi, gli orecchi tesi ad ogni fruscio, entrasti a ispezionare le stanze, accertarti
che nessuno vi si nascondesse. Infine tornasti indietro a barricare la porta e,
sordo alle mie proteste, ora basta, ora riposa, ti abbandonasti a un interminabile
monologo composto di calcoli, timori, ragionamenti. Uhm! Strana faccenda,
vediamo. Siamo usciti alle dieci e alle dieci il portone d'ingresso è chiuso. Quindi
è stato qualcuno che s'è introdotto in anticipo ed ha atteso che uscissimo.
Oppure qualcuno che ha le chiavi del portone. In entrambi i casi qualcuno che fa
sul serio. Uhm! Devo cambiare la serratura. Devo anche evitare di farmi
sorprendere solo, specialmente col buio. Domani sera dovremo trovare tre o
quattro persone che vengano a cena con noi. E necessario che abbia sempre
testimoni al mio fianco. E non uno soltanto: almeno tre o quattro. Testimoni di
che? D'un incidente, una provocazione. Supponiamo che un ubriaco o un falso
ubriaco mi aggredisca mentre cammino in una strada deserta o che qualcuno
tenti di investirmi con l'automobile, buttarmi giù da un ponte o una scarpata. Se
non ho testimoni, chi dimostra che sono stato provocato o aggredito? Possono
dire che fu una disgrazia. E se ho un testimone solo, tu ad esempio, e quel
testimone muore con me? Bisogna anche che rincasi tardi la sera. Mai rientrare
fra mezzanotte e le due, sono le ore più pericolose. Dopo le due del mattino si
stancano, pensano che non rincaserai, e se ne vanno. Uhm! Uscendo lasciare
sempre le lampade accese, perché credano che in casa c'è qualcuno.
E occhio alle scale. Le scale sono il punto peggiore. Incustodite, e con la dannata
luce intermittente... Io ti ascoltavo incredula: neanche al tempo della casa nel
bosco avevi mai reagito a quel modo, cioè pianificando con tale minuzia le
precauzioni da prendere, considerando tutte le probabili vie di un attacco. Che
all'improvviso il pericolo non ti seducesse più, non fosse più la tua pioggia
ristoratrice, la linfa vitale senza la quale appassivi? Che si trattasse d'una crisi
passeggera? Si, doveva trattarsi d'una crisi passeggera, conclusi. Ma l'indomani
prendesti davvero le precauzioni che avevi elencato, per non derogarvi più fino a
pochi giorni prima d'essere ucciso.
La cosa più stupefacente era la cautela con cui rientravi dopocena. Infatti, se
nessun "testimone" ti accompagnava, non entravi subito in casa: ti fermavi sul
marciapiede di fronte, scrutavi per un paio di minuti e, soltanto dopo esserti
rassicurato di non rischiare agguati, attraversavi svelto la strada e aprivi svelto il
portone per richiuderlo svelto alle spalle. Nell'atrio procedevi in punta di piedi,

fulminandomi con occhiatacce se coi tacchi causavo il minimo scalpiccìo, quasi
che nel buio si celassero orde di assalitori, e ci durava fino all'angolo dov'era il
bottone della luce intermittente che accendevi esalando un impercettibile respiro
di sollievo. Per guai se, dietro l'angolo, non trovavi il vecchio ascensore. Dimentico
di quel sollievo aggrottavi la fronte, imprecavi, ti mettevi a brontolare ecco sono
saliti mi aspettano su e, per accertartene, lo chiamavi cronometrando
sull'orologio il tempo della discesa.
Conoscevi esattamente quanto impiegava dal terzo piano a terreno, cinquantotto
secondi, e se per caso cronometravi proprio cinquantotto secondi impallidivi,
portavi l'indice alle labbra, mi imponevi silenzio assoluto. Sst! Sst! Col fiato
sospeso ci insinuavamo quindi nella cabina, salivamo, ne uscivamo cauti, più che
mai attenti a non far rumori, e con quale circospezione introducevi la chiave nella
toppa, schiudevi il battente, sibilavi nuovamente quell'impercettibile Sst! Sst!. Poi,
di colpo, la scena cambiava. Con l'impeto di un gatto inferocito ti lanciavi nella
prima stanza, nella seconda, nella terza, nella quarta, spalancando gli usci,
guardando dietro le scrivanie, e ispezionavi il bagno, la cucina, i ripostigli: così
fino alla camera, sempre chiusa a doppia mandata. Tuttavia neanche in camera
quell'impeto si calmava perché lì ti chinavi a cercare intrusi sotto il letto, ti
mettevi a rovistare nei cassetti, tra i libri, tra i fogli lasciati in un punto preciso
per poter poi controllare se erano stati spostati. E ogni volta ti seguivo scettica e
rassegnata, invano dicendo vedi non c'è nessuno, non c'è stato nessuno, o
chiedendomi se la tua non fosse una psicosi, una mania di persecuzione. Avevi
anche ripreso a usare il trucco del capello: si lascia un capello qui, un capello là,
e se non si ritrova vuol dire che qualcuno è entrato, ha frugato. Una notte il
capello appiccicato alla maniglia della porta di camera mancò e per ore
continuasti a cercarlo: Un capello è una prova. Se non c'è più significa che
qualcuno è entrato, ha frugato. Ma chi, Alekos, chi? Lo so io chi. La domanda sui
possibili intrusi rimaneva sempre senza risposta. E presto la cosa perse
importanza per me: altri interrogativi stavano prendendo il posto di quella.
Dopo il teschio, infatti, eri in ogni senso cambiato: la realtà ti feriva anche nei
suoi aspetti più scontati, più ovvi. sicché vi reagivi in modo quasi isterico,
arrabbiandoti più del necessario, soffrendo più del necessario, e cedendo a
impennate che mi lasciavano smarrita. L'impennata con cui interrompesti quel
viaggio a Mosca, ad esempio.

Pronto sono io, sono me, vado a Mosca. A Mosca? Sì, mi hanno invitato per un
convegno internazionale della gioventù e vado a dare un'occhiata. Alekos, non è
un posto per te. Lo so ma voglio togliermi questa curiosità. Quando parti? Ora,
subito. E quando torni? Fra due settimane, mi hanno invitato per due settimane.
Tre giorni dopo, per: Pronto... Sono io... Sono me... Una voce mortificata,
annoiata. Mi telefoni da Mosca, eh? No, ti chiamo da Atene. Ah! Dunque non ci
sei andato! Sì che ci sono andato. Ma come andato?! Se ci siamo parlati meno di
tre giorni fa! Non è possibile. E possibilissimo, invece. Domani sarò a Roma e
vedrai. L'indomani eccoti a Roma, passaporto in mano, e dai timbri risulta che a
Mosca ci sei stato davvero. Tre giorni. Alekos! Tre giorni!No, due e mezzo. Ti
hanno cacciato? No davvero, sono scappato.
Scappato? Senza vedere nulla? Ho visto tutto. Avanti, che hai visto? Ho visto la
piazza Rossa, con le guglie che al posto delle croci hanno le stelle rosse: tanto è lo
stesso. Ho viso il Santo Sepolcro, cioè il mausoleo di Lenin. Ho visto i fedeli che
stanno in coda per pregare sulla Sacra Sindone cioè sulla mummia di Lenin. In
coda come oche ammaestrate, scemi. Ho visto il palazzo dei Congressi. E poi ho
visto..ho visto..Che hai visto? Ho visto tre poliziotti picchiare un uomo proprio
come Teofilojannacos e Babalis picchiavano me. E mica alla Lubianka per un
interrogatorio, sai: nel bar di un albergo.
L'albergo dei ricchi e degli stranieri con la valuta straniera, il Rossìa. Lo
picchiavano perché voleva entrarci senza essere ne ricco ne straniero, cioè
essendo un cittadino qualsiasi che voleva bere come un ricco come uno straniero
con la valuta straniera. Colpi di scarpone in faccia, in testa, nei genitali. Lo
massacravano. E lui gridava: "Svobdu! Svobdu!" Che non sapevo cosa vuol dire
ma il greco che mi faceva da interprete me l'ha spiegato subito. Vuol dire "dateci
la libertà, dateci la libertà!" M'è andato di traverso il vino che stavo bevendo. L'ho
risputato tutto dagli occhi. M'è venuto da piangere. E sono uscito, sono rientrato
in albergo, ho fatto le valigie, e la mattina dopo sono tornato ad Atene. Per
questo?! Per questo, cataramene Criste! Nel mio paese otto anni è durata la
dittatura ma loro da cinquantotto anni se la tengono, cataramene Criste! Be', non
lo sapevi? Certo che lo sapevo. Però ho pianto lo stesso. E se invece di piangere tu
fossi rimasto qualche giorno in più? Non ce la facevo, non ce la facevo proprio.
Svobdu, svobdu! E giù botte. Non mi è rimasto nulla fuorché quel grido: svobdu,
svobdu! E poi una canzoncina che qualcuno canta ma sottovoce perché quasi

tutti si disfanno nel silenzio e nella paura. Tieni, me la son fatta tradurre. Era
l'ironica canzoncina sui passeggeri del metrò che a Mosca, per raggiungere lo
sportello e scendere, devono tenersi sulla sinistra: Nel mio metrò non sono mai a
disagio / perché fin dall'infanzia / esso è come un'arietta / dove invece del
ritornello / c'è una cantilena / fermi a destra, avanti a sinistra / Ordine eterno,
ordine sacro / chi sta fermo a destra sta fermo / Ma chi va avanti per scendere
deve sempre tenersi a sinistra.
Ne ci fu modo di farti raccontare altro, quel giorno. In compenso non facevi che
ripetere, scuotendo la testa: E stato un viaggio sbagliato, inutile, non voglio
pensarci più.
Così avrei impiegato molto a ricostruire ciò che t'era successo in quel viaggio
sbagliato, inutile, grazie al quale una verità ovvia e scontata t'aveva ferito fino a
farti piangere e scappare. Era successo questo. Un generale di
settantaquattr'anni, vestito di medaglie dalla pancia al collo, t'aveva ricevuto
all'aeroporto dicendo d'essere il capo della Gioventù Sovietica. Poi t'aveva
condotto con la limousine nera al palazzo dei Congressi dove sul palco delle
autorità non c'era nemmeno un giovane: c'erano soltanto vecchi generali come il
generale dell'aeroporto, vestiti di medaglie dalla pancia al collo come il generale
dell'aeroporto. Senza che i giovani osassero opporsi, i vecchi si avvicendavano
cupi al microfono e parlavano esclusivamente di Lenin, di Marx, della battaglia di
Stalingrado: mai d'altre cose. La faccenda t'aveva acceso d'una rabbia impotente,
quasi un senso di colpa per aver accettato l'invito, e quando la seduta era stata
tolta avevi rifiutato perfino il biglietto per il Bolscioi. Non te ne importava nulla
del fottuto Bolscioi, del balletto, del Lago dei Cigni, volevi star solo, e liberandoti
del greco che ti faceva da interprete, dicendogli voglio fare un sonnellino, eri
andato a zonzo per la città. Volevi vedere piazza Majakovski dove negli anni
Sessanta Vladimir Bukovski e il gruppo del Faro leggevano le poesie di Jurka,
Sono io / che invito alla verità e alla rivolta / che non voglio più servire / e spezzo
le vostre nere catene / tessute di menzogna.. E andando pensavi soprattutto a lui
perché fra i dissidenti era quello che sentivi più vicino, ma pensavi anche a
Pliutch, a Grigorienko, ad Amalrik, agli operai, gli studenti, i cittadini sconosciuti
cioè, le creature ignote, le migliaia di te stesso che per aver chiesto un po di
libertà di pensiero e d'azione, essersi ribellati al dogma, languivano nelle loro celle
dell'Esa e di Boiati, messi in croce dai loro Malios, i loro Babalis, i loro

Teofilojannacos, i loro Hazizikis, i loro Zakarakis, ignorati o traditi dalla paura e
dall'indifferenza del popolo che tace o subisce o collabora. D'un tratto, camminavi
da circa quindici minuti, t'eri accorto d'aver sbagliato strada; t'eri ritrovato in una
piazza rotonda con una statua nel mezzo e un edificio di fronte. E qui t'eri
fermato, guardando ora l'una e ora l'altro in preda a un disagio inspiegabile, una
specie di freddo che ti intirizziva le ossa. La statua, alta sul piedistallo,
inaccessibile per via del traffico che girava dattorno, era la statua di un uomo con
un cappotto lungo fino alle caviglie e ritratto in piedi, anzi sull'attenti. Lungo,
secco, severo come un monaco.
L'edificio era un edificio monumentale, grigio, in stile ottocentesco forse, o primo
novecento, e non aveva finestre ne al primo piano ne all'ultimo: a colpo d'occhio
avrebbe potuto essere la sede di un museo o di un'accademia o di un ministero.
Ma l'istinto ti diceva che non era niente di tutto questo, che era qualcosa di
tremendo, di familiare, e di strettamente connesso alla statua del monaco col
cappotto lungo fino alle caviglie. Eri tornato indietro. Eri rientrato in albergo dove
avevi subito chiesto che piazza fosse quella piazza, che edificio fosse quell'edificio,
che statua fosse quella statua, e così avevi saputo che la statua era la statua di
Felix Dzerzinski il creatore della Ceka poi Gpu poi Kgb, la piazza era piazza
Dzerzinski, l'edificio era la Lubianka: cattedrale d'ogni Esa, d'ogni tormento,
d'ogni punizione per chi disubbidisce e cerca un po di libertà. Era incominciata
allora la voglia di scappare.
Volevi scappare al mattino. Però al mattino la limousine nera t'aveva catturato di
nuovo per ricondurti di nuovo al palazzo dei Congressi fra i vecchi generali che
parlavano esclusivamente di Lenin, di Marx, della battaglia di Stalingrado, e qui
eri rimasto fino al pomeriggio quando, con la scusa di prendere una boccata
d'aria, eri saltato su un taxi, t'eri fatto portare in via Chklova 48b: dove abitava
Andrei Sakharov. Speriamo che non ci sia un portiere, t'eri detto scendendo dal
taxi, i portieri sono quasi sempre spie della polizia. Il portiere non c'era, ma il 48b
di via Chklova era un alveare di dodici piani, e a quale piano stava Sakharov? A
questo non avevi pensato e l'errore aveva aperto una catena d'errori. In cerca
della targhetta coi nomi degli inquilini eri entrato, poi uscito, poi rientrato e avevi
raggiunto un piano a casaccio, suonato un campanello a casaccio: Sakharov?
Niet! Così al secondo campanello:

Sakharov?Niet! Così al terzo: .Sakharov? Niet! Sconcertato anche da una lingua
di cui capivi soltanto quel no, quel niet brutale come uno schiaffo, eri uscito
un'ennesima volta sul marciapiede e qui t'eri messo a riflettere sull'opportunità di
insistere o no. Meglio no, avevi concluso, era stata già una sciocchezza venire
così, sulla scia d'un impulso, farti notare dai tre inquilini che avevano risposto
Niet. E ringraziare iddio che nessuno t'avesse seguito. Poi mentre dicevi e
ringraziare iddio che nessuno m'abbia seguito, un uomo era sorto dal nulla. Un
uomo con la sigaretta in mano. E puntando la sigaretta nel gesto di chi domanda
un fiammifero, era venuto verso di te guardandoti fisso. Spika. Fuoco, per favore.
Gliela avevi accesa fissandolo nell'identico modo, studiandolo bene anzi e
decidendo che non si trattava nemmeno di un poliziotto. Tutto in lui, le palme
callose, le unghie sporche, gli abiti lisi, raccontava la miseria d'un povero
mercenario venduto al Kgb per qualche copeco o per qualche ricatto. Allora al
posto della rabbia che t'aveva colto nel palazzo dei Congressi, era sorta una
grande tristezza. Con quella tristezza avevi camminato fino a una stazione del
metrò, la stazione di Kursk, e a forza di mezze frasi in francese eri riuscito a
prendere il treno giusto per scendere alla fermata giusta, raggiungere il tuo
albergo, abbatterti esausto sul letto, addormentarti in un sonno carico di incubi.
Joannidis e Hazizikis e Teofilojannacos che al palazzo dei Congressi, col corpetto
di medaglie, rievocavano Lenin e Marx e la battaglia di Stalingrado; Averoff che in
una stanza del Cremlino si incontrava con Jackson l'assassino di Trotzki e gli
mormorava caro devi rendermi un altro servizio; Malios e Babalis che uscivano
dalla Lubianka per venire a braccarti nelle strade di Cipro, nelle strade di Atene, e
ti acciuffavano proprio in via Chklova 48b, dopo aver arrestato Sakharov che per
non aveva il volto di Sakharov, aveva il volto di Canellopulos l'alba in cui
l'avevano arrestato in pigiama; e anziché all'Esa ti portavano all'istituto Sierbski
dove ti mettevano la camicia di forza e ti iniettavano l'amenzoina. E pazzo, osa
contestare regime, è pazzo! Poi ti portavano con la camionetta a Boiati per
metterti dentro una cella accanto alle celle di Bukovski e di Pliutch, e tu li
chiamavi: Vladimir! Leonida! Ime ed! Sono qui! Imesta masì! Siamo insieme! Ma
loro non ti capivano perché non capivano il greco, e Zakarakis rideva:
Te lo dicevo io che non serve studiar l'italiano? perché non hai imparato il russo
che è una lingua delle Grandi Potenze? O il russo e l'inglese, no? T'eri svegliato
madido di sudore, era ormai notte, e subito avevi chiamato il greco che ti faceva

da interprete: Voglio ubriacarmi, portami a bere. Ti sembrava di non aver mai
avuto tanta voglia di bere, di ubriacarti, dimenticare che ovunque tu vada è la
medesima merda, una merda che esclude qualsiasi speranza, e il greco era
venuto. Ma erano quasi le undici, il bar dell'albergo stava chiudendo, ne esisteva
altro luogo a Mosca per bere se non il bar di un albergo. Era incominciata a quel
punto la ricerca di un albergo dove il bar non chiudesse alle undici, l'assurdo
pellegrinaggio che s'era concluso al Rossìa dove non avevi potuto ubriacarti
perché, appena ordinata la bottiglia di vino erano entrati i tre poliziotti per
picchiare il cittadino che pretendeva di bere come i ricchi, come gli stranieri con
la valuta straniera. Svobdu! Svobdu! Svobdu! Ecco, erano reazioni come questa,
così intense, così esagerate, così disperate a farmi concludere che eri in ogni
senso cambiato. E non è tutto perché, dopo il teschio, era scoppiato in te
qualcos'altro. Un'esuberanza eccessiva, rabbiosa, una specie d'allegria priva di
felicità. Sai l'esuberanza e l'allegria di Dioniso che corre pei boschi
sghignazzando, zufolando, ruzzando coi fauni e le mènadi: il capo cinto di edera,
il pene ritto ed ansioso, e gli occhi pieni di lacrime.
Dioniso non è un dio felice, anzi è il più tragico degli dei perché è quello che
esprime lo spasimo della vita e l'inevitabilità della morte. Dioniso è un dio che
muore, un dio che nasce e rinasce per essere ucciso. perché il suo corpo possa
modellare l'Uomo, è necessario che i Titani lo facciano a pezzi e lo cuociano,
perché da lui sbocci la pianta che darà il vino all'Uomo è necessario che Demetra
ne seppellisca le carni straziate. Dioniso è la vita che non esiste senza la morte, è
la maledizione di nascere, è il rifiuto inconscio di morire. Non a caso il suo culto è
un'orgia avida e disperata, la sua gaiezza è intrisa di sofferenza e il suo brio di
dolore. Ebbene, tra i tuoi mille volti c'era sempre stato il volto di Dioniso che corre
pei boschi sghignazzando zufolando ruzzando coi fauni e le mènadi: Giochiamo?
C'era sempre stato quell'impeto di vitalità.
All'improvviso per esso aveva assunto un che di esasperato, frenetico, quasi fosse
una commedia per ingannare te stesso e sopportare l'idea della morte. Non stavi
più fermo, tranquillo, a riflettere. Non riuscivi più a tenerti lontano dalla folla e
dal bailamme. Anche nei giorni in cui non andavi in Parlamento ti mischiavi alla
gente che dal mattino alla sera gremiva il tuo ufficio come il gabinetto di un
dentista à la page. Magari adulatori in cerca di raccomandazioni, buoni a nulla in
cerca di protezioni, simboli della politica clientelare che disprezzavi.

Persone, insomma, che non avresti dovuto nemmeno ricevere ma con le quali
adoravi intrattenerti fra birre aranciate caffè, prego un'altra birra, un'altra
aranciata, un altro caffè. Venti, trenta persone al giorno. E se ti chiedevo
amareggiata a che serve, rispondevi fatuo: A nulla! A vivere. Mi diverte. Poi,
quando l'ultimo visitatore si allontanava lasciandoti esausto perché ormai erano
le dieci di sera, aveva inizio la prima parte del rito. Col pretesto dei "testimoni"
raccattavi chi c'era o chi capitava, magari parassiti cui interessava soltanto
sfruttare la tua prodigalità, e mettevi insieme una comitiva, la portavi a mangiare
in una taverna, e più la comitiva era numerosa più apparivi contento e mangiavi
con cupidigia, bevevi con bramosia. Litri e litri di vino, piatti e piatti di cibo,
mentre predicavi, catechizzavi, fanfaronavi, scintillante, chiassoso, volubile,
inattaccabile dalla stanchezza: se un commensale, vinto dal sonno, si azzardava a
chiederti ma tu non ci vai a dormire, lo trattavi male. Oppure rispondevi secco:
Da morto avrò l'eternità per dormire. E questo durava fino alle due, le tre del
mattino, cioè fino al momento in cui i camerieri capovolgevano le sedie sui tavoli
per ricordarti che gli altri se n'erano andati via. Soltanto allora ti alzavi e pagando
per tutti, lasciando mance da miliardario, ti decidevi ad uscire: E va bene,
sgombriamo! Per appena fuori la ragionevolezza svaniva ed acceso d'un nuovo
vigore ricorrevi a mille astuzie per allungare la notte, trascinare in qualche luogo
il tuo codazzo intontito dal sonno: Musica! Buzuki! Il locale che preferivi era un
night club alla periferia della città, vastissimo e odioso. Io lo odiavo anzitutto
perché vi suonavano il buzuki in modo così assordante che al solo entrarci se ne
rimaneva storditi, coi timpani a pezzi, e poi perché la sua chiassosità aveva
qualcosa di macabro, di funereo: anche visivamente. Quel gioco di riflettori ad
esempio che squarciava il palcoscenico in lampi rossi gialli verdi violetti fino a
bruciarti gli occhi, quel luccicar di fondali che cambiavano di continuo, ossessivi,
sicché a guardarli sembrava di stare in una giostra che gira, gira, fino a
rovesciarti lo stomaco. Per guai se non ti davano un posto vicino all'orchestra
dove l'orgia infernale di squilli, di schianti, di tonfi assordava di più e la tempesta
malvagia di bagliori, di fulmini, accecava di più.
Quel caos era proprio ci che cercavi, di cui avevi bisogno per sentirti vivo, e subito
ordinando altro vino ti abbandonavi alla voluttà di godere sensazioni morbose.
Chi non ti conosceva non sospettava nemmeno l'effetto che quel luogo orrendo
esercitava su te perché l'effetto non traspariva dal tuo comportamento. Silenzioso,

composto, ti consentivi l'unico eccesso di chiamar la fioraia e comprarle tutte le
gardenie del cesto, poi lanciarle ai cantanti con ampi gesti regali. Ma era un
effetto selvaggio, lugubre. Era come se una febbre sessuale, un orgasmo,
investisse il tuo corpo e la tua fantasia scatenando desideri inconfessati e
repressi, i medesimi che avevi sognato ad Egina l'alba in cui dovevano fucilarti e
ti sembrava d'essere un seme, il seme raddoppiava triplicava decuplicava
diventando così turgido che il guscio non reggeva, con un boato scoppiava e
inondava la terra di mille semi ciascuno dei quali si trasformava in un fiore poi in
un frutto poi daccapo in un seme che a sua volta raddoppiava triplicava
decuplicava in un processo inesauribile, sicché volevi possedere ogni donna che
sbocciava da quei fiori e sapendo di non averne il tempo ghermivi a caso la più
vicina, la penetravi svelto, famelico, la buttavi via per ghermire la seconda, la
terza, la quarta, la quinta. Io lo sapevo e sapendolo ne soffrivo, soffrendo evitavo
di guardarti, ma v'era sempre un momento in cui la curiosità mi spingeva a
cercare il tuo volto. E ci che vi vedevo aveva un che di bestiale: malgrado
l'autocontrollo che ti imponevi, cambiavi perfino fisionomia. Ti si rimpicciolivano
gli occhi, ti si imporporavano le labbra, e le narici si dilatavano palpitando, il
respiro si faceva greve. Una sera sulla pista saltarono una specie di elefantessa ed
un efebo. Lei pingue, gelatinosa, sugnosa dentro l'abito rosso. Lui secco, sottile,
scattante dentro i blue jeans troppo stretti. E si misero a ballare su un ritmo
insieme lascivo ed isterico: l'elefantessa molleggiando con morbidezza la massa
delle natiche soffici e immense, il tremolio dei seni esagerati; l'efebo dimenando
con turpitudine il fragile corpo femmineo e l'impazienza d'esser posseduto. Uno
spettacolo inverecondo a mio avviso, e mi accingevo a dirtelo quando udii un
piccolo schianto: zac! Mi girai e tra i denti serrati stringevi il bocchino della pipa
rotta, in mano t'era rimasto il fornello. Alekos! Mi rispose una voce torva,
ansimante: Non disturbarmi. Sto scopando quei due.
Le notti in cui il demone ti possedeva così, strapparti via dal maledetto locale era
impresa pressoché irrealizzabile. Per riuscirci bisognava aspettare le cinque, le sei
del mattino, e molte bottiglie vuote sul tavolo. Chissà per quale fenomeno
fisiologico o psicologico, lì sopportavi il vino con una resistenza allucinante, mai
superando l'ebrezza invisibile del primo stadio, mai cadendo negli eccessi del
secondo o nelle catalessi del terzo, anzi rimanendo carico di energia. E questa era
la cosa peggiore perché, giunti a casa, superato il tormento del corridoio da

percorrere in punta di piedi, l'agonia dell'ascensore che magari stava a un altro
piano e allora occhio ai cinquantasei secondi, poi il supplizio dei controlli da
compiere nelle varie stanze, la ricerca del capello eventualmente scomparso,
bisognava celebrare l'ultima parte del rito: Dioniso che esorcizza la morte col fallo
e inneggia alla vita scaricando tetramente il suo orgasmo. Soltanto dopo quegli
amplessi furibondi e sinistri, privi d'amore, scanditi sull'invocazione i zoìi zoìi zoì,
la vitala vitala vita, ti consegnavi al sonno. Io invece restavo con gli occhi
spalancati e gli orecchi tesi a pensare, ascoltare gli spazzini che all'alba
raccoglievano l'immondizia di via Kolokotroni bestemmiando, sbatacchiando, e
irretita dai soliti schemi con cui si cerca di spiegar l'esistenza, gli arbitrari
concetti del bene e del male, vedevo in ci un simbolismo: sprecarsi così, perché?
Che senso aveva quel vagabondare nelle taverne e nei night club, quell'avvilirsi in
emozioni degradanti, fantasie malsane, quell'infiammarsi per una elefantessa
pingue e un efebo secco? Dov'era finito l'eroe, dov'era finita la fiaba? Avevi forse
gettato l'ancora, condotto la tua nave nel comodo porto della rinuncia? Oppure
m'ero sbagliata, avevo scambiato don Chisciotte col più fatuo dei Peer Gynt? In
tali interrogativi mi scostavo delusa, e mi convincevo sempre di più d'averti
attribuito virtù inesistenti o esistite e ora estinte. Del resto fu in quel periodo che
ti amai meno e abiurando il mio ruolo di Sancho Panza, ormai inutile e privo di
significato, ripresi a lavorare, a viaggiare, mi restituii all'esistenza che un fatale
pomeriggio d'agosto tu avevi sconvolto. Ci si dimentica sempre che un eroe è un
uomo, soltanto un uomo, e che resistere a una tirannia, subire sevizie, languire
per anni in una cella senz'aria ne luce è a volte più facile che battersi
nell'equivoco e nelle lusinghe della normalità. Avrei impiegato molto a capire che
la tua dionisiaca follia era semplice disperazione, senso di inadeguatezza nato con
la scoperta d'esserti messo in un'impresa superiore alle tue forze e comunque
impossibile. E soltanto dopo la tua morte avrei capito che, sulla scia di quel
teschio, sapevi di stare vivendo la tua ultima estate.
Come si chiama la balena di quel libro, la balena bianca che non muore mai?
Moby Dick. E il capitano della nave, quello che muore dandole la caccia? Achab.
E il marinaio, quello che scampa al naufragio per raccontare la storia di Moby
Dick e di Achab? Ismaele. Ti chiamerò Ismaele. E mi firmerò Achab. Dammi
l'indirizzo. Alekos, che bisogno c'è di giocare sempre ai cospiratori? Dammi
l'indirizzo, ti dico. Ti avevo dato l'indirizzo. Stavo andando in Arabia Saudita,

sarei tornata il giovedì di due settimane dopo, e volevi un recapito per avvertirmi
se ci saremmo incontrati a Roma o ad Atene. Ma il telex che mi giunse a Gedda
non diceva ne Roma ne Atene, diceva Larnaka. Cioè Cipro. Ismaele mezzogiorno
Larnaka stop niente conferme ripeto niente stop arrangiati stop Achab. Strano.
Ma non per l'appuntamento a Cipro dove da sette anni non mettevi piede e dove
mi sembrava normale che tu desiderassi rivedere luoghi o persone che avevano
inciso profondamente nella tua vita: per la messa in scena, per il fatto che tu
avessi usato davvero i nomi Ismaele e Achab, che tu fossi ricorso a quei sotterfugi
evitando di ripeter la data o scrivere la parola Cipro. L'unica indicazione esatta
era l'ora. E che non inviassi conferme: Arrangiati. Si trattava d'uno dei tuoi
scherzi, d'una delle tue stravaganze, oppure c'era un motivo grave? Guardai
l'orario degli aerei. Lo avevi studiato proprio bene prima di mandarmi il telex: da
Gedda si poteva raggiungere Cipro solo via Beirut, e il volo da Beirut atterrava
proprio a mezzogiorno. Poi mi strinsi nelle spalle, mi accinsi a seguire gli ordini, e
a Larnaka eccoti lì sulla pista: scortato da tre sconosciuti e trionfante: Brava! Ce
l'hai fatta! Sì, ma non era meglio mandarmi un telex meno sibillino? No,
avrebbero capito che mi trovavo a Cipro. .Chi lo avrebbe capito, chi non doveva
capirlo? .Qualcuno che volevo mettere sulla pista sbagliata. Ho lasciato Atene
dicendo che andavo in Italia, a Firenze. Quando? Una settimana fa. E sei stato
nascosto una settimana qui a Cipro? No, solo tre giorni. Quanti mi bastavano per
depistare qualcuno in Italia. Ora lo sanno tutti che sono qui. Domani c'è un
comizio di Makarios e vi parteciperò con altri deputati. Spiegati meglio. C'è poco
da spiegare. M'era giunto all'orecchio qualcosa e ho preso le mie precauzioni.
Su, vieni. Salimmo sull'automobile che ci avrebbe condotto a Nicosia e sotto il
sedile anteriore i miei piedi incontrarono subito un mitra. E questo?! Fa parte
anche questo delle tue precauzioni?! Alzasti le spalle: Ma no. E che qui le armi si
sprecano. Vanno pazzi per le armi qui a Cipro. Si illudono che per difendere un
uomo basti avere un mitra. Lascia perdere, guarda che bella giornata! Esibivi un
buonumore sincero. Si sarebbe detto che, di nuovo, saperti in pericolo ti piacesse
e ti ravvivasse. Forse per questo non detti importanza all'intera faccenda, non
cercai nemmeno di approfondirla chiedendo chi era il misterioso qualcuno. Anzi,
un po per volta, mi abbandonai al sospetto che tu avessi costruito una commedia
per non annoiarti. Moby Dick, Achab, Ismaele: se davvero t'era giunta all'orecchio
la voce che stavano per farti del male, e se ci avevi creduto abbastanza da

depistarli in Italia, perché avevi scelto proprio Cipro dove ammazzare la gente era
più facile che in un altro luogo? E poi, non t'aveva visto nessuno quando t'eri
imbarcato per Cipro dicendo che venivi in Italia? Gli impiegati della linea aerea, i
funzionari della polizia di frontiera, tutte le persone che seguono una partenza
non se n'erano accorti? Avevi ben viaggiato col tuo nome, col tuo passaporto, sì o
no? Storie! Probabilmente non eri neanche venuto una settimana prima ma
insieme ai parlamentari invitati al comizio di Makarios.
Fammi vedere il passaporto. Non mi credi come non mi credevi sui tre giorni a
Mosca, eh? No. Eccolo. In realtà il timbro risaliva a sette giorni prima, per lo
scetticismo rimase.
Non si attenuò nemmeno dinanzi al fatto che gli altri deputati abitassero in un
comodo albergo, tu invece in una specie di locanda presso la zona di
demarcazione. Alekos, perché non andiamo a stare anche noi in un albergo
decente? perché questo appartiene a un amico di cui mi fido. Mi ci sento sicuro.
V'era una sola entrata, infatti, e i tre giovanotti del mitra sotto il sedile la
sorvegliavano anche di notte, a turno. Quanto al particolare che una guardia del
corpo ti seguisse ovunque tu andassi, magari tenendosi a una certa distanza per
non esser notata, non avevi detto che a Cipro le armi si sprecano? Soltanto una
sera mi allarmai. Eravamo stati da Makarios, per salutarlo, e il discorso era
caduto sui documenti dell'Esa: quelli che durante la scenata ad Averoff avevi
annunciato di voler cercare per sputtanare lui e il suo governo. Eminenza, c'è
molto da scoprire sul colpo di stato a Cipro. Mi risulta che Joannidis cadde in un
tranello tesogli dalla Cia e da qualche politico greco. Le prove stanno in quei
documenti. Makarios t'aveva risposto che allora a cercare quei documenti
rischiavi la pelle, e l'aveva ripetuto anche a me: Very riskv! Very! Molto rischioso!
Molto! Così, rientrando alla locanda, ne avevamo discusso:
Alekos, hai sentito che ne pensa Makarios? E tu: Non dimenticarlo nel libro. Che
libro? Il libro che scriverai dopo la mia morte. Che morte? Non morirai e non
scriver nessun libro.
Morirò e tu scriverai un libro. E se morissi prima di te o con te? Non morirai ne
con me ne prima di me. Ismaele non muore ne prima di Achab ne con Achab.
perché deve raccontarne la storia.
Ma ridevi, dicendolo, e presto ne risi anch'io. Soltanto un anno dopo, percorrendo
i sentieri dei tuoi assassini, avrei scoperto una coincidenza raggelante. Proprio la

settimana in cui eri partito per Cipro, e ad Atene tutti credevano che tu fossi a
Firenze, erano giunti in Italia due greci. E s'erano fermati a Firenze, ospiti dei
connazionali Cristos Grispos e Notis Panaiotis, studenti di architettura. I due
dicevano d'esser venuti in vacanza e d'aver stretto amicizia per caso, sulla nave
che da Patrasso li portava ad Ancona. Curiosa amicizia, visto che uno si definiva
papandreista ex filocomunista e l'altro si definiva nazista. E curiosa vacanza,
visto che avevano scelto Firenze e non si curavano di visitarla. Di giorno se ne
stavano quasi sempre chiusi in casa ad aspettare una telefonata che non
arrivava, di sera uscivano sempre con l'aria di recarsi a cercare qualcosa e
qualcuno che non riuscivano a trovare. E rientrando apparivano molto scontenti.
Al settimo giorno erano ripartiti con aria delusa. Delusa da che? Il nazista era un
biondo dalle pupille fredde ed azzurre, la faccia ottusa e gonfia di odio. Parlava
pochissimo, salutava battendo i tacchi alla militare e sibilando Heil Hitler; si
faceva chiamare Takis e possedeva ad Atene alcuni negozi per fotocopie. Dal
ritratto che me ne fornirono Grispos e Panaiotis, mi parve di poter concludere che
lo conoscevo. Un tipo così, infatti, lo avevo intervistato mesi avanti per
un'inchiesta sui legami tra i fascisti greci e italiani. Comunque era il medesimo
che in primavera aveva partecipato al pestaggio del deputato comunista Fiorakis.
Quanto al papandreista, era un giovanotto grasso e volgare, dalla faccia tonda
come il giovanotto che avevo scorto dall'aliscafo il giorno in cui eravamo andati ad
Ischia con la Salamandra che ci pedinava. Indossava blue jeans con la cintura a
borchia, chiacchierava molto e soprattutto della sua automobile, una Peugeot
bianco argento di cui glorificava la velocità e la maneggiabilità. Si definiva un
gran pilota, insuperabile nelle manovre di inseguimento e di testacoda, si
dilungava molto sui suoi viaggi; al tempo della Giunta era stato anche in Canada
dove aveva lavorato in un garage di Toronto e partecipato a gare automobilistiche.
Di quali gare si trattasse Grispos e Panaiotis non lo ricordavano o dicevano di
non ricordarlo sebbene sapessero molto di lui: erano tutti e tre di Corinto.
Però non mi fu difficile appurare che si trattava delle gare su circuito aperto,
quelle in cui i concorrenti si scagliano l'uno contro l'altro con urti frontali o
manovre di testacoda. Non mi fu neanche difficile collegare quel particolare a
qualcosa di cui i giornali avevano già parlato e cioè al fatto che egli fosse stato in
Italia anche nell'autunno del Settantatre e nella primavera del Settantaquattro.
Milano, Roma, Firenze. Quanto alla sua camaleontica collocazione politica, cioè al

suo essere amico del nazista Takis e al suo definirsi seguace di Papandreu dopo
esser stato filocomunista, aveva precedenti assai interessanti: nei primi anni della
dittatura egli aveva fatto il figurinista nell'atelier di Despina Papadopulos. Un
anello di congiunzione, insomma, fra l'estrema destra e l'estrema sinistra; un
altro figlio dell'orrendo matrimonio che produce ottimi mercenari.
Parlo di Michele Steffas. Il medesimo Michele Steffas che la notte del 1ø maggio
1976 avrebbe guidato una delle sue automobili da cui saresti stato ucciso:
appunto la Peugeot bianco argento. Era lui che, mentre stavi a Cipro, si aggirava
per le vie di Firenze dove avevi fatto credere che saresti andato in quei giorni.
CAPITOLO III
Quell'incredibile estate che sapevi sarebbe stata la tua ultima estate. Accadde di
tutto quell'incredibile estate. perché tu non dimenticassi l'appuntamento a
Samarcanda, riapparve anche la Morte con l'aspetto di un'automobile. Il processo
contro Papadopulos e Joannidis e i membri della Giunta era appena
incominciato, parallelamente al processo contro Teofilojannacos e Hazizikis e la
banda dei torturatori, e noi eravamo appena tornati da Cipro per piombare in
un'Atene sconvolta da tumulti di origine sindacale, tanto strani quanto
inopportuni. Inopportuni perché si svolgevano appunto nei giorni in cui la città
avrebbe dovuto manifestare il giubilo di veder gli antichi tiranni alla sbarra;
strani perché li caratterizzava una violenza inconsueta, bombe carta, bottiglie
Molotov, selciati divelti, pioggia di sassi cui la polizia rispondeva con gas
lacrimogeni, bastonate, arresti brutali, e perché le bastonate o gli arresti brutali
non colpivano mai i dimostranti più scalmanati.
Anzi sembrava che la polizia mettesse una cura speciale nel risparmiare sia
costoro sia una certa Cadillac nera che da quarantott'ore passava e ripassava
gettando le bombe carta e le bottiglie Molotov. Così, e sebbene all'inizio si fosse
pensato all'errore strategico di una sinistra sorda all'inopportunità di scendere in
piazza mentre si celebravano tali processi, aveva preso corpo il sospetto che tutto
nascesse dal disegno di una destra in cerca della scintilla necessaria a
giustificare il solito golpe portatore di Ordine e Legge. Correvano del resto voci
catastrofiche e nel tuo ufficio molti apparivano preoccupati: dicevano che nelle
caserme c'era aria di guerra, che il corpo dei carristi era in stato di allarme, che
qualcuno aveva notato movimenti di truppe. L'unico che si mostrasse tranquillo

eri tu: Non esageriamo. Se il gruppetto esiste, basta isolarlo. Se la Cadillac nera
esiste, basta identificarla. E scoprire chi c'è a bordo, per chi agiscono, a chi
riferiscono. Inutile starcene qui a far chiacchiere. Poi al calar del buio eri uscito
per rientrare tutto contento: Preparati, si va a spasso. A spasso? Ti pare la serata
per andare a spasso? Sì, e ti voglio elegante. perché?.
perché se ci arrestano possiamo protestare ma noi che c'entriamo, guardate come
siamo vestiti, noi andavamo a spasso. Mi avevi addirittura imposto l'abito lungo, i
tacchi alti, gioielli.
Per te avevi scelto il completo blu, la camicia di seta, la cravatta di Hermes. E
bardati così, in pompa magna, dovremmo mischiarci ai dimostranti?!? Non ci
mischieremo a nessuno. E poi abbiamo l'automobile. Che automobile? Quella che
ho affittato. perché hai affittato l'automobile? Per andare a gettare un'occhiata
sulle caserme e per cercare una Cadillac nera.
Non era proprio un'automobile adatta all'impresa: per spendere meno avevi
affittato una vecchia Renault sgangherata che partiva a colpi di tosse e rischiava
d'andare in panne ogni volta che innestavi una marcia. In compenso sembrava
sufficiente al tuo giro di ricognizione che, nientaffatto avventuroso, consisteva nel
fermarsi a una certa distanza dalla caserma, spengere i fari, abbracciarci o
fingere tenerezze se uno si avvicinava, tenere gli occhi ben aperti e gli orecchi ben
tesi.
Per a mezzanotte avevamo già spiato tre caserme e non vi succedeva nulla che
denunciasse un golpe in preparazione.
Non succedeva nulla neanche in città dove il secondo giorno di tumulti s'era
concluso dinanzi al Politecnico con una esplosione sul marciapiede. Quanto alla
Cadillac nera, cui si doveva l'esplosione, nessuna traccia. Alekos, ti rendi conto
che è come cercare un anello nell'oceano? Sì, eppure sento che la troverò. Ma
dove, come? Non lo so. Andiamo al Politecnico.
Ci siamo stati meno di trenta minuti fa! Ci torniamo.. Sobbalzando e gracchiando
la Renault ci riportò al Politecnico, dagli studenti che vegliavano asserragliati
dietro i cancelli. S'era rivista nel frattempo? No, non s'era rivista. Ne erano certi?
Sì, certissimi. Non poteva darsi che si sbagliassero? No, non poteva darsi. Bene,
aspetterò. Ma perché, Alekos, perché?. perché sento che passerà. Lo sento, ti
dico. Tirasti fuori la pipa, la accendesti, e dopo qualche boccata eccola sbucare da
una traversa di via Stadiu. Veniva verso di noi con calma, quasi fosse incerta sul

da farsi o volesse studiare la situazione, e giunta alla nostra altezza accelerò di
colpo allontanandosi. Ci fu appena il tempo di vedere la targa CD, corpo
diplomatico, e osservare i quattro uomini a bordo: tre sui trent'anni, capelli neri e
aria insieme dimessa e proterva; uno sui cinquanta, capelli grigi e aria autorevole
malgrado una strana camicia a fiori con le maniche corte. Svelta! Via! Mi
spingesti nella Renault, schizzasti al volante, e guardiamocela di nuovo questa
Morte che al posto delle orbite vuote ha due fari, al posto del teschio un cofano e
un parabrezza, al posto degli arti spolpati le ruote, il rombo di un motore la sua
voce, sicché vibri tutto, lieto di ritrovarla, di poterci amoreggiare come a Creta,
come a Roma, come sempre, di poterci giocare con la tua temerarietà, il tuo gusto
della sfida, la tua follia che ora è la follia di don Chisciotte, ora la follia di Dioniso,
ora la follia di Achab ma qualsiasi volto assuma è la medesima follia e chi ti sta
vicino non conta, non conta la sua vita, non conta la tua, conta soltanto tentar di
acchiappare la Cadillac nera, sapere chi porta con se, chi sono i quattro, chi li
manda e magari metterli in ginocchio, umiliarli, a costo di morire.
Quell'inseguimento pazzo, forsennato, insensato, via Stadiu, via Patissiu, via
Alexandras, via Kifissias, dietro un'automobile che correva il doppio di noi e
fingeva di scappare per condurci lontano, attirarci nel tranello che presto avrebbe
trasformato gli inseguitori in inseguiti, gli inseguiti in inseguitori, e ci riusciva,
ora aumentando la velocità ora diminuendola, centoventi, centotrenta,
centoquaranta e poi giù a cento, novanta, ottanta, sai la tecnica del pescatore che
si diverte a dar filo e a raccorciarlo per stancare il pesce. E tu lo sapevi. Però non
cedevi. Il volto pallido, teso, le mani strette al volante pigiavi sull'acceleratore, di
più sempre di più, sbandando, sterzando, slittando, mentre io ti supplicavo
lasciali andare per carità, ci ammazzeremo, non vedi che si fanno beffe di te,
potrebbero fuggire in qualsiasi momento, non fuggono per tenerci a bada e
condurci chissà dove, non puoi raggiungerli e se li raggiungi è peggio, loro sono
quattro e noi siamo due, loro sono sicuramente armati e noi no, se non ci
ammazziamo finendo fuori strada ci ammazzano loro e morire così è una
stoltezza, perché vuoi far morire anche me, non hai diritto di sacrificare anche gli
altri insieme a te stesso, non è giusto non è civile. E terrorizzata, indignata, ti
ingiuriavo, ti maledivo, ti supplicavo. Ma tu, il volto pallido, teso, le mani strette
al volante, continuavi a pigiare sull'acceleratore, a sbandare sterzare slittare e
non mi degnavi d'una risposta, d'un monosillabo, d'un gesto. Non udivi nemmeno

ci che dicevo, ci che provavo non ti riguardava per niente, quasi fossi un fagotto e
non una persona. Ti interessava lei e basta, loro e basta. Loro dovevano essere
esperti in manovre del genere, e quello alla guida un vero campione. A volte
lasciandosi sorpassare e a volte sorpassandoci, a volte tenendo una distanza
considerevole e a volte pochi metri, dal lungomare di Agios ci condusse a Rafina,
poi girò brusco a sinistra e ci portò sulla montagna di Ymittos, poi girò ancora a
destra e ci fece scendere di nuovo verso il mare dalla parte di Vula, e questo
senza che tu aprissi mai bocca, senza che tu mi regalassi mai un'occhiata. Infatti
a un certo punto non protestavo più, non mi raccomandavo più, rassegnata.
Soltanto alle tre del mattino, quando la Cadillac nera rientrò in città e frenò di
sorpresa per far scendere l'uomo dai capelli grigi, un'ombra alta e grossa che
subito si dissolse nel buio, avvertii un soffio di speranza. Pensai che tu volessi
scendere, corrergli dietro. Dopo un'esitazione infinitesimale, per, riprendesti
l'inseguimento e la trappola che ci avevano teso scattò. Un vicolo cieco che
scendeva in un garage sotterraneo e in cui lei si infilò dritta, sicura. Udii la mia
voce: Torna indietro!. Poi la tua, finalmente: Troppo tardi. Siamo in trappola,
Alekos! Lo so. continuasti a guidare fino al garage.
Parcheggiasti accanto alla Cadillac nera che s'era fermata all'imbocco del garage.
Impugnasti la pipa dalla parte del fornello. Scendesti. Vieni. Obbedii. Nel garage
non c'era nessuno, oltre ai tre. E neanche nel vicolo. Unico segno di vita, l'ombra
di un gatto che balzava via muto nella luce verdognola dell'insegna al neon.
Guardali. I tre ci attendevano l'uno accanto all'altro. Petto in fuori, mani sui
fianchi, gambe divaricate: la posa dei picchiatori. Il terzo, impacciato da un
pacchetto cilindrico che reggeva nell'incavo del braccio sinistro. Si assomigliavano
curiosamente: stesso ghigno, stessa corporatura, stessa carnagione olivastra,
stessi baffetti a virgola. E stesso abbigliamento da poveri, pantaloni sformati,
giacca consunta, cravatta a sghimbescio. Non ci voleva molto a capire che non
erano loro i proprietari della Cadillac e che il cervello dell'intera faccenda era
stato l'uomo dai capelli grigi. Ma proprio perché si trattava di semplici esecutori,
di tre disgraziati in vendita per poche dracme, il pericolo era grosso e, d'istinto,
ficcai la mano destra nella borsa: fingendo d'agguantare un'arma che
naturalmente non esisteva. Gesto non del tutto inutile, forse, ma del quale il tuo
mostruoso coraggio non aveva bisogno. Gli occhi fermi, le mascelle serrate,
avanzavi adagio verso di loro, così adagio che tra un passo e l'altro sembrava

gocciolare l'eternità, e ogni muscolo del tuo volto emanava un furore talmente
gelido e incontrollabile che non sembravi più un essere umano bensì una belva
vestita da essere umano. Avanzando ansimavi, li fissavi e ansimavi, e quando gli
fosti davanti ti fermasti: per squadrarli, uno a uno, con esasperata lentezza. Dopo
averli squadrati battesti il bocchino della pipa sul pacchetto cilindrico e, senza
che nessuno dei tre si ribellasse o facesse un gesto o dicesse una parola,
scandisti nella mia lingua e nella tua:
Vedi, questa è una bomba. Non una bomba da tirare a un tiranno: una bomba da
tirare sulla gente. E questo è un fascista greco, un servo senza coglioni. Un servo
della Cia e del Kyp e di Averoff . Dopo aver detto così girasti intorno a loro due
volte, col solito passo, la solita esasperata lentezza, poi ti fermasti davanti a
quello che stava nel mezzo, gli agguantasti la cravatta, gliela tirasti ripetutamente
con colpi secchi e sprezzanti: Anche questo è un fascista greco. Neanche questo,
vedi, ha coglioni. Anche questo è un servo della Cia e del Kyp e di Averoff. Infine,
e sempre senza che i tre si ribellassero o facessero un gesto o dicessero una
parola, sicché io non credevo ai miei occhi e continuando a tenere la mano dentro
la borsa pensavo non è possibile che se ne stiano lì intirizziti a lasciarsi insultare,
sbeffeggiare, non è normale, tra poco gli salteranno addosso e lo massacreranno,
ti dedicasti al terzo.
Sollevasti la pipa, gli appoggiasti il bocchino sul cuore, glielo pigiasti due volte sul
cuore come se fosse un coltello e: Anche lui. Non si direbbe vero? Guarda che
mani. Colpo sulle mani. Guarda che giacca. Colpo sulla giacca. Guarda che
faccia.. Colpo sulla faccia. Si direbbe un figlio del popolo. Tutti e tre si direbbero
figli del popolo. In un corteo passerebbero per figli del popolo. E invece sono servi
senza coglioni, fascisti. E lo sai cosa faccio io ai servi senza coglioni, ai fascisti?
Lo sai? Non c'era nulla che tu potessi fargli. Assolutamente nulla.
Eri solo con una pipa e una donna che, impacciata da un abito lungo, fingeva di
stringere una rivoltella inesistente. Se uno dei tre si fosse svegliato, saremmo
stati massacrati in un lampo. E lo sapevi. Per con la coda dell'occhio avevi notato
finalmente il mio bluff e ora te ne servivi per puntare sulla sorte: rouge ou noir le
jeuest fait rienneva plus. O la va o la spacca. O si vive o si muore. Nell'uno e
nell'altro caso che importa. Importa giocare, sfidare, puntare. Cinque secondi,
dieci. Venti, trenta, quaranta. Mentre la pallina gira nella scodella, gira e rigira,
poi il perno rallenta, si ferma, e accade ciò che non avrei mai sperato, neanche

immaginato. D'un tratto quello col fagotto si buttò in ginocchio, quello al quale
avevi tirato la cravatta invece si fece il segno della croce, quello che avevi
strapazzato a colpi di bocchino si coprì il volto e: No, Alekos, no! Ho famiglia,
perdonami, lasciami andare. No, Alekos, no, c'è un equivoco, noi ti ammiriamo, ti
rispettiamo, lo giuro sui miei bambini, sulla bandiera, non ci ammazzare. E tu
vacilli, lo vedo, il tuo furore si sgonfia, lo vedo, devi fare uno sforzo terribile per
non esplodere nella risata che ti pizzica in gola, per darti un contegno e ordinargli
con la voce di prima: Su, in piedi, vigliacchi. E via in macchina, presto. Seguitemi
a breve distanza. Che hai detto, Alekos?! Che stai combinando?! Li porto al
Politecnico. E tu credi che ci vengano? Sì. Infatti ci vennero. Docili, ipnotizzati.
Come in un western dove lo sceriffo riesce a catturare da solo la banda, portarla
al villaggio, consegnarla al giudice che celebrerà regolare processo, ti obbedirono
senza fiatare: ti seguirono nel modo che pretendevi. E tu, con la sgangherata
Renault che partiva a colpi di tosse e rischiava d'andare in panne ogni volta che
innestavi una marcia, li trascinasti fino agli studenti increduli. Che provvedessero
loro a requisirgli il pacco, certamente una bomba, e interrogarli, scoprire chi
fossero, chi fosse il tipo coi capelli grigi, a chi appartenesse la Cadillac con la
targa CD, senza dubbio una targa falsa, buon lavoro e buonanotte. Alekos?! Ce
ne andiamo così?! Che vuol dire ce ne andiamo così? Vuol dire: tu non vuoi
sapere chi li manda, chi sono?! Io lo so già. Inoltre non mi piace veder interrogare
la gente, processare la gente, condannare la gente. Anche quando si tratta di
mascalzoni. Un nemico alla sbarra è sempre un ex nemico.
Sarebbe risultato presto che cosa intendevi. Infatti fu proprio quell'estate,
quell'incredibile estate, che emerse la straordinaria coerenza con cui cementavi le
tue apparenti incoerenze. E dimostrasti che Papadopulos, Joannidis, gli sconfitti
contro i quali la montagna, il Potere, celebrava i processi, come nemici non ti
interessavano più.
L'ho visto! Li ho visti tutti. E loro ti hanno visto? Sì, il primo a scorgermi è stato
Ladàs. Sai quello che la mattina dell'attentato mi credeva Giorgio e diceva stammi
a sentire, tenente, conosco tuo fratello Alessandro, un tipo intelligente, se fosse
qui ti darebbe un consiglio, non fare lo sciocco con Ladàs, eccetera. E
scorgendomi ha fatto un balzo, neanche lo avesse bucato una vespa. E
impallidito. Poi ha posato una mano sulle spalle di Joannidis e gli ha sussurrato
qualcosa.

Joannidis s'è girato, i suoi occhi hanno cercato i miei. Con una punta di
imbarazzo, m'è parso, e subito ha passato la notizia a Pattakos che ha schiuso le
labbra chiedendo "dov'è" ed ha aspettato un poco per voltarsi a guardarmi ma
quando s'è accorto che lo guardavo anch'io ha raddrizzato la testa di scatto come
un bambino colto a origliare. E ha informato Makarezos che s'è chinato su
Papadopulos e gliel'ha detto. Papadopulos non s'è agitato. Sedeva rigido sulla
sedia, dritto, a fissare il pavimento, un punto oltre le sue scarpe, e per qualche
minuto è rimasto così: neanche avesse inghiottito un bastone. Poi ha mosso le
pupille: impercettibilmente, senza spostare la testa di un millimetro, senza
alterare un muscolo del viso. E mi ha visto. E mi ha fatto male. Ti ha fatto male?
Sì. Quegli occhi appannati, spenti, color della cenere. Sembravano gli occhi di un
morto. E quel volto pietrificato, terreo. No, terreo no: verde. Sai il verde che ha
l'acqua di uno stagno. E quella... sì, quella dignità. Forse lo faceva per calcolo,
per dimostrare che lui si sentiva il capo e non si mischiava a nessuno, neppure ai
suoi colleghi, che trovarsi imputato nell'aula di un tribunale era una semplice
disavventura: comunque si comportava con dignità. E ho pensato: è meno
ridicolo di quanto credessi, è un uomo. Questo mi ha sorpreso perché non avevo
mai pensato a lui come a un uomo, per me era sempre stato un'automobile che
doveva saltare in aria, un'automobile con un tiranno dentro, e ho dovuto fare uno
sforzo per ritrovare la nausea che avevo provato entrando, a pensare che
differenza tra il mio processo e il suo. Io con le manette, strizzato in mezzo a due
poliziotti, infagottato dentro un'uniforme troppo larga; lui tutto elegante, coi suoi
vestiti ben stirati, le sue guance ben rasate, i suoi baffetti ben curati, la sua sedia
col cuscino. Per quando l'ho ritrovata, la nausea, non è servita a nulla perché
quell'uomo umiliato, sconfitto, due volte umiliato, due volte sconfitto in quanto io
lo guardavo, io che avevo tentato di ucciderlo, non era più un nemico. O meglio,
trattarlo da nemico non mi interessava più. E Joannidis? Eh! Joannidis resta
sempre Joannidis. Freddo, disinvolto, sicuro di se. Con quel volto chiuso,
superbo, da monaco dell'Inquisizione. Non cederà mai, Joannidis. Non si
rassegnerà mai, non si comporterà mai da uomo umiliato e sconfitto. Eh! In fondo
lo capisco Joannidis. perché certe dittature non avvengono mai per caso o per
capriccio, sono sempre il frutto della classe politica che le precede, delle sue
cecità, delle sue incapacità, delle sue irresponsabilità, delle sue bugie, delle sue
ipocrisie. E tra i rozzi che credono di poter correggere quei disastri assassinando

la libertà non ci sono soltanto i tipi come Papadopulos, ci sono anche i tipi in
buona fede come Joannidis. Violenti senza cervello, sì, perfino incapaci
d'accorgersi d'essere strumento del Potere che vogliono travolgere, sì, ma in
buona fede. Infatti pagano, dopo. Gli Averoff invece non pagano mai. Sono tappi
di sughero che tornano sempre a galla, anche se li scagli in mare con un pezzo di
piombo, e muoiono sempre di vecchiaia in un letto: col crocifisso tra le mani e la
patente di rispettabilità nel taschino. No, grazie, neanche Joannidis è più mio
nemico. Neanche Joannidis mi interessa più trattarlo da nemico.
Scrivesti anche un articolo, su questo. Ti battesti addirittura, perché Joannidis e
Papadopulos e gli altri membri della Giunta non fossero condannati a morte:
verdetto che sembrava scontato in partenza. Nella primavera del Sessantotto
anche noi della Resistenza processammo la Giunta, signori giudici. E la
condannammo a morte con una sentenza di cui io mi resi esecutore nei riguardi
di Papadopulos. Però noi giudicammo uomini nel pieno del potere, e voi giudicate
uomini che da tempo hanno perso il potere o vi hanno rinunciato
spontaneamente; noi non appartenevamo alla classe politica che aveva provocato
il golpe coi suoi errori, voi a tale classe politica appartenete ancora, a tale casta.
sicché insieme ai ventisette imputati che oggi stanno nell'aula di Koridallos
dovreste esserci anche voi, signori giudici. Voi che applicavate le loro leggi e
condannavate gli oppositori. E insieme a voi dovrebbero esserci anche i ministri, i
sottosegretari, i tirapiedi che si accodarono ai colonnelli, gli industriali che
sostennero il regime col loro denaro, gli editori e i giornalisti che lo appoggiarono
con la loro codardia. Senza contare i falsi resistenti, i falsi rivoluzionari che in
quest'aula oggi vengono a deporre come parti lese, ad accusare, a recitare la parte
di vittime, loro che non fecero mai nulla per combattere la dittatura e solo per
lungimirante furbizia non gridarono viva Papadopulos. Davvero troppe cose non
piacciono in questo processo, ne da un punto di vista formale ne da un punto di
vista morale, e per incominciare non piace che al momento di istruirlo abbiate
ignorato una realtà tanto amara quanto storica: la tirannia non cadde in seguito
alla Resistenza. Cadde da sola, soffocata dalle sue infamie, abdicò la notte in cui
Joannidis permise a Ghizikis di richiamare i politici defenestrati dal golpe. Ci va a
favore di Joannidis. Non dimentichiamo che egli aveva il controllo di gran parte
dell'esercito e ufficiali nei posti chiave dello Stato, che avrebbe potuto rifiutarsi di
rinunciare al comando oppure esigere dal nuovo governo un'amnistia per se

stesso e i membri della Giunta. Non dimentichiamo nemmeno che il ministro
della Difesa Averoff mantenne Joannidis a capo dell'Esa e poi lo mise a riposo con
onore, lasciandolo per mesi a coltivar le rose del suo giardino. Se lo stesso
Joannidis non si fosse reso colpevole di tradimento unendosi a Papadopulos, si
potrebbe dire che gli spetta ogni diritto di sentirsi tradito. Io al suo posto
chiamerei Averoff e gli chiederei: "A che gioco abbiamo giocato, Averoff? Prima mi
lasci a capo della polizia militare, poi mi metti a riposo con onore e mi lasci a
coltivare le rose, poi mi arresti e mi fai processare con accuse che prevedono la
fucilazione". Gli chiederei anche perché Ghizikis non compare al processo.
Quando la Giunta abdicò, non era lui presidente della Repubblica? Questo
processo è proprio una beffa, uno stratagemma per ridare una verginità ai vecchi
padroni. Quanto alle pene capitali che state scrivendo, che avete già scritto,
ricordiamoci questo: nei piazzali Loreto i Mussolini si appendono subito o mai
più. Se in tempo di dittatura il tirannicidio è un dovere, in tempo di democrazia il
perdono è una necessità. In tempo di democrazia la giustizia non si fa scavando
le tombe.
Volevi addirittura parlarci, con Joannidis e Papadopulos.
Dicevi che se tu fossi riuscito a penetrare la superbia del primo, rompere il
mutismo del secondo, avresti saputo dov'erano nascosti gli archivi dell'Esa e ti
saresti procurato alla svelta le prove contro Averoff. Tanto, avvicinarli non era
difficile: come gli altri imputati, non stavano in gabbia ma al centro dell'aula e
appena protetti da un cordone di guardie bonarie.
Però questo progetto non teneva conto della tua timidezza e della tua bizzarra
paura di offenderli: appena entravi e ti sentivi investito dai lampi dei fotografi, i
commenti dei giornalisti, i bisbiglii del pubblico, eccolo arriva è arrivato, ti
acquattavi dietro una colonna e non ti facevi avanti neanche quando l'udienza
veniva sospesa. Ci sei riuscito? No, domani. Ti sei deciso?. No, domani. Poi, una
mattina, stringesti i denti e ti buttasti: puntando su Papadopulos. Eri tanto
risoluto a parlarci, mi avresti raccontato, che dopo il primo passo ti sentivi quasi
calmo e potevi registrare tutto: il silenzio che era sceso di colpo, il battito del tuo
cuore, gli sguardi che ti seguivano trasecolati mentre avanzavi verso di lui. Ti
fissava anche lui, del resto, l'acqua verde dello stagno finalmente mossa da un
filo di vento, da una specie di sorriso che non capivi se esprimesse ironia o
simpatia e che comunque era un incoraggiamento, un invito. Ma, proprio mentre

lo raggiungevi e i tuoi occhi incontravano i suoi occhi, ricordi lontani eppure
precisi, una Lincoln nera che procede lungo la strada di Sunio, dentro la Lincoln
nera qualcuno che non hai mai visto, che tuttavia devi uccidere, pensieri remoti
eppure brucianti, chissà che tipo è a guardarlo in faccia, se guardi un uomo in
faccia e t'accorgi che è un uomo simile a te dimentichi cosa rappresenta e
ucciderlo diventa difficile quindi meglio illudersi di uccidere un'automobile,
questa odiosa automobile che viaggia a cento chilometri all'ora, cento chilometri
sono centomila metri, un'ora è tremilaseicento secondi, ogni secondo equivale a
ventisette metri, un decimo di secondo equivale a circa tre metri, e quanto dura
un decimo di secondo mioddio, neanche un battito di ciglia, un decimo di
secondo è il destino, kilia ena, kilia dio, kilia tria, mille uno, mille due, mille tre,
proprio mentre rivivevi questo e muovevi le labbra per dire ci che non avresti mai
creduto di poter dire, buongiorno signor Papadopulos, gradirei parlarle, dal
recinto degli invitati si levò uno strillo femminile: Papadopulos boia! Joannidis
assassino! Vermi schifosi, alla forca! E, subito, la tua risolutezza svanì.
Gli voltasti le spalle e ti allontanasti arrossendo.
perché, Alekos, perché? perché ho provato un tale imbarazzo, una tale vergogna.
Dio sa se io li insultavo, li minacciavo, li maledivo, ma a quel tempo erano loro i
padroni e io stavo in catene. Non si offende un uomo in catene. Mai. Neanche se
prima era un tiranno. Basta, io in quell'aula non ci ritorno, non ci metto più
piede. E mantenesti la promessa.
Rifiutasti perfino di assistere alla lettura della sentenza. L'ho già udito una volta il
giudice che pronuncia la condanna a morte. So cosa significa essere condannati a
morte. Ci andai io per te. E mi servì a concludere che, al solito legando i fili del
concreto con le ragnatele dell'immaginario, avevi visto cose che non esistevano o
esistevano solo nella tua fantasia.
Anzitutto nessuno rischiava d'esser fucilato: lo sapevano anche i bambini che la
condanna a morte sarebbe stata una condanna formale, che un'ora dopo
Karamanlis avrebbe concesso la grazia. Poi, lungi dall'apparire il palcoscenico di
una tragedia, l'aula di Koridallos sembrava piuttosto il foyer di un teatro
nell'intervallo che precede l'ultimo atto di un'operetta.
Gli imputati ridacchiavano vacui, si scambiavano smorfie di condiscendenza, si
distraevano perfino a lanciarmi occhiate di morbosa curiosità: lui non è venuto, è
venuta lei. Quanto a Papadopulos e Joannidis, entrambi occupati a evitarsi come

due prime donne gelose ed accese di reciproco odio, non suscitavano in me
alcuna indulgenza: nel primo non riuscivo proprio a vedere il dignitoso
personaggio che mi avevi descritto, nel secondo non riuscivo proprio a
immaginare l'onesto soldato che avevi sostanzialmente e inaspettatamente difeso.
Quel volto piatto, senz'anima, quella durezza affine a se stessa. Semmai v'era un
che di tapino, in lui, di pietosamente goffo. Sai la goffaggine dei militari che
sembrano nati con l'uniforme, la portano come una seconda pelle, e quando la
tolgono per indossare abiti civili diventano disadorni o volgari. Era volgare: con la
sua grinta da se ti voglio ti piglio, la sua giacchetta a quadrettini troppo stretta e
troppo corta sui fianchi larghi, i suoi pantaloni fissati alle caviglie con due
incredibili mollette da lavandaia. Papadopulos non era volgare, semmai aveva
l'aria di un impiegatuccio sorpreso con le mani nel sacco; Joannidis, il tremendo
Joannidis, invece lo era. Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle mollette. E a
un certo punto se ne accorse. Si alzò, incrociò le braccia sulle reni e con passo
greve, da automa, venne verso di me che sedevo isolata sotto lo scanno del
procuratore generale. Qui si fermò, petto in fuori e mento ritto, in una posa
inutilmente ostile, guerresca, e si mise a fissarmi con ghiacci occhi celesti. Lo
fissai di rimando, sostenendo la stupida gara del se tu non abbassi io non
abbasso, e questo durò un tempo interminabile. durò fin quando egli mormorò
nella sua lingua qualcosa che non compresi e abbassò le pupille e fece
dietrofront: petto in fuori, mento ritto, le braccia incrociate sulle reni.
Chissà cosa ha detto. Sorridesti strano: Io lo so. Non puoi, non c'era nessuno ad
ascoltare. Lo so lo stesso. Ah, sì? Avanti, che ha detto? Ha detto: me lo saluti. E,
convinto di ci, mi portasti a cena col consueto codazzo di fauni e di mènadi. Per
catechizzarli sull'ingiustizia di quella condanna.
Parole buttate al vento. Non ti capiva nessuno, naturalmente.
Non l'approvava nessuno la tua presa di posizione nei riguardi degli uomini che
prima volevi uccidere e ora trattavi con tanta misericordia. Si diverte a fare il
bastian contrario, dicevano, non lo sa neanche lui cosa vuole. E spesso anch'io la
pensavo così quell'estate: mai come quell'estate avevo avvertito il dramma di
accompagnare nel deserto un uomo la cui essenza ci sfugge perché è troppi
uomini insieme, e tutti discontinui, tutti avviluppati in contraddizioni non
riducibili alla duplicità dell'eroe con un occhio buono e un occhio cattivo, un volto
di fanciullo e un volto di vecchio, una mente abbarbicata al passato e una

proiettata verso il futuro. Al solito, soltanto dopo la tua morte, ricostruendo il
mosaico del tuo personaggio, avrei compreso che ogni gesto giudicato incongruo
da me o dagli altri aveva una sua ragion d'essere. Rientrava cioè in una linea di
condotta molto precisa. Il tuo atteggiamento nei riguardi del processo contro
Teofilojannacos, Hazizikis, il gruppo dei seviziatori, ad esempio.
Non disapprovavi questo processo, lo distinguevi nettamente da quello contro
Papadopulos e Joannidis e i membri della Giunta, e non solo perché si basava su
colpe incontestabili ma perché serviva da monito ai paesi che praticavano la
tortura. Eppure eri stato convocato tre volte a deporre e tre volte eri ricorso a
pretesti per non presentarti. .Ho la febbre, ho un impegno, mi trovo in Italia. Ma
sei il teste più importante, Alekos, il più atteso! Lo so. Quando ci vai, dunque?
Non lo so. Poi, all'improvviso, una telefonata: Vieni? Domani ci vado. A farti
decidere era stata la voce che, per ridurre al massimo la pubblicità intorno alla
tua persona e alla tua testimonianza, il giorno in cui ti saresti presentato il
presidente avrebbe proibito l'accesso in aula ai fotografi e agli operatori della Tv.
Incredibile! Chi può avergli chiesto di fare una cosa simile, Alekos? Lui. Lui
chi?.Averoff, no? Si tratta di un tribunale militare, e i tribunali militari dipendono
dal ministro della Difesa. E cosa farai per impedirlo?Nulla. Mi serve così.
Mi chiedevo in che senso potesse servirti, ora che esaminavo lo scenario nel quale
avresti fatto il tuo ingresso. Uno scenario abbastanza misero, in fondo.
Contrariamente all'aula di Koridallos, molto vasta e teatrale, questa mancava di
qualsiasi atmosfera: era una stanzuccia lunga e stretta, divisa in mezzo da una
corsia che conduceva al microfono dei testimoni e agli scanni dei giudici. A
sinistra della corsia, entrando, il pubblico e i giornalisti. A destra, gli avvocati e gli
imputati.
Nella prima fila degli imputati, Teofilojannacos: riconoscibile per la corporatura
massiccia e il visaccio butterato, scimmiesco. Nella seconda, Hazizikis: col suo
completo blu e la sua cravatta blu, la sua camicia immacolata, e il volto
seminascosto dagli occhiali neri. Nella terza, il medico che presiedeva alle torture
perché la vittima non morisse: un tipo equivoco, secco, dalla boccuccia viziosa e
le pupille tremule come ali di farfalla. Accanto a ciascuno di loro, gli altri: una
trentina circa. Volti anonimi, innocui; espressioni qualsiasi. Di rado i cattivi
hanno un'aria cattiva. Del resto neanche Hazizikis a mio giudizio l'aveva. Neanche
Teofilojannacos. Semmai un goccio di perfidia si intuiva nell'avvocatessa sua

moglie: una bella bionda dai lineamenti dispettosi e il sorriso sarcastico. E tutto
ci sdrammatizzava il processo dove il presidente, un omino calvo e ringhioso,
affogato dentro una gran toga nera, conduceva stancamente l'udienza. Ma poi fu
chiamato il tuo nome, lungo la corsia rintronarono i passi di te che avanzavi, e
Teofilojannacos torn ad essere Teofilojannacos, Hazizikis tornò ad essere
Hazizikis, l'aula si allargò, la noia divenne elettricità. Non avanzavi nemmeno,
infatti, incedevi. E con una flemma così voluta, inquietante, una superbia così
maestosa, provocatoria, che la flemma e la superbia della notte in cui avevi
affrontato i tre fascisti della Cadillac nera sembravano in paragone sveltezza e
bonarietà. Uno, due. Uno, due. Uno, due. Però ciò che impressionava di più non
era il ritmo dell'andatura. Era il modo in cui accompagnavi quel ritmo col resto
del corpo e soprattutto col braccio destro che si alzava e si abbassava in perfetta
sincronia con la gamba sinistra: quasi che tu marciassi sul tempo cadenzato da
un pendolo. Tic, toc. Tic, toc. Tic, toc.
L'altro braccio era invece piegato ad angolo retto sul cuore dove la mano stringeva
la pipa. Quanto agli occhi, fermissimi, puntavano il presidente come una preda:
ignorando di proposito Hazizikis e Teofilojannacos, quasi che tu non li avessi mai
conosciuti. Raggiungesti il microfono. Infilasti la mano destra nella tasca della
giacchetta. Portasti la pipa spenta alla bocca e: Devo chiedere a questo
tribunale... Vidi le immobili maschere dei giudici in uniforme ravvivarsi nello
stupore e il visuccio del presidente sbiancare: Lei non chiede nulla! E il tribunale
che chiede! Dica soltanto quando e dove è stato detenuto! Fatti e non giudizi,
inteso? Un lampo. Ecco perché il veto posto ai fotografi e agli operatori della Tv ti
serviva; ecco perché, appena t'era giunta la notizia di quel veto, avevi accettato di
andare a deporre; ecco perché eri entrato a quel modo, senza degnar d'uno
sguardo Teofilojannacos o Hazizikis: per attaccar rissa e dire ad alta voce ci che
avresti voluto dire nell'aula di Koridallos, e cioè che i veri imputati ormai non
erano i mascalzoni sotto giudizio bensì coloro che li processavano per la propria
convenienza. Be', allora non restava che trattenere il fiato e aspettare lo scoppio.
Togliesti la pipa di bocca. La levasti a mo' di lancia: Sono stato detenuto dal 13
agosto 1968 al 21 agosto 1973, signor presidente, e parlerò di fatti precisi. Solo
fatti, signor presidente, e fatti che del resto sono già a conoscenza di cotesta Corte
perché io non ho avuto bisogno che cambiasse il regime per accusare gli imputati
in questa aula: per risparmiare tempo lei non avrebbe che leggere le mie denunce

di sette anni fa, ovviamente ignorate dalla magistratura al servizio di
Papadopulos. Tali denunce si trovano nel fascicolo che sta sotto il suo naso. Ma
pongo una condizione per ripetere quei fatti: che lei si rivolga a me con civiltà,
usando il mio nome e cognome, chiamandomi signore anzi signor deputato, e
spiegando perché ha proibito ai fotografi e agli operatori della Tv di assistere alla
mia testimonianza. E il suo ministro della Difesa Evanghelis Averoff che glielo ha
imposto? Testimoneee! Incurante dell'urlo, la pipa colpì l'aria due volte: Ripeto la
domanda, signor presidente. E il suo ministro della Difesa Evanghelis Averoff che
glielo ha imposto? Testimoneee! Sono io che pongo le domandeee! E io vi
risponderò purché lei si giustifichi. Testimone! Lei dimentica dov'è! Non lo
dimentico.
Sono in un tribunale militare per deporre sulle colpe di uomini che ho
combattuto per sette anni mentre i magistrati come lei li servivano. Sono in
un'aula dove si processano torturatori le cui vittime lei condannava applicando le
leggi della dittatura. Un'aula dove vengo trattato con minor rispetto di quello che
mi era riservato dai magistrati di Papadopulos. Taci! Lei mi sta dando
nuovamente del tu, signor presidente. Taci!. Lei continua a darmi del tu, come i
magistrati di Papadopulos.
E se tu mi dai del tu, piccolo averofaki, anch'io ti darò del tu: come ai magistrati
di Papadopulos. I giudici in uniforme ascoltavano sempre più stupefatti,
raggricciando a ogni frase.
Gli imputati apparivano addirittura impietriti, e così i loro legali. I giornalisti
scrivevano, scrivevano, travolti dall'eccitazione, e io mi chiedevo quando sarebbe
venuta una tregua. Ma la tregua non veniva. In un sovrapporsi di voci, roboante
la tua, stridula quella del presidente, in un incrociarsi di urla, latrare di cani,
l'alterco continuava. La battaglia che avevi programmato ed atteso. Testimone!
Voglio udire ciò che è avvenuto dopo il tuo arresto! Quello e nient'altro! Non
prima che tu abbia spiegato, averofaki, perché hai proibito l'accesso ai fotografi e
alla Tv. Non prima che tu abbia cessato di darmi del tu! Io non mi chiamo
Averofaki! Cosa significa Averofaki? Lo sai benissimo, averofaki! Significa servo di
Averoff! Qui si insulta la Corte. Silenzio! Silenzio a me, averofaki? Non mi hanno
ridotto al silenzio con le loro torture, il loro plotone di esecuzione, e tu vorresti
mettermi la museruola? Tu?!? Io non ti metto la museruola, io ti interrogo

secondo la procedura! La procedura prevede l'uso del lei e non del tu, averofaki. I
fatti! Voglio i fatti! Rileggili nel fascicolo, averofaki!.
Cedette. Forse perché non poteva arrestarti senza il consenso del Parlamento o
perché lo scandalo gli sarebbe stato dannoso, forse perché incominciava ad
essere stanco e a rendersi conto che non ce l'avrebbe mai fatta, alla fine cedette.
E si rannicchiò nel suo seggio e tornando a darti del lei supplicò: Via si calmi,
signor Panagulis, la prego. Non se la prenda così, abbia la compiacenza di dirmi
ciò che le ho chiesto. Per cortesia. E tu accettasti la resa, rinunciasti a fargli
confessare perché aveva proibito l'accesso ai fotografi e alla Tv, tanto ciò che
volevi dire era detto, e abbassata la pipa, tolta la mano di tasca, ti mettesti a
elencare le sofferenze subite fra il 13 agosto 1968 e il 21 agosto 1973. Ma in tono
spento, annoiato, quasi tu recitassi una parte di cui non vedevi la necessità, e in
meno di trenta minuti. Altri avevano parlato cinque ore, sei, illustrando
particolari, indulgendo a minuzie, inutilità; tu invece condensasti in meno di
trenta minuti il calvario di milleottocentotrentadue giorni e
milleottocentotrentadue notti quando la speranza di parlare come ora parlavi,
accusare in un tribunale coloro che ti stavano oggi alle spalle, era l'unica cosa in
grado di tenerti vivo. Sprecasti in meno di trenta minuti l'occasione agognata, e
non dicesti quasi nulla di ci che dicevi a me appena il ricordo accendeva la
febbre, e la febbre portava il delirio, con la testa in fiamme e le gambe gelate
piangevi nelle mie braccia finché il mio volto diventava il volto di Teofilojannacos
o di Hazizikis o del medico che presiedeva alle torture, e se ti pregavo càlmati
sono io, guardami sono io, mi respingevi gridando basta no basta, assassino,
assassini, aiuto. Perfino alle sevizie più raccapriccianti alludesti con indifferenza
e minimizzando, neanche appartenessero a un passato talmente remoto che in te
se n'era persa ogni traccia, e Teofilojannacos e Hazizikis e gli altri dietro di te,
seduti a pochi metri da te, fossero lontani milioni e milioni di miglia: annullati
nello spazio e nel tempo. Nomi, cognomi, date, informazioni secche e basta. Colpi
di frusta, di bastone, di pugnale, bruciature di sigarette sui genitali e per tutto il
corpo, falanga, soffocamenti con la coperta e senza coperta, torture sessuali. Sui
due vocaboli torture sessuali ti chetasti. Prego, continui ti incitò il presidente con
voce nuova, quasi affettuosa. No, basta così.. Basta così?! Sissignore, non ho
altro da aggiungere.

Cadde un silenzio incredulo. Dai giudici agli imputati, dagli avvocati ai giornalisti,
tutti sembravano cristallizzati dalla sorpresa. Si può forse aspettar un bicchier
d'acqua per secoli e poi rifiutarlo? Forse ha dimenticato qualcosa suggerì il
presidente. Io non dimentico mai. Per ora basta così, ripeto. E cadde di nuovo il
silenzio. Qualcuno desidera porre domande al signor testimone? balbettò il
presidente. Dopo un'attesa interminabile, l'invito venne raccolto soltanto da un
imputato con l'uniforme di capitano: Vorrei che il signor Panagulis dicesse
com'ero io durante gli interrogatori. Forse sperava che tu lo escludessi da qualche
responsabilità, forse s'era comportato davvero meglio degli altri e si meritava un
po di indulgenza. Ma non lo accontentasti e, girando appena la testa, scavalcando
con gli occhi Teofilojannacos e Hazizikis, rispondesti sibillino: Come ora. Per la
terza volta ricadde il silenzio. Nessun altro desidera porre domande al signor
testimone? ripete il presidente. E fu allora che Teofilojannacos si mosse.
Faticosamente, quasi gli costasse uno sforzo inenarrabile, si alzò appoggiandosi
con le mani alla spalliera della panca su cui sedeva la moglie in toga. Sembrava
molto alto, in piedi, molto forte: ampie spalle da pugile e collo tozzo, taurino, da
sollevatore di pesi. Eppure v'era qualcosa di fragile in lui, qualcosa di doloroso, o
di rassegnato, che anche a non volerlo suscitava una grande pietà. La stessa che
si prova dinanzi a un elefante morto, a un rinoceronte abbattuto. Alekos....
Sempre aggrappato alla spalliera e sfiorando la toga della moglie che gli
sussurrava stizzosa non so che, posò gli occhi lucidi sulla tua schiena, si schiarì
la gola, e con voce rauca, intrisa di tristezza, ripete il tuo nome: Alekos... Più che
un nome, una preghiera. Un invito straziante a voltarti, regalargli almeno una
brevissima occhiata. Alekos... Rimanesti immobile, sordo. Devo fare una
dichiarazione, Alekos. Le dichiarazioni si fanno alla Corte e non ai testimoni
ammonì il presidente. Teofilojannacos chinò il capo senza staccare lo sguardo da
te che, lo sapevo, te lo sentivi pesare sulla schiena con la pesantezza d'un
coperchio di piombo. Ma non ti giravi e non ti saresti girato. Avanti, qual è la sua
dichiarazione? proseguì il presidente. Teofilojannacos tirò un lungo respiro.
Questa, signori. Alekos... l'onorevole Panagulis non ha raccontato tutto ciò che
avrebbe potuto raccontare. E ciò che ha raccontato è vero. Io lo prego di credere
che mi dispiace, ci dispiace averlo trattato come lo trattammo. Lo prego di credere
che lo rispetto tanto, che l'ho sempre rispettato, che anche allora lo rispettavo, lo
rispettavamo tanto. perché... Qui la sua voce si ruppe, per riprendersi

immediatamente per forte e sicura. perché, signori, egli è l'unico che ci abbia
tenuto testa! L'unico che non si sia piegato mai! Non muovesti un muscolo del
volto, del corpo. Non battesti ciglio, non desti il minimo segno d'aver udito. In tale
atteggiamento aspettasti che la Corte ti congedasse e quando venne il momento di
andartene, ripercorrere la corsia, ti girasti dalla parte contraria a quella di
Teofilojannacos, in modo da continuare a offrirgli le spalle o mostrargli solo il
profilo.
Poi con la stessa flemma di prima, la stessa cadenza, il braccio sinistro piegato ad
angolo retto sul cuore dove la mano stringeva la pipa, il braccio destro che
oscillava a pendolo per accompagnare il tuo passo, e la testa ferma, le pupille
fisse, lasciasti l'aula. Uno, due. Uno, due. Uno, due.
E Zakarakis? Ora che la Montagna aveva accertato l'utilità della farsa, i processi
si succedevano a catena. Concluso uno se ne apriva un altro che era l'estensione
o la ripetizione del primo, del secondo, del terzo, quindi anche coloro che all'inizio
erano stati ignorati perché non abbastanza importanti approdavano alle panche
degli imputati. Venne perciò il turno di Zakarakis, e con lui credevo che ti saresti
comportato diversamente. Possibile che tu avessi dimenticato la sghignazzata
della notte in cui t'aveva sorpreso con metà corpo fuori e metà corpo dentro il
buco del muro? Possibile che tu avessi dimenticato il sorriso con cui t'aveva
mostrato la tomba col cipressino, il sequestro delle scarpe, della penna, della
carta, i pestaggi, la camicia di forza? Possibile. Ti bastò rivedere il suo faccione
ottuso, i suoi occhietti porcini, per ricordare piuttosto la promessa fattagli
quando aveva scoperto che X non stava per Xania, Y non stava per Yemen, Z non
stava per Zurigo, e t'aveva portato le biro rosse e blu per risolvere il problema di
fermòat: Ascolta, Zakarakis. Sei un incredibile stronzo ma non ne hai colpa. E
quando sarai sul banco degli imputati, quando verrò a testimoniare contro di te,
dir proprio questo. Che eri un incredibile stronzo ma non ne avevi colpa. Infatti,
più che una testimonianza, la tua fu un'arringa di difesa. Sì, ciò che ho sofferto a
Boiati lo devo a Zakarakis. Era lui che mi teneva ammanettato per settimane, che
mi picchiava e ordinava di picchiarmi, che mi toglieva i libri e i giornali e le penne
e la carta da scrivere, che mi insultava e mi perseguitava con dispetti crudeli. Ma
neppure io abbondavo in tenerezze. Ai suoi insulti rispondevo con ingiurie, ai suoi
dispetti con provocazioni. Una volta ordinò di raparmi a zero e io gli dissi: O tutto
o nulla, Zakarakis. Non puoi depilarmi la testa senza depilarmi sotto le ascelle e

intorno ai coglioni. Se non mi depili anche sotto le ascelle e intorno ai coglioni,
ripeto lo sciopero della fame". Era ossessionato dai miei scioperi della fame, si
piegò al ricatto. Mandò un soldato a depilarmi sotto le ascelle e intorno ai
coglioni. Lo rifiutai: No, la saponata deve farmela Zakarakis che è frocio e ci prova
gusto. Gli davo sempre di frocio, o di scemo. "Sei così scemo, Zakarakis, che
quando sarai morto il tuo cranio servirà da sputacchiera agli allievi delle scuole
militari." Quindi non è il caso di infierire, signori giudici, tanto più che gli
Zakarakis si trovano in tutti i regimi, sono carogne che non contano nulla. Sono
tipi che se gli dicono di gridare viva Papadopulos gridano viva Papadopulos, viva
Joannidis e gridano viva Joannidis, viva il re e gridano viva il re. Se
Teofilojannacos avesse fatto un colpo di stato, lui avrebbe gridato anche viva
Teofilojannacos. La gente come lui è lana del gregge che bela e va dove vuole il
padrone di turno.
Gente che ubbidisce e basta, a suo agio soltanto sotto il tallone di un'autorità. Le
strade ne abbondano, le piazze dove si fanno i comizi. Povero Zakarakis. Se fossi
al vostro posto, io gli infliggerei soltanto una settimana di reclusione nella mia
cella, affinché sappia cosa si prova lì dentro. Non ascoltatelo! strillava Zakarakis
disperatamente. Io non sono scemo, io non sono un fesso che non conta nulla!
Sono il direttore, ero il direttore, il capo! Il capo! Io mi assumo le mie
responsabilità, voglio essere giudicato per le mie responsabilità! Ma, grazie alla
tua arringa, se ne andò assolto. E va da se che ormai ti comportavi a quel modo
con tutti. All'improvviso sembrava che tu non credessi più alle cose in cui avevi
sempre creduto, ai principi che erano sempre stati alla base della tua morale
politica: il culto dell'individuo, il rifiuto di assolvere chi fabbrica la pallottola
dell'M16 perché così vuole l'industriale e poi la spara perché così vuole il
generale, il disprezzo per chiunque si ripari dietro il ritornello io eseguo gli ordini.
Lo regalavi in qualsiasi testimonianza quel ritornello. E vero che il caporale Tal
dei Tali partecipò alle mie torture, ma eseguiva gli ordini. E a Egina, mentre
aspettavo d'esser fucilato, si buttò in ginocchio, mi chiese perdono. E vero che il
sergente Tal dei Tali mi bastonò a morte, ma eseguiva gli ordini. E a Boiati
portava messaggi a mia madre, metteva in salvo le mie poesie. Alla fine lo
regalasti addirittura a Teofilojannacos. Con le conseguenze che ne derivarono.
Si discuteva la sua causa d'appello e stavolta il presidente era un brav'uomo, per
niente succube del drago. Non aveva posto alcun veto ai fotografi, agli operatori

della Tv, e ti trattava con rispetto addirittura ossequioso: senza rivolgerti il monito
fatti non opinioni, senza biasimarti perché fornivi più opinioni che fatti, e inoltre
rivolgendosi a te con l'appellativo signor deputato. Dica pure, signor deputato.
Dico, caro presidente, che bisogna separare le colpe dei soldati dalle colpe degli
ufficiali. Dico che i soldati vanno assolti perché non possono rifiutarsi di eseguire
gli ordini. Del resto neanche gli ufficiali possono rifiutarsi di eseguire gli ordini.
Lei rifiutava forse di condannare i resistenti quando serviva la Giunta e faceva
parte di una Corte marziale? Frase ingiusta, insulto gratuito. E te lo rimproverò
con gran dignità: Lei sbaglia, signor deputato. Io non ho mai servito la Giunta,
non ho mai fatto parte di nessuna Corte marziale, non ho mai condannato
nessun resistente. Ah, no? E allora perché ti hanno dato i gradi di generale,
averofaki? Un attimo di confusione, poi un bercio: Bravo Alekos! Congratulazioni,
Alekos! Era stato Teofilojannacos a berciare. Infatti non aveva l'aria di un
rinoceronte abbattuto quel giorno. Gonfio di protervia, carico di iniziativa, si
beveva le tue parole come un nettare degli dei e, quando fosti congedato, si lanci
verso di te. Posso presentarti mia moglie, Alekos? Con un sorriso più che mai
sarcastico sulle labbra dipinte, la bionda ti sbarrava il passaggio e ti porgeva la
mano destra. Un attimo di esitazione, poi la raccogliesti: Piacere. E, prima che tu
potessi realizzare ci che stava succedendo, al posto delle morbide dita di lei
c'erano quelle duròe di Teofilojannacos: Caro Alekos, permetti che anch'io ti
stringa la mano.
.E tu gliel'hai stretta! Gliel'ho stretta. Gli ho risposto: be', non è la prima volta che
tocco la merda. E poi gliel'ho stretta.
Oh, no! Oh, sì. Ci siamo anche abbracciati. O meglio, mi ha abbracciato lui. Me
l'hai ripetuta tante volte questa parola, ha detto, che ormai ci ho fatto il callo. E
poi mi ha abbracciato.
Oh, no! Oh, sì. Ma che bisogno c'era... Io non ti capisco, Alekos. Non ti capisco
più. perché non capisci gli uomini in lotta. Rileggi Sartre. Che c'entra Sartre?! Le
mani sporche.
Ultimo atto, quinto quadro, scena terza. L'ho imparata a memoria: "Come tieni
alla tua purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le mani! Ebbene, resta
puro! A cosa servirà? E perché vieni da noi? La purezza è un'idea da fachiri, da
monaci. Voialtri intellettuali, anarchici borghesi, vi trovate la scusa per non fare
nulla. Non fare nulla, restare immobili, stringere i gomiti al corpo, portare i

guanti. Io le mani le ho sporche fino ai gomiti. Le ho affondate nella merda e nel
sangue".Ma le tue mani sono sempre state pulite, Alekos, sempre! Infatti ho
sempre perduto. Alekos, cosa stai combinando? Niente che non abbia già deciso
molto tempo fa. Sebbene ora guardi e basta, ascolti e basta. Eh! Si dicono cose
interessanti in questi processi, vi accadono cose interessanti. E un lampo passò
nel tuo occhio cattivo. Ma non ci fu bisogno di chiedersi perché.
Era così evidente. Come un uragano che s'annuncia con l'illividirsi del cielo, il
mugghiare soffocato del vento, e dopo un lungo covare s'abbatte sull'immobilità
delle cose allagando, schiantando rami, sradicando alberi, scoperchiando tetti
così ti preparavi a scatenarti: condensare i tuoi mille volti in un volto solo. Il volto
di Satana che deluso da Dio si ribella alla sua dittatura e nell'illusione di vincere
sceglie di diventare un demonio. L'infernale corrida con la Cadillac nera, il tuo
difendere Papadopulos, il tuo giustificare Joannidis, il tuo assolvere Zakarakis, la
tua stretta di mano a Teofilojannacos, non erano stati che un preludio. Un
illividirsi del cielo, un mugghiare soffocato del vento.
Parte quinta
CAPITOLO I
Tutte le bandiere, anche le più nobili, le più pure, sono sozze di sangue e di
merda. Quando guardi i vessilli gloriosi, esposti nei musei, nelle chiese, venerati
come cimeli dinanzi a cui inginocchiarsi in nome degli ideali, dei sogni, non farti
illusioni: quelle macchie brunastre non sono tracce di ruggine, sono residui di
sangue, residui di merda, e più spesso merda che sangue. La merda dei vinti, la
merda dei vincitori, la merda dei buoni, la merda dei cattivi, la merda degli eroi,
la merda dell'uomo che è fatto di sangue e di merda. Dove c'è l'uno purtroppo c'è
l'altra, l'uno ha bisogno dell'altra. Naturalmente molto dipende dalla misura del
sangue versato, della merda schizzata: se il primo supera la seconda, si cantano
inni e si innalzano monumenti; se la seconda supera il primo si grida allo
scandalo e si celebrano riti propiziatori. Ma stabilire la proporzione è impossibile,
visto che il sangue e la merda col tempo assumono un uguale colore. E poi, in
apparenza, la maggior parte delle bandiere sono pulitissime: per conoscere la
verità dovremmo interrogare i morti ammazzati in nome degli ideali, dei sogni,
della pace, le creature ingiuriate, oltraggiate, imbrogliate col pretesto di rendere il
mondo più bello, su tali testimonianze comporre una statistica delle infamie, delle

barbarie, delle sporcizie vendute come virtù, clemenza, purezza. Non esiste
impresa, nella storia dell'uomo, che non sia costata un prezzo di sangue e di
merda. Alla guerra, sia che tu combatta dalla parte cosiddetta giusta (giusta per
chi?) sia che tu combatta dalla parte cosiddetta sbagliata (sbagliata per chi?) non
spari garofani. Spari pallottole, bombe, e uccidi innocenti. In pace è lo stesso,
ogni gran gesto miete vittime senza pietà, e guai agli eroi in lotta coi draghi, guai
ai poeti in lotta coi mulini a vento: sono i carnefici peggiori perché, votati al
sacrificio, destinati al supplizio, non esitano a imporre il sacrificio e il supplizio
sugli altri; quasi che un albero sradicato sia meno sradicato, un tetto
scoperchiato sia meno scoperchiato, un cuore rotto sia meno rotto perché lo
scopo è buono e il risultato positivo. Ecco ci che dimenticai quando,
materializzando timori assopiti dall'attesa o dalla speranza, l'uragano scoppi. E
incapace di cogliere il vero motivo che mi sconvolgeva, il motivo che avrei capito
dopo la tua morte, mi ritrassi inorridita da te.
Incombeva l'autunno, ed ero tornata ad Atene senza entusiasmo: attratta da una
lettera, non da un desiderio. I traumi dell'ultimo viaggio mi pesavano addosso
come un cibo indigesto, il nodo di eccessi e di equivoci cui avevo assistito mi
tormentava con mille dubbi, e qualcosa s'era rotto in me.
Troppo spesso in quei quattordici mesi di vita insieme m'ero stancata di
camminare nel tuo deserto, alleviare la tua solitudine senza diminuire la mia;
troppo spesso il personaggio che amavo s'era sbriciolato in altri personaggi,
magari per ricomporsi in un individuo inspiegabile e irriconoscibile. Non scrivevi
più poesie, sfogliavi i libri invece di leggerli, te la cavavi con facili slogan invece di
affrontare le discussioni, non ti curavi più del Parlamento cui alludevi in tono
distratto o ironico: niente ormai ti interessava fuorché la tua promessa e il tuo
drago. Non parlavi che di lui, delle prove da raccogliere contro di lui, ignorando
qualsiasi altro problema, qualsiasi altra realtà, e se cambiavo discorso, se dicevo
insomma, Averoff non è al centro dell'universo, i documenti dell'Esa non possono
essere il tuo unico interesse, il tuo unico impegno, te ne impermalivi: Non capisci,
non vuoi capire! Quasi che non bastasse, continuavano quelle notti torpide:
termometro d'ogni tuo scontento, d'ogni tua disperazione. Non più chiuso dentro
le chiassose frontiere dei buzuki, il cerchio delle mènadi intorno a Dioniso s'era
allargato ed ora includeva creature miserande con cui sembrava che tu provassi
un piacere perverso ad avvilirti. Generalmente si trattava di quel che chiamavi un

tuffo e via, orologio alla mano per misurarne la sveltezza, ma a volte il tuffo si
complicava per succhiarti in situazioni odiose, ragnatele da cui non sapevi
liberarti, e tutto ci ti diminuiva ai miei occhi, mi toglieva addirittura il desiderio di
stare con te. Quando vieni? Non so. Allora vengo io. No, aspetta. Devo andare a
Londra, a Parigi, a New York. Era come se starti lontano mi aiutasse a superare
la crisi, proteggere un amore che vacillava. A distanza potevo infatti guardarti col
filtro della memoria, scartare difetti e miserie, ritrovare il personaggio che
ammiravo e che, mi ripetevo delusa, andava disfacendosi. All'inizio non te n'eri
reso conto e, sbandierando arcaici orgogli di maschio, t'eri messo ad accusarmi di
inganni per me inconcepibili; dopo la stretta di mano a Teofilojannacos, e la
polemica sulle mani sporche però, avevi compreso che non un rivale mi induceva
a evitarti bensì una stanchezza e, con l'istinto dell'animale in pericolo, mi avevi
inviato una lettera irresistibile: firmata Unamuno e composta esclusivamente da
frasi di Unamuno. Se tanto lo sfuggo, credimi, è perché lo amo. Fuggo da lui
eppure lo cerco. Quando mi è vicino e vedo i suoi occhi e ascolto la sua voce
vorrei accecarlo, renderlo muto, ma appena mi separo da lui vedo apparire due
fiammelle tremanti che brillano quanto stelle perdute nel fondo della notte. Sono i
suoi occhi, le sue parole purificate dall'assenza. La sua anima è tanto più vicina a
me quanto più lontano è il suo corpo. Post scriptum: quando vieni? Avevo ceduto.
Ero corsa, per accompagnata da un presentimento di male che incontrandoti
all'aeroporto di Atene non era diminuito, semmai era aumentato come una febbre
di cui non si indovina la causa. Ed ora, giacevamo allacciati sul letto, da qualche
minuto mi guardavi con l'aria di voler dire qualcosa, sentivo che la causa stava
per rivelarsi attraverso parole che avrei preferito non ascoltare.
Incominci così: Quello scorpione. Non era un uomo, lui, era uno scorpione. Non
gliela stringerei la mano a lui, no, neanche se servisse a portare il paradiso in
terra. C'è un limite a tutto, anche alle mani sporche, e poi come si fa a stringer la
mano di uno scorpione? Uno scorpione non ha le mani, ha le pinze!. Ma di chi
parli? Di Hazizikis, parlo. Del signor maggiore Nicola Hazizikis. Teofilojannacos
era un angioletto al confronto. perché con Teofilojannacos potevo difendermi, o
lamentarmi, urlare, svenire, Teofilojannacos mi picchiava e basta, mi seviziava il
corpo e basta. Quello scorpione invece! Allungava l'aculeo, me lo ficvcavòa
nell'anima, e zac! Mi iniettava il veleno. Alekos! perché ripensi a queste cose,
Alekos?. E quel beffarsi di me dopo che m'avevano condannato a morte.

Buongiorno, Socrate. O devo chiamarti Demostene? No, il paragone con Socrate
mi sembra più giusto! Mi venne voglia di piangere. E più dicevo a me stesso non
devi piangere, davanti a lui no, più le lacrime mi crescevano negli occhi.
Alekos! Che c'entra, ora, Alekos? E a un certo punto non riuscii più a trattenerle.
E fu una cosa terribile: piangere come un bambino davanti a uno scorpione. Fu
terribile anche perché lui raddoppi l'ironia: chi l'avrebbe detto che tu sapessi
piangere, e cose del genere. Persi la testa. Gli gridai: non morirò, Hazizikis, e un
giorno farò piangere te, perché un giorno finirai in prigione, e mentre sarai in
prigione ti scoperò la moglie, Hazizikis, te la scoperò e te la riscoperò fino a farle
urinare sangue, farle perdere le budella, e tu non potrai farci niente, Hazizikis,
niente fuorché piangere come ora piango io. Alekos, ti prego! E lui si mise a
ridere. Mi rispose che non era sposato. Alekos, vuoi dirmi perché di punto in
bianco ripensi a queste cose? In tutti quei mesi non avevi mai parlato di
Hazizikis. Mai. perché... Ricordi quando ti dissi che ai processi accadevano cose
interessanti? Sì. Ecco, io lo avevo capito che la chiave era lì. I suoi avvocati si
comportavano con troppa insolenza. Sempre a minacciare rivelazioni, a sventolare
fogli che poi non esibivano, non accludevano agli atti. Così feci una piccola
inchiesta e venni a sapere che in carcere egli era trattato con particolare riguardo.
Radio, televisione, visite di parenti e di amici, compreso un certo Kuntas che
lavora per un miliardario che finanzia i fascisti. E ciascuno di loro entrava con
pacchi di fotocopie che il signor maggiore studiava, studiava... Erano le fotocopie
degli archivi dell'Esa. Sono i documenti che voglio. Ah! E glieli prenderò. Sai dove
li custodisce? No, però so chi li custodisce. Chi? Sua moglie.
Dicevi che non era sposato. Non lo era, oggi lo è. Sposato e innamorato. Una bella
ragazza, sembra. Molto più giovane di lui. La figlia di un resistente, figurati. Si
conobbero quando il padre di lei era in prigione, si sposarono tre o quattro anni
fa.
La conosci? No, mai vista. E allora?. Allora semplice: la conoscerò. E se lei non
volesse conoscerti? Lo vorrà, lo vorrà. Se non volesse dirti dove tiene i documenti?
Me lo dirà, me lo dirà. Manca una battuta alla terza scena del quinto quadro
dell'ultimo atto della commedia di Sartre: nella merda e nel sangue il cazzo si
affonda meglio che le mani. Alekos! Il che, tradotto in termini puliti, significa:
niente è indegno quando il fine è degno. Alekos! Proprio ci che intende il
personaggio di Sartre. Alekos! Uhm. Mi aspetta un bel lavoro, sì. Ti dirò, c'è una

sola cosa che mi preoccupa in questo lavoro: non avere un mezzo per muovermi
in caso di bisogno, dover sempre ricorrere ai taxi o alle automobili prese a
prestito. Neanche il tuo don Chisciotte andava a piedi. Quindi mi serve un
cavallo, voglio dire un'automobile. Mi regali un'automobile? L'aeroporto era quasi
vuoto. La maggior parte dei voli erano stati cancellati per uno sciopero che durava
dal giorno prima e nella sala d'imbarco aspettavano solo tre arabi ammantati
nelle tuniche bianche, cinque o sei occidentali irritati e due monache col rosario
in mano. Al banco di accettazione gli impiegati avevano tentato di scoraggiarmi
dicendo che avevo pochissime probabilità di partire, meglio rinviare a domani, ma
io avevo insistito sulla necessità di giungere a Roma in serata e mi avevano
consigliato un volo che avrebbe fatto scalo ad Atene proveniente dall'Asia, chissà
a che ora perché portava molto ritardo. Non importa, avevo risposto, e passato il
controllo della polizia ero scesa nella sala d'imbarco. M'ero rifugiata nel bar dove
un americano aveva tentato invano di attaccare discorso. Anch'io in attesa del
jumbo da Bangkok? Yes. Che noia, vero? Yes. Mi disturbava parlarne? Yes. Avevo
bisogno di stare sola, meditare indisturbata su ci che era successo dal momento
in cui avevi detto: Mi regali un'automobile?. Non era successo nulla che potesse
farti intuire quale terremoto avevi scatenato in me. Senza rispondere ero rimasta
a fissare una macchia sul soffitto, una gora d'umido che presto era diventata un
imbratto di sperma bavoso, e per qualche minuto non ero stata capace che di
pensare: sembra un imbratto di sperma bavoso. perché anche quello, ho
dimenticato di dire, c'è sulle bandiere lorde di sangue e di merda, sui vessilli
gloriosi ed esposti nei musei, nelle chiese: lo sperma degli eroi che lottano per la
libertà, per la verità, per l'umanità, la giustizia. In nome di quei bei sogni, di
quelle belle parole, t'abbassi i pantaloni e giù sperma. Sai quante creature sono
state offese, ferite, uccise così? C'è chi ha scritto la storia così.
Poi m'ero alzata di scatto, evitando il tuo sguardo che mi interrogava perplesso,
m'ero messa a parlare di cose che non avevano nulla a che fare con le automobili
e gli archivi dell'Esa, ero uscita con un pretesto. Per un paio d'ore avevo vagato a
caso per la città cercando di calmarmi, persuadermi che tale reazione era
eccessiva, inadatta a una donna evoluta: lo avevamo pur fatto il discorso sulle
mani sporche, lo avevo pur visto il tuo strazio mentre mi raccontavi di nuovo la
scena di Meleto e di Socrate, mi spiegavi di nuovo il tuo odio per lo scorpione.

Ma il ragionare, il vagare, non era servito che a indicarmi l'unica scelta possibile:
partire. Bisognava che partissi e che nel frattempo evitassi di restare a
quattr'occhi con te. Per non discutere. Rientrando avevo trovato in ufficio due
giornalisti, questo m'era stato d'aiuto e li avevo trattenuti a colazione.
Così non eravamo rimasti soli neanche un minuto ed era giunta l'ora in cui
dovevi recarti in Parlamento per partecipare a un dibattito su non so quale legge.
Mi accompagni? Mi dispiace, non posso. E i giornalisti: Ti accompagniamo noi!
Insieme a loro eri uscito dicendo che ci saremmo rivisti dopo le sei, il dibattito si
sarebbe concluso verso le sei. D'accordo. E stasera mangeremo senza testimoni
come piace a te. D'accordo.
E senza far tardi. D'accordo. Che hai? Qualcosa non va? No, perché? L'ascensore
era sceso cigolando, attraverso i vetri mi avevi sorriso, e soltanto allora avevo
avuto un ripensamento, un impulso di correrti dietro, abbracciarti, sentire i tuoi
baffi contro la mia guancia, confessare me ne vado, non ce la faccio più. Ma ero
rimasta immobile, avevo pronunciato appena un freddissimo ciao.
Guardai l'orologio: le cinque. Ti immaginai nell'aula, intento a seguire il dibattito
senza seguirlo, nervoso, stordito dalla mia condotta ambigua, e una voglia di
piangere mi salì alla gola. La raschiai con un colpo di tosse che risuonò nel
silenzio della sala semideserta. Una monaca si girò, l'americano mi lanciò
un'occhiata strana. Era un bellissimo uomo, alto e snello, coi capelli grigi e le
pupille azzurre, la finezza vigorosa che hanno certi cavalli di razza, e gli restituii
l'occhiata pensando quanto sarebbe stato più difficile se tu avessi avuto i capelli
grigi e le pupille azzurre, una taglia alta e snella, la finezza da cavallo di razza.
Paradossalmente, non ero innamorata di te. Non lo ero mai stata, nemmeno
durante i sette giorni di felicità o nel periodo della casa nel bosco, perlomeno nel
senso che di solito si dà a questo termine. Parlo del desiderio fisico che annebbia
la vista e interrompe il respiro al solo guardare la creatura amata, del brivido che
ti intirizzisce e ti scioglie al solo sfiorarle una mano, una guancia, sicché tutto in
lei diventa unico e insostituibile, perfino l'odore del suo fiato, il sudore della sua
pelle, i suoi stessi difetti che anziché difetti ti sembrano qualità deliziose: hai
bisogno di lei come dell'aria, dell'acqua, del cibo, e in tale schiavitù muori di mille
morti ma sempre per resuscitare, esserle schiavo di nuovo.
Questi sintomi io li conoscevo, ma in coscienza non potevo dirmi d'averli avvertiti
in nessun momento per te. Ad esempio, il tuo corpo non mi attraeva, non capivo

le donne che lo giudicavano bello e se ne invaghivano perdutamente tradendo il
marito, umiliandosi pur d'essere scaraventate cinque minuti contro un muro o su
un letto, poter raccontare agli altri o a se stesse d'averti toccato; fin dal primo
istante ti avevo giudicato bruttino e continuavo a giudicarti tale. Quegli occhietti
piccoli, diversi fra loro nel taglio e nella collocazione, uno più alto e uno più
basso, uno più chiuso e uno più aperto, quel naso spampanato, disossato, quel
mento breve e dispettoso, quelle guance che si riempivano appena ingrassavi un
po. Quei capelli grossi e untuosi che non pettinavi mai, quel corpo tarchiato,
spalle troppo tonde, braccia troppo corte, mani troppo tozze, dalle unghie
strappate anziché tagliate. Avevi imparato a strapparle in prigione dove non avevi
le forbici, e continuavi a strapparle malgrado le mie proteste d'orrore. E poi
quante cose mi irritavano in te! Il tuo modo di mangiare, per dirne una: così
maleducato, ingordo. Ficcavi in bocca certi bocconi che nemmeno un cavallo
sarebbe riuscito a ingoiarli. Il tuo modo di fare il bagno, per dirne un'altra. Fare il
bagno per te significava coccolarti nell'acqua come un'anatra, sonnecchiarci ore e
ore senza usare il sapone, uscirne di colpo per infilarti bagnato nel letto,
infradiciarmi tutta, strillare contento ho freddo, ho freddo! E il tuo vitalismo
esagerato, la tua sessualità golosa, ringhiosa, che quando aggrediva coi suoi
slanci felini sollevava in me un impulso alla fuga; bisognava controllarsi, mentire,
perché tu non capissi che la partecipazione era un atto cerebrale, sostenuto da
una tenerezza misteriosa, lacerante e struggente, un trasporto che nasceva da
non so cosa ma non certo dai sensi. Non ero venuta a te succhiata da un
richiamo dei sensi. Ricordavo bene l'angoscia che avevo provato a udirti
camminare su e giù dinanzi al vetro smerigliato della porta, in dubbio se entrare
o no, ricordavo bene il gelo che mi aveva intirizzito a intravedere le tue dita sulla
maniglia, e il sollievo che mi aveva alleggerito quando le dita s'erano ritratte.
Possibile che fosse dovuto solo al presentimento di una tragedia a venire?
Ricordavo altrettanto bene l'inquietudine che mi bucava la sera in cui ero tornata
per trovarti in ospedale, il segreto sgomento all'idea che toccasse a me riempire
un vuoto di cinque anni, subire una voracità a lungo inappagata.
No, neanche sull'incanto della prima notte i sensi avevano avuto un'influenza,
sarebbe stato disonesto dire che la tua passione aveva suscitato la mia, e anche
dopo era stato così: negli abbracci forsennati o dolcissimi non era il tuo corpo che
cercavo bensì la tua anima, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, le tue

poesie. E forse è vero che quasi mai un amore ha per oggetto un corpo, spesso si
sceglie o si accetta una persona per la malìa inesplicabile con la quale essa ci
investe, o per ci che essa rappresenta ai nostri occhi, alle nostre convinzioni, alla
nostra morale; per il veicolo di un rapporto amoroso rimane il corpo e, se quello
non ti seduce, qualcos'altro deve pur sedurti. Il carattere, ad esempio, il modo di
vivere o di comportarsi. E col tempo avevo scoperto che neanche il tuo carattere
mi piaceva molto: con le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e
senza senso, le sue ebrezze del primo stadio, secondo stadio, terzo stadio, le sue
durezze di roccia, le sue chiusure da ostrica. Più tentavo di aprire l'ostrica per
estrarne la perla più essa mi resisteva colando un liquido nero, più scavavo la
roccia in cerca di rubini e smeraldi più trovavo sassi e carbone. Il tuo bosco era
pieno di sterpi, di spine, appena vi coglievo un fiore mi graffiavo, mi
insanguinavo. E l'arroganza grazie a cui pareva che tutto ti fosse permesso, la
faciloneria con cui liquidavi situazioni e problemi, le contraddizioni in cui
precipitavi. Tutte tare per me deplorevoli. Ma allora perché avevo avuto
quell'impulso di correrti dietro, abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia
guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola e ricacciare indietro le
lacrime?
Guardai di nuovo l'orologio: le cinque e mezzo. Se il dibattito si fosse davvero
concluso alle sei, tra poco l'appartamento di via Kolokotroni avrebbe vibrato sotto
la tua scampanellata e avresti appoggiato il naso al ferro battuto dello spioncino,
in attesa di vedermelo aprire e di annunciarmi festoso: Sono io! Sono me! Lo
spioncino sarebbe rimasto chiuso, ti avrebbe risposto il silenzio, e lì per lì non ci
avresti badato. Sicuro di uno scherzo, saresti entrato con la tua chiave, in punta
di piedi per cogliermi di sorpresa, in punta di piedi avresti frugato di stanza in
stanza: Dove ti sei nascosta? E non mi avresti trovato. Allora, deluso, avresti
cercato un biglietto che avvertisse sono fuori torno subito, come spesso facevo,
ma non avresti trovato neanche quello. Non avevo lasciato nulla di scritto, avevo
preferito spiegarmi cancellando ogni traccia di me. Dopo che l'ascensore era sceso
portandoti via coi due giornalisti, avevo vuotato i cassetti di tutte le mie cose,
l'armadio di tutti i miei indumenti, avevo riempito due grandi valigie e una
scatola, le avevo nascoste nel ripostiglio insieme agli oggetti più insignificanti,
bottiglie di profumo quasi vuote, spazzolini, forcine, pinzette, con tanta cura che
non era rimasto nemmeno un capello, infine avevo ficcato l'essenziale in una

borsa da viaggio, avevo messo le chiavi sul letto per dimostrarti che non mi
servivano più e... Un urto di vomito mi chiuse lo stomaco.
Eppure non ero fisicamente gelosa di te. Non lo ero mai stata, nemmeno all'inizio
quando m'ero accorta che accendere desideri solleticava la tua vanità, nemmeno
in seguito quando i tuoi riti dionisiaci erano esplosi e t'avevo visto mordere la
pipa fissando l'elefantessa e l'efebo secco che danzavano al buzuki.
Parlo della gelosia che svuota le vene all'idea che l'essere amato penetri un corpo
altrui, la gelosia che piega le gambe, toglie il sonno, distrugge il fegato, arrovella i
pensieri, la gelosia che avvelena l'intelligenza con interrogativi, sospetti, paure, e
mortifica la dignità con indagini, lamenti, tranelli facendoti sentire derubato,
ridicolo, trasformandoti in poliziotto inquisitore carceriere dell'essere amato.
Forse per cerebralismo, coerenza al principio che i rapporti d'amore debbano
essere reinventati e anzitutto scrostati delle scorie, dei fardelli che a lungo andare
li rendono soffocanti, m'ero sempre proibita di provare simili sofferenze per te.
Saperti desiderato anzi mi lusingava, vederti aperto alle tentazioni mi divertiva, a
volte le due cose aizzavano addirittura il gusto di disputarti a un'ingordigia che io
stessa nutrivo essendoti compagna.
Solo negli ultimi tempi i tuoi eccessi mi avevano addolorato, e non per il fatto di
sapermi sostituita un'ora o una notte bensì per il torto che facevi a te stesso
esponendoti a pettegolezzi, accettando i costumi di una società che volevi
cambiare, adeguandoti alle sozzure di una sottocultura dove il culto del fallo
umilia l'intelligenza. Tuttavia neanche allora avevo ceduto all'indignazione che
ammutolisce e spinge a chiuderci la porta alle spalle dopo aver lasciato le chiavi
sul letto. Quindi perché oggi era successo?
Per la terza volta guardai l'orologio: le sei. Un intuito mi diceva che il dibattito
s'era davvero concluso alle sei e che stavi avviandoti a casa, anzi salendo con
l'ascensore, anzi suonando alla porta, anzi entrando in punta di piedi per
cogliermi di sorpresa, e ti vedevo frugare di stanza in stanza, cercare un biglietto
che non c'era, aggrottare la fronte, aprire i cassetti, trovarli vuoti, accorgerti che
mancava tutto, infine schiudere il ripostiglio, scorgere le due valigie e la scatola,
impallidire impietrito dalla certezza. Bocca chiusa, mascelle serrate, narici
dilatate. E lo sguardo? Quello di un lupo che si accinge a sbranare o di un cane
preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto? La testa mi girò avvolgendo in una
spirale di nebbia l'americano coi capelli grigi, le monache col rosario, gli arabi

ammantati nelle tuniche bianche. Mi aggrappai al tavolino, accesi una sigaretta
con mani che tremavano. Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo,
forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse m'ero detta un mucchio di
verità e di menzogne ma una cosa era certa: ti amavo come non avevo mai amato
una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno. Una volta avevo
scritto che l'amore non esiste, e se esiste è un imbroglio: che significa amare?
Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di
un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti
amavo al punto di non poter sopportare l'idea di ferirti pur essendo ferita, di
tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi
errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue
contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le sue braccia troppo
corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate. E certo l'amore non ha
per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io
lo portavo a letto con me, nel ricordo lo abbracciavo come quando abitavamo la
casa nel bosco, d'inverno, e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così, la mia
testa contro la tua testa, il mio ventre contro il tuo ventre, le gambe annodate,
oppure quando stavamo distesi nella camera di via Kolokotroni l'estate, i
pomeriggi erano afosi e ci scostavamo ridendo, via roba calda, ma c'era sempre
un momento in cui i tuoi occhietti strani, uno più alto e uno più basso, uno più
chiuso e uno più aperto, mi ubriacavano di dolcezza, sicché mi chinavo a baciare
le tue palpebre gonfie, mandorle di carne, accarezzare con la punta dell'indice il
tuo naso buffo, i tuoi baffi spinosi, le tue labbra increspate da tante rughine,
labbra di vecchio dicevi, e strisciandoti il dito sul mento poi sulla mascella poi
sullo zigomo risalivo lentissimamente agli orecchi, perfetti questi, ben disegnati, e
tu subivi felice che ti ammirassi almeno gli orecchi: Che orecchi! Che orecchi! E
forse il tuo carattere non mi piaceva, ne il tuo modo di comportarti, per ti amavo
di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto
implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita
senza di te.
Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te
era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni
che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita! E
l'amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale

malattia potevo elencare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che
non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu
fossi straordinario e geniale e grande; se passavo dinanzi a un negozio di cravatte
e camicie mi fermavo d'istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta, la
camicia che sarebbe andata d'accordo con una certa giacca; se mangiavo in un
ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che io
preferivo; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe
interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuore della notte
con un desiderio o una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta
al mattino. gettai via la sigaretta con rabbia. Ma un amore simile non era
neanche una malattia, era un cancro!
Un cancro. Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo
moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni
cosciente del fatto che nessuna medicina pu arrestarlo, nessun intervento
chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand'era un granellino
di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egsagap, un amplesso mentre il
vento fruscia tra i rami d'olivo, ora invece non è possibile perché ti ruba ogni
organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessa ma un impasto
fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte
che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e mi stavi divorando,
ammazzando. V'è una caratteristica lugubre negli ammalati di cancro: appena
capiscono che esso ha vinto o sta per vincere, cessano di opporgli i farmaci, il
bisturi, la volontà e si lasciano uccidere con sottomissione, senza maledirlo,
neanche rimproverarlo del martirio che esige. Il mio male, lo chiamano con
affettuosa indulgenza, quasi fosse un amico, un padrone, o un possesso di cui
non possono fare a meno, e quel "mio" risuona a volte un accento soave: lo stesso
che gorgogliava nella mia voce appena pronunciavo il tuo nome. Ecco, a tale
stadio ero giunta per non averti estirpato quand'eri un granellino di sabbia, un
chicco di riso, e sebbene l'istinto m'avesse avvertito che chiunque entrasse nella
tua sfera perdeva la pace per sempre. Eppure di occasioni per sfuggirti ne avevo
avute, avrei potuto coglierle a manciate nel periodo che aveva preceduto la gita al
tempio di Sunio e l'impegno assunto con le due saponette di tritolo. Ma le avevo
sempre respinte e così il cancro aveva proseguito il suo corso per dimostrarmi che
amare significa soffrire, che l'unico modo per non soffrire è non amare, che nei

casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere. In altre
parole il mio problema era insolubile, la mia sopravvivenza impossibile, e la fuga
non serviva a nulla. A nulla? Alzai la testa. A qualcosa serviva: salvare la mia
dignità. Non si può dire a una persona che ci ama e che si ama: scoperò la moglie
del tale, la scoperò e la riscoperò fino a farle urinare sangue perdere le budella,
per questo lavoro mi ci vuole un cavallo, mi regali un'automobile? E tutti i tuoi
eroismi, le tue disperazioni, le tue genialità, le tue poesie non sarebbero bastate a
cancellare il disgusto che avevo provato a sentirti ripetere il polverosissimo slogan
niente è indegno se il fine è degno, il logoro discorso sulla necessità. La necessità
invocata dai generali che mandano i loro soldati al macello pur di prendere un
nodo ferroviario, una collina, tanto poi si manda un bel telegramma: gentile
signore, gentile signora, siamo spiacenti di comunicarle che suo figlio è morto in
battaglia. La necessità avanzata dai rivoluzionari che sparano revolverate a chi
capita, e distruggono e massacrano come i piloti dei bombardieri, tanto poi si
scrive una bella marcetta sui sacrifici che costa conquistarsi l'uguaglianza e
abbattere gli zar. La necessità riconosciuta da sempre agli uomini in lotta e che in
nome della fottutissima lotta possono compiere qualsiasi perfidia, scambiarsi
Briseide, riduròre in schiavitù Cassandra, immolare Ifigenia, abbandonare
Arianna su un'isola deserta dopo che ti ha aiutato a vincere il Minotauro. Tanto
rompere il cuore di una donna, squarciare il ventre di un'altra, sono inezie di
fronte alla Storia e alla Rivoluzione, no? Basta. Si ha un bel dire che la serenità
addormenta, che la felicità rimbecillisce, che il soffrire invece sveglia e dà idee. Il
soffrire paralizza, spenge l'intelligenza, uccide. E con te avevo sofferto veramente
troppo. Salvo piccole oasi di gioia, brevi grandinate di allegria, la nostra unione
era stata un fiume di angosce, pericoli, follie, nevropatie: stare con te era come
stare in prima linea. Era un continuo piovere di razzi, granate, napalm, un
perenne scavare trincee, andare in pattuglia su sentieri minati, lanciare attacchi,
ferire e venire feriti, urlare, singhiozzare, chiama il barelliere, dammi il caricatore,
comandante non ce la faccio più.
Non si può stare al fronte in eterno, vivere in eterno sul dramma. Si finisce col
perdere il senso della misura.
Le sei e mezzo. L'altoparlante gracchi, una voce morbida annunci che l'aereo
proveniente da Bangkok era atterrato.

Bene, tra poco ci saremmo imbarcati e, anche se ti fosse venuto in mente di
cercarmi qui, non avresti fatto in tempo a trovarmi. Oppure sì? All'improvviso il
timore si condensò in immagini che si susseguivano con rapidità folle. Vedevi le
chiavi sul letto, capivi. Le afferravi, uscivi a cercare un taxi, salivi sul taxi, dicevi
all'autista di condurti all'aeroporto, arrivavi, entravi, ti presentavi al controllo di
polizia esibendo il lasciapassare dei deputati, raggiungevi la scalinata che porta
alla sala imbarchi, puntavi in direzione del bar e della colonna dietro la quale
m'ero nascosta, e più rifiutavo di crederci più sentivo che stava accadendo, mi
sembrava addirittura di cogliere il rumore del tuo passo pesante, cadenzato,
spietato, uno due, uno due, uno due. Infatti tenevo la testa bassa e mi chiedevo
se non sarebbe stato meglio alzarsi, mettersi in fila con gli arabi e le monache e
l'americano che stavano già accanto all'uscita per la pista, ma non riuscivo a
muovermi ed ora il passo rintronava davvero, sempre più netto, sempre più
vicino, uno due, uno due, uno due, ora si fermava e sotto ai miei occhi c'erano
due scarpe polverose che ben conoscevo perché non le pulivi mai, sopra le scarpe
c'era un paio di pantaloni che conoscevo altrettanto bene, cincischiati, privi di
piega, sopra i pantaloni c'era la giacca a quadretti, quella a cui mancava l'ultimo
bottone. Allibita, insieme decisa a ignorarti, non andai oltre il frinzello che stava
al posto del bottone, e finsi di non averti visto. Ma, come una fanfara di guerra, le
chiavi che avevo lasciato sul letto tintinnarono vicino al mio orecchio e la tua voce
si levò rauca: Che ho fatto? Subito alzai la testa, a cercare il tuo sguardo. No, non
era quello di un cane preso a calci, era quello di un lupo pronto a sbranare. E le
labbra del lupo fremevano, stranamente rosse, a ogni fremito mostravano denti
serrati in un'ira così gelida che per un istante n'ebbi paura. Carogna. Non so che
farmene della tua automobile, io. Non la voglio la tua automobile, io. Non ho
bisogno di nulla e di nessuno, io. E alzati quando ti parlo! Rimasi seduta a
fissarti. Dall'altoparlante la voce morbida annunciava la partenza del volo,
sollecitava i passeggeri a imbarcarsi e dovevo muovermi. Ma per nulla al mondo ti
avrei ubbidito alzandomi. diventasti pallido. Mi puntasti addosso il mazzo di
chiavi. Se ti muovi, se prendi quell'aereo, ti ammazzo. Allora mi alzai. Raccolsi la
borsa da viaggio, ruppi il silenzio: Che io sia maledetta, e che tu sia maledetto con
me se rimetto piede in questa sporca città. Poi ti voltai le spalle, mi diressi verso il
cancello, ed ero a pochi passi dal gruppo del mio volo che un pugno violentissimo
mi colpì in un polmone: ferma lì.

continuai ad andare e subito il secondo pugno arrivò, nello stesso polmone, così
secco stavolta, micidiale, che il respiro mi mancò e mi inarcai all'indietro e una
delle due monache mormorò smarrita: Gesù! L'americano invece arrossì e fece il
gesto di lanciarsi in avanti per intervenire. Lo bloccai con un cenno, ti scrutai
bene in faccia. Stille di sudore ti fiorivano sulla fronte, sul naso, sui baffi, i tuoi
occhi erano due gore di costernazione. Lucide, lucide. Si sarebbe detto che tu
stessi per piangere. Così passò qualche secondo prima che riuscissi a
pronunciare quella parola. Per alla fine la pronunciai: Crepa. E su quest'augurio
ti lasciai senza voltarmi.
Quando, otto mesi più tardi, entrai nell'obitorio a cercare il tuo corpo, e il mio
strazio era un urlo represso incessante di bestia ferita, il ricordo d'averti augurato
la morte sia pure con una battuta banale mi squarciò la coscienza fino a stordirla
e da quel momento prese a tormentarmi come una goccia che cade da un
rubinetto spanato: Crepa, crepa, crepa, crepa.
Naturalmente v'erano altre accuse, altre condanne, con cui mi fustigavo; e presto
capirai quali. Ma il crepa le riassumeva tutte e in esso mi maceravo, mi dannavo,
mi ponevo la domanda: perché avevo così esagerato, quel giorno, lasciandoti e
negandoti ogni spiegazione? Possibile che il candido annuncio del tuo piano poi
l'ingenua richiesta dell'automobile m'avessero spinto a una reazione tanto
eccessiva e definitiva? E incapace d'assolvermi, allo stesso tempo incalzata dal
bisogno di farlo, mi regalavo risposte che subito dopo negavo. Sì, m'ero sentita
offesa, avevo ceduto all'umano bisogno di rivoltarmi, liberarmi di un giogo
divenuto troppo pesante, ma non t'avevo sempre dimostrato d'essere aperta alle
tue spregiudicatezze? E a chi avresti potuto rivolgerti se non a me che ero la tua
compagna? No, il vero motivo di quella reazione doveva essere stato un altro,
affondato e sepolto nel buio del mio subconscio. Una paura, ecco, una
superstizione che non volevo ammettere o di cui non mi rendevo conto. Doveva
essere scattato qualcosa in me ad ascoltare il discorso sulle necessità: una molla
che aveva acceso una scintilla. E questa scintilla aveva acceso altre scintille
causando uno scoppio a catena identico a quello delle mine connesse fra loro e
unite allo stesso detonatore sicché se ne esplode una esplodono tutte.
La mina dell'orgoglio ferito, della gelosia inconfessata, della noia imbavagliata:
rimaste inerti per mesi, per anni, senza che un artificiere le disinnescasse. Poi
una notte, di colpo, fu chiaro: l'automobile. La parola automobile. Odiavo

l'automobile, l'avevo sempre odiata al punto di non possederne una, ma l'odio
s'era gonfiato mostruosamente da quando t'avevo conosciuto perché fin dall'inizio
c'era stato un incubo nella nostra vita: l'automobile. L'automobile che ci aveva
attaccato a Creta affiancandoci e spingendoci verso il bordo della strada per
buttarci giù dalla scarpata. L'automobile che al ritorno da Ischia ci aveva atteso
fuori del ristorante per investire il nostro taxi. L'automobile che gettava le bombe
carta al Politecnico, la Cadillac nera che per me era divenuta la somma di ogni
orrore vissuto con l'automobile a causa di un'automobile. Senza contare
l'automobile che avevi tentato di far saltare in aria, la Lincoln di Papadopulos, e
sotto la quale avevi tentato di gettarti alla fine della settimana di felicità.
Insomma la Morte con l'aspetto di un'automobile, i fari al posto delle occhiaie
vuote, il muso al posto del teschio, le ruote al posto degli arti spolpati. E tu mi
avevi chiesto di regalarti la Morte. Ecco la molla, la prima scintilla. Ma perché
l'avevi chiesta a me, proprio a me? Non avevi bisogno di me per comprare
un'automobile. E, soprattutto, perché avevi bisogno dell'automobile per
conduròre in porto la cattura dei documenti? Cosa c'entrava l'automobile con gli
archivi dell'Esa e la moglie di Hazizikis e le prove su Averoff? C'entrava, eccome.
Lo avrei ben visto. Del resto l'eroe della fiaba non affronta mai il duello finale
senza il suo cavallo: il cavallo ha una funzione quasi religiosa nella sua ultima
sfida. "E montò a cavallo e andò a cercare l'orco." "E spronò il cavallo e andò a
prendere i papiri del re." Perfino nei miti dell'antica Grecia, ovvio tessuto della tua
cultura, c'è sempre il cavallo. perché senza il cavallo l'eroe non può entrare nel
regno degli Inferi: esso è l'oggetto fatato, il dono indispensabile a morire. E a
consegnare quel dono, quell'oggetto fatato, quel veicolo di morte, è sempre colui o
colei che ama l'eroe.
Si capisce sempre dopo, ammesso che capire in tempo serva ad ostacolare il
destino già scritto. E certo non pensavo a questo mentre salivo sull'aereo che
m'avrebbe condotto lontano da te, poi mentre sedevo accanto all'americano che
aveva tentato di venirmi in aiuto e che ora cercava invano di attaccare discorso.
Lui conosceva bene New York, conoscevo New York? Sì, conoscevo New York. Lui
abitava a New York, avevo mai abitato a New York? Sì, avevo una casa a New
York. Really, davvero? How nice, che simpatica coincidenza. Allora anch'io
andavo a New York? No, io non andavo a New York. Invece ci andavo, senza dirlo
a nessuno, convinta che fosse l'unico luogo dove non avresti potuto riacciuffarmi.

La sola idea di rivederti, infatti, m'appariva quel pomeriggio come una sciagura
inesprimibile, una minaccia terrificante.
E straordinaria la trovata che elaborasti per riacciuffarmi, usarmi come
strumento della tua morte. Dopo mi sarei chiesta, incredula, per quale attacco di
balordaggine avessi potuto farmi turlupinare così bene da te. Oltretutto
conoscevo quanto nessun altro la tua astuzia, le tue arti di commediante capace
di qualunque istrionismo. Quasi ciò non bastasse, l'aver messo un oceano fra noi
non s'era risolto in rimpianti: New York rinsaldava ogni giorno di più il proposito
di strapparti senza appello dalla mia esistenza. Vi lavoravo, vi incontravo persone
di un mondo che mi apparteneva e che ti escludeva, vi parlavo una lingua che a
te era sconosciuta e a me familiare, vi ritrovavo abitudini e paesaggi nei quali
m'ero sempre sentita a mio agio. La sera, quando rientravo a casa e dalle finestre
del decimo piano guardavo la città sfavillante, i bei grattacieli, i bei ponti sull'East
River, guardandoli tiravo le somme d'una giornata trascorsa senza il tormento di
quei nomi, Hazizikis, Teofilojannacos, Averoff, non avvertivo la tua mancanza. E
neanche la notte, quando giacevo nel mio letto comodo pensando che sollievo
dormire soli, scaldati da una coperta elettrica e basta. Capitava sì che l'immagine
di te mi aggredisse ogni tanto, sollecitata da un nome o da un suono o da un
cibo, addirittura da un'insegna al neon, Alexander, Acropolis, Olimpic, Greek
restaurant, ma a respingerla bastava il ricordo di quei due pugni nel polmone.
Scottavano ancora, quanto bruciature di sigaretta. Capitava perfino che la vista
dell'anello scambiato a Natale, ora tolto dall'anulare sinistro e riposto in un
cassetto, provocasse un groppo alla gola; ma a raschiarlo via bastava un po di
ragionamento: in un deserto dove ogni pianta è un miraggio, ogni filo di vento
un'illusione, il deserto delle utopie, noi c'eravamo incontrati scordando di
chiederci chi fossimo e dove volessimo andare; cani senza medaglia, ci eravamo
presi per mano, e inciampando nelle dune di sabbia, cadendo, rialzandoci,
inciampando di nuovo, ci eravamo fatti compagnia, legati dall'equivoco guinzaglio
dell'amore. Ma ora il guinzaglio era rotto, e guai a riannodarlo coi groppi alla gola;
guai ad incrinare il mio equilibrio, il mio distacco. Esisteva un'unica eventualità
che ci accadesse, e stava nel rischio di udire la tua voce. Quella voce che mi
irretiva, mi catturava quanto una stregoneria. Più che un'eventualità, anzi, un
timore. Infatti, e sebbene l'aereo sul quale avevi cercato di non farmi salire fosse

diretto a Roma, non a New York, non avresti avuto bisogno di molto per scoprire
che ero venuta qui.
Sarebbe bastato un colpo di telefono. Tuttavia il timore non era durato che una
settimana, e la seconda settimana non ci credevo già più. Grave errore. Si levava
l'alba del mio diciassettesimo giorno di fuga quando il telefono squillò: Pronto!
Sono io! Sono me! V'è un che di intimidatorio nella sorpresa, di illiberale, di
addirittura brutale. Buona o cattiva che sia, essa costituisce sempre
un'intrusione, un'imposizione, una prepotenza. perché infrange un equilibrio e
costringe chi la riceve a subirla: che gli piaccia o no, che vi sia preparato o no. E
tu amavi le sorprese. L'assalto inaspettato, l'improvvisata che lascia di stucco, il
gesto fuori programma, erano tue specialità: me n'ero dimenticata. Nel bene e nel
male piombavi a bruciapelo sugli altri come una saetta, come un bambino che
irrompe in una stanza disturbando un dialogo o un lavoro o un riposo: me n'ero
dimenticata. Tu invece non avevi dimenticato per niente che dinanzi alle sorprese
diventavo inerme, avevi ben calcolato che chiamando la prima settimana mi
avresti trovato all'erta, chiamando dopo mi avresti colto alla sprovvista. Pronto!
Sono io! Sono me!. Quella voce. Le pareti della stanza presero a girare con la
veemenza di una centrifuga, il letto sprofondò in un lago di smarrimento, e i bei
grattacieli, i bei ponti sull'East River, la città sfavillante, il mondo che mi
apparteneva e ti escludeva, tutto si dissolse di colpo. Inutile, quasi grottesca, la
lieve barriera di diffidenza che ti opponevo: Che vuoi? Dove sei? Sono qui, a
Madrid! Ascoltami! Mi trovo in un guaio! Ho bisogno di aiuto! A Madrid? In un
guaio? Non ci credo. Devi crederci, cataramene Criste! E vero, vero, vero! Un
brutto guaio, un guaio serio! perché ti chiamerei, sennò, credi che mi piaccia
telefonarti, ascoltami! .Chi t'ha detto che ero a New York? Nessuno, l'ho
immaginato, ho provato! Non perdere tempo in chiacchiere, cataramene Criste!
Ho i minuti contati, ascoltami! Va bene, ascolto. E che ci sono venuto col
passaporto falso, capisci? E ho dimenticato il portafoglio col passaporto vero al
controllo di polizia, capisci? Ma che diavolo dici?! Questo dico, non
interrompermi, cataramene Criste, questo dico! E non me n'ero accorto d'averlo
lasciato lì, capisci?! Me ne sono accorto quando mi hanno chiamato
all'altoparlante e un poliziotto è venuto qui nella sala dove si aspettano gli
aeroplani! Oh, no! Oh, sì. E aveva il mio portafoglio in mano! E io che dovevo fare,
dovevo forse lasciarglielo? L'ho ripreso, evidente, ma ora se non sono stupidi

sanno che io sono io e che mi trovo qui, capisci? E il mio volo è stato annullato
per via d'un guasto, bisogna aspettarne un altro, ci hanno offerto di rientrare in
città ma io con quale passaporto ci rientro, meglio che rimanga qui. Oh, no! Oh,
sì. Ora ti dico quel che devi fare. Io? Alekos, cosa posso fare io da New York? Ti
rendi conto che c'è l'Atlantico fra Madrid e New York?! Me ne rendo conto,
cataramene Criste, lo so, non mi importa, fammi parlare, ascoltami!. Va bene,
ascolto. Devi assolutamente, dico assolutamente, prendere il primo aereo in
partenza per l'Europa che faccia scalo a Madrid. A New York ce ne sono parecchi
di voli che fanno scalo a Madrid. Io non mi muovo da questa sala d'aspetto
ammenoché non mi arrestino. Conto sulla confusione. C'è una gran confusione.
durerà fino a domattina perché stanno annullando altri voli, non ho capito
perché. La sala d'aspetto è anche la sala transiti. Tu scendi e vieni in sala
transiti. Senza farti notare vieni verso di me mi dai la tua carta di transito.
Quando l'aereo riparte, mi imbarco al posto tuo. Intanto tu vai al gabinetto e non
esci fino al momento in cui l'aereo è partito. E fingi d'aver perduto la carta
d'imbarco e ti disperi un po. Capito? Mi sembra un'assurdità. Un'assurdità?!? Sì.
Farmi venire da New York. perché non cerchi qualcuno a Madrid?! Chi a Madrid,
chi?! In Europa allora. Chi in Europa, chi?! perché non prendi il primo aereo che
capita? perché, perché! Ti sembra il momento di fare domande, cataramene
Criste?! Quante volte devo ripeterti le medesime cose, vuoi mandarmi in
prigione?! No, Alekos, vengo.. Subito! Subito. Se non mi trovi, non ti
compromettere. Vuol dire che mi hanno arrestato. Prosegui il viaggio, vai a Roma,
corri alla mia ambasciata, e di lì fai avvertire Atene, capitooo?. Sì ma che senso
ha rivolgersi all'ambasciata di Roma se ti arrestano a Madrid? Non sarebbe
meglio se....
Non discutere, cataramene Criste, non discutere, se ti dico di fare così vuol dire
che bisogna fare così! Non posso parlare! Ho parlato anche troppo! Se non mi
trovi non ti compromettere, prosegui per Roma! Per favoreee! Va bene, ciao.
Arrivo.
Deposi il ricevitore in preda a opposti pensieri. Da una parte mi sembrava
inverosimile e dall'altra più che possibile.
Supponiamo che dopo il trauma della mia partenza tu avessi deciso di rinunciare
alla cattura dei documenti. Di punto in bianco, così come avevi rinunciato al
piano dell'Acropoli. Ci avrebbe provocato in te un vuoto terribile e sollevato il

bisogno di intraprendere subito un'altra impresa. Non in Grecia per, e non nella
politica dei politici: in una realtà dove il bianco fosse bianco e il nero fosse nero e
il rosso fosse rosso, cioè in un paese schiacciato dalla dittatura. La Spagna. C'era
a disposizione la Spagna per questo, e avevi un conto da saldare in Spagna: una
promessa che risaliva ai giorni in cui i baschi avevano imitato il tuo attentato a
Papadopulos perfezionandolo e facendo saltare in aria l'automobile di Carrero
Branco.
Non t'era piaciuto che i baschi fossero riusciti laddove tu avevi fallito. Sordo ai
miei tentativi di consolarti, loro erano in molti e tu eri solo, loro avevano una
organizzazione e tu no, t'eri chiuso dentro la gelosia e: Era il mio piano, era il mio
piano.
Poi avevi detto che glielo avresti fatto vedere se eri meno bravo di loro. Che
dunque tu fossi andato a Madrid per prenderti la rivincita? Ma no: Francisco
Franco stava morendo, si prevedeva un ritorno alla democrazia, e il tuo rifiuto
della violenza era ormai troppo cristallizzato. La tua convinzione che qualsiasi
imbecille fosse capace di pigiare un grilletto e che le vere bombe fossero le idee. A
pensarci bene escludevo addirittura che tu avessi rinunciato all'impresa dei
documenti: in Spagna dovevi esserti recato per qualcosa che riguardava gli
archivi dell'Esa. Qualche foglio messo in salvo a Madrid, forse, qualche persona
fuggita a Madrid con l'avallo di Averoff e del Kyp. Ci spiegava il particolare del
passaporto falso, le tue preoccupazioni d'esser scoperto dalla polizia spagnola:
ovvio che essendo ora un deputato, un interprete della legalità, non potevi farti
sorprendere con le mani nel sacco degli antichi sistemi. Sì, bisognava aiutarti a
uscire da quell'aeroporto. Con un oceano di mezzo o no, bisognava toglierti da
questo guaio.
E mentre la mia fantasia galoppava calpestando dubbi, incertezze, incredulità,
cercai un aereo diretto a Roma con scalo a Madrid. Lo trovai. Preparai in fretta la
valigia. Rimisi all'anulare la fede di brillanti. E poche ore dopo ero in volo: arrivo,
don Chisciotte, arrivo, Sancho Panza è ancora il tuo Sancho Panza, lo sarà
sempre, potrai sempre contare su di me, eccomi, agàpi, eccomi! Soltanto quando
fui sull'Atlantico il mio cervello addormentato ebbe un debole guizzo di lucidità:
certo era un'idea ben strana costringermi a venire dall'altro lato della terra per
una carta d'imbarco, cioè un compito che chiunque avrebbe potuto assolvere a
Madrid in un paio d'ore! Che si trattasse d'un pretesto per farmi tornare? Eri

capace di tutto, te, anche di giocarmi uno scherzo paradossale. E il sospetto,
corposo, m'avvampò le guance. Ma non potendo farci nulla ormai, lo respinsi
regalandomi a un sonno liberatore che durò fino a quando l'aereo giunse a
Madrid.
In sala transiti non c'eri, e non si vedeva alcun segno della confusione cui avevi
alluso. Però c'era un movimento inconsueto di poliziotti, e la cosa mi innervosì:
chiesi a una hostess se nel corso della notte fosse avvenuto qualche incidente. La
hostess mi scrutò con una luce strana negli occhi. Incidente? Che tipo di
incidente? Lei era tenuta dare informazioni sui voli e basta. Sì, capivo, che
perdonasse la mia curiosità: muchas gracias, adios. E proseguii il viaggio, per
giungere a Roma due ore dopo. Se davvero eri stato arrestato, com'era lecito
dedurre dalla strana luce che aveva acceso gli occhi della hostess, dovevo seguire
le tue istruzioni punto per punto. Una tappa veloce in albergo e poi via, alla tua
ambasciata. Corsi al nostro albergo ed ero così stanca, così sconvolta, che non
feci caso alle parole dell'impiegato e poi del portiere. Qualcosa come chiavi doppie
o pacco arrivato. Che pacco? Non aspettavo alcun pacco. Meccanicamente salii in
camera, la stessa che ci davano sempre dacché i fasti dell'appartamento erano
finiti.
Entrai. Le tende erano abbassate ma nella penombra si scorgeva una grande
cesta di rose rosa, quelle in boccio che piacevano a me, e un bel paniere di frutta:
mele, pere, arance, grappoli d'uva, canditi. Chi poteva avermi inviato simili
omaggi visto che nessuno sapeva del mio arrivo? Aggrottai la fronte. E subito una
forma si mosse nel letto, quella voce squillò: Ti è piaciuta la sorpresa? Ora che la
cesta di rose era volata contro il muro e ricaduta in una pioggia di petali
mortificati, e le mele le pere e le arance giacevano sparse sul letto insieme a una
scarpa che aveva mancato il bersaglio, e un grappolo d'uva ti incoronava la fronte
come una ghirlanda di Bacco, e il ghigno beffardo che t'aveva storto le labbra
quando avevo scagliato i fiori e la frutta s'era spento in un sorriso serafico, e la
mia gola secca non emetteva più alcun suono perché al posto dell'ira stagnava
una rassegnata impotenza, potevo ascoltare le tue giustificazioni. Sentiamo!
Togliesti il grappolo d'uva dalla testa, cominciasti a piluccarlo con calma. Numero
uno, sono stato davvero a Madrid: con un passaporto falso. Eccolo là. Volevo
incontrare certi spagnoli della Resistenza, sapere di un certo gruppo fascista che
opera contemporaneamente in Grecia, in Spagna, in Germania e in Italia. Un

gruppo fondato da Otto Skorzeny, quello che liberò Mussolini. Speravo di trovare
il bandolo d'una matassa che non mi convince. Numero due, ho dimenticato
davvero il portafoglio col passaporto vero e i soldi. Ero stanco, arrabbiato perché
non avevo trovato nulla, così l'ho lasciato sul banco della polizia. Mi hanno
chiamato davvero dall'altoparlante e me lo ha restituito davvero un poliziotto.
Numero tre, il mio volo è stato davvero annullato e ti ho telefonato davvero
dall'aeroporto: mentre aspettavo un altro volo. Ero lì, mi chiedevo cosa avrei
potuto inventare se si fossero accorti della faccenda, e m'è venuta quell'idea. M'è
parsa proprio bellina, e l'ho usata per farti tornare. Numero quattro, se non
l'avessi usata non saresti qui. E io ho bisogno di te. Per comprare un'automobile?
No. Per molto, molto di più.. Ti facesti grave. Presto li avrò tutti addosso, destra,
sinistra, centro: quei documenti non gioveranno a nessuno. A quanto pare lui
non è il solo ad aver collaborato, fra i traditori c'è anche un maiale del mio
partito. Sarò più solo di sempre, quindi, e... L'hai conosciuta? Ho conosciuto il
suo amante.
Eh! Ha un amante!. E lei quando la conoscerai? Presto, appena rientro ad Atene.
Ma devo stare attento, accadono cose strane da una decina di giorni. Ho
l'impressione, ecco, d'essere particolarmente osservato, d'aver spesso alle spalle
qualcuno che sa cosa sto facendo. Brutta storia. E intendi andare avanti lo
stesso? Certo. Il problema non è quello. Il problema, ripeto, è che non potrò
contare su nessuno, neanche sul partito, e sarò più solo di sempre.
E a quel punto ogni mio risentimento svanì. Raccolsi le rose sopravvissute alla
mia furia per accomodarle in un vaso, la frutta per riaggiustarla nel cesto, poi
dissi: Occupiamoci dell'automobile. E con quelle tre parole mi riconsegnai al ruolo
che gli dei avevano scelto per me prima che ci incontrassimo: esser congegno del
tuo destino, quindi complice della tua morte.
CAPITOLO II
Come un legno che va alla deriva, incapace d'opporsi alla corrente del fiume,
ignaro se l'acqua lo scaglierà sulla sponda o lo trascinerà fino al mare, così me ne
andavo nella tua esistenza durante quell'autunno. La mia battaglia contro
l'amore, il cancro, era ormai perduta. La mia fuga, un colpo di cannone sparato a
salve. E invano, oppressa dalla sensazione d'aver commesso un errore senza
rimedio, mi chiedevo dove avessi sbagliato. Capirlo, del resto, mi sarebbe servito a

ben poco: l'automobile era diventata per te una realtà irreversibile. T'eri
addirittura convinto che la cattura dei documenti dipendesse dal fatto d'avere o
non avere un'automobile tua: Non posso mica servirmi del taxi per appostarmi
dinanzi alla casa di Hazizikis o per pedinare il suo avvocato Alfantakis! I tassisti
sono spesso informatori della polizia. Oppure: Non posso mica continuare a
prendere in prestito le macchine altrui o noleggiarle. E devo spostarmi di
continuo, viaggiare da un capo all'altro della città! Probabilmente, se non avessi
detto occupiamoci dell'automobile, non ci avresti pensato più. Ma ora che ti avevo
rinfrescato l'idea, essa ti ossessionava: ogni nostro discorso finiva con le parole
cilindrata, collaudo, rodaggio, patente internazionale, libretto di circolazione,
bollo, immatricolazione, targa, foglio per la dogana, colore. Soprattutto il colore.
Volevi una Fiat 132, e il campionario dei colori era abbastanza vasto ma non
trovavi mai quello che ti si addiceva: quasi ogni giorno fiorivano dispute sui pregi
e sui difetti del blu, del grigio metallizzato, del bianco latte, del rosso fegato, del
verde marcio e del verde mela. L'unico punto su cui ci trovavamo d'accordo era il
rifiuto del verde mela. Io per superstizione giacche il verde suscitava in me ricordi
legati a sensazioni angosciose o sgradevoli, tu per l'irriducibile antipatia nei
riguardi di Andrea Papandreu che durante la campagna elettorale aveva scelto il
verde come colore del suo partito. E poi si poteva forse non tener conto del fatto
che per le automobili quello fosse un colore nuovo, che ad Atene non esistessero
ancora Fiat verde mela, che con il verde mela saresti stato seguito con più facilità
da coloro che ti sentivi alle spalle? Meglio un grigio o un avana o un blu che di
notte, oltretutto, si confonde col buio. Insomma l'argomento automobile ci
assorbiva in modo così esagerato che insieme non parlavamo d'altro, meno che
mai del dramma in cui stavi rotolando e che del resto ignoravo perché, ligia alla
mia invettiva che io sia maledetta e che tu sia maledetto con me se rimetto
piede in questa sporca città, non venivo più ad Atene. Eri tu a venire in Italia e,
se ogni tanto chiedevo come vanno le cose laggiù, divagavi: Al momento
opportuno te ne parlerò, ora non voglio pensarci. L'unica volta che vi accennasti
fu il pomeriggio in cui rifiorì il discorso sulle necessità. Passeggiavamo a via
Veneto ed era l'ora in cui gli uccelli vanno a dormire sugli alberi che orlano la
strada. Ne giungevano a migliaia, nel cielo violetto formavano una specie di nube
nerastra, e ci fermammo a guardare. Uno a uno, staccandosi dalla nube come
gocce d'acqua da una cannella, disegnavano una larga virata e poi piombavano a

tuffo su un tiglio: sempre lo stesso. Piombando gridavano di trionfo, striduli, e
insieme allo sbattere continuo delle ali ci causava un rumore assordante: cattivo.
La cosa che impressionava maggiormente per non era il rumore: era l'impotenza
del tiglio che alto e vigoroso, tuttavia inchiodato alla sua immobilità, sembrava
subire un linciaggio, un martirio.
Non finiva mai quel martirio, non si rimpiccioliva mai quella nube. Inesauribile
continuava a colare uccelli che si gettavano addosso a lui con l'ingordigia di
piragna che spolpano un bove e i suoi rami ne brulicavano a tal punto che, sotto
il peso eccessivo, qualcuno si incrinava e magari si rompeva. Il marciapiede
intorno era tutto un tappeto di foglie straziate. Alekos! Annuisti con un misterioso
sorriso: Ecco un esempio di perfidia necessaria. Sanno di ferirlo, forse
distruggerlo, e non possono farne a meno. Sì che potrebbero, vi sono altri tigli in
via Veneto. Ma a loro non servono gli altri, serve questo. Lo so ben io. Che intendi
dire? Intendo dire che anche Joannidis avrebbe ciò che voglio: credi che l'ex capo
dell'Esa non si sia messo da parte una copia degli archivi dell'Esa? Anche
Teofilojannacos, anzi la moglie di Teofilojannacos li ha. E così il suo collega
Alfantakis. Ma loro non me li darebbero mai.
Quindi devo buttarmi su chi me li dà, spolpare chi me li dà. Ho capito, è
incominciato il "lavoro". Diciamo che è ben avviato. Alekos, non senti un disagio a
frequentare persone cui prima avresti sputato in faccia? Eh! Suppongo che
Bakunin avesse chiesto la medesima cosa il giorno in cui Necaiev gli rispose: "In
politica tutto è lecito se necessario. Allearsi coi banditi, coi depravati, coi ladri,
sedurre, tradire. In politica chiunque, e a maggior ragione un nemico che serve, è
un capitale da spendere". Poi cambiasti discorso ed io non lo riesumai. Forse
perché, a forza di udir le parole cilindrata, collaudo, patente internazionale,
libretto di circolazione, m'ero convinta che in quel periodo tu fluttuassi in un
limbo dove i tuoi sogni avevano le dimensioni di un'automobile.
E l'Automobile venne. Calò sulla nostra vita coi ghiacci dell'inverno. Qualcuno
t'aveva suggerito d'acquistarla a prezzo ridotto, già rodata, già immatricolata, e
dalla fabbrica ci chiamarono per avvertire che a prezzo ridotto ne avevano due.
Quasi nuove, una perfetta occasione. Unico problema, il colore: una era giallo
polenta e l'altra verde mela. Decisamente scartando il verde mela, ti mettesti a
illustrare le virtù del giallo polenta che ad Atene era lo stesso giallo dei taxi e
niente è più mimetizzato di un giallo che è giallo dei taxi, non ti pare, andiamo!

Andammo. E stavo dicendoti che era davvero il colore giusto, più che giallo
polenta un nocciola educato e discreto, quando udii uno strillo gioioso e ti vidi
schizzare verso una gran macchia verde che brillava nella penombra.
Fosforescente, aggressiva, più visibile d'una lanterna accesa nella notte. La mia
Primavera! Il mio prato! A maggio fioriranno le margherite su questo prato, le
violette, le verbene! La voglio! Nel giro di pochi minuti era tua. E basta con le
chiacchiere, le superstizioni, se si vede da lontano pazienza, portiamola via
immediatamente, tra un'ora si parte, vedi che bel cielo, l'ho ordinato io per la mia
Primavera, ho mandato un telegramma alle nuvole, gli ho detto di sparire quando
guido la mia Primavera.. Il resto è una sequenza di immagini, suoni, colori che
bruciano la memoria come una ferita fresca. Tu che firmi il contratto d'acquisto,
tu che siedi al volante, che getti le valigie nel bagagliaio, che imbocchi
l'autostrada, ed è un mattino gonfio di sole, ai lati dell'autostrada i campi d'erba
ci corrono incontro veloci per perdersi dietro veloci in strisciate di verde identico
al verde della tua Primavera sicché canti:
Verde su verde! Evviva la vita! Ci recammo in Toscana, a passare il Natale nella
casa in cima alla collina dove avevamo passato tutti i nostri Natali, ma il ricordo
del tuo ultimo Natale e dei giorni che seguirono non è tra quelle mura, quei
boschi: è dentro quell'automobile verde. Non riuscivi a starle lontano.
Facciamo un giretto! Andiamo a scaldare il motore! Guidavi senza meta, mai
stanco, e ogni momento era buono, ogni sentiero purché contenesse quattro ruote
e la tua frenesia. Ti fermavi soltanto se scorgevi una stazione di servizio o un
negozio dove vendevano bambole. Ne comperavi a manciate: piccole, grandi, di
cencio, di plastica. E non capivo perché.
Ma cosa ti prende, Alekos? A chi vuoi regalarle?. Ai bambini, ai grandi, alla gente.
Alla gente?! Per giocare? Le bambole non sono per giocare. Sono per non
dimenticare chi ce le dà. Poi, al settimo giorno mi chiedesti di accompagnarti ad
Atene:
Non vorrai togliere Atene dalla tua carta geografica! Mi lasciai convincere e, con
quel carico assurdo di bambole, ore e ore dentro l'automobile verde, di nuovo, ci
recammo a Brindisi per imbarcarci con lei sulla nave diretta a Patrasso, sbarcare
con lei l'indomani sera a Patrasso, percorrere con lei la strada che da Patrasso
conduce a Corinto e da Corinto ad Atene. La medesima strada, questa, che

Michele Steffas avrebbe percorso quattro mesi dopo con la sua Peugeot. Per
venire ad ammazzarti, aiutato da due complici a bordo di una Bmw rossa.
Eri stato allegro durante il viaggio, ciarliero. Sulla nave avevi scherzato,
conversato in tono brioso con gli ufficiali e col comandante, una volta eri sceso
perfino nella stiva a salutare la Primavera perché non si senta sola, ma appena
fummo su quella strada una malinconia imprevista ti ammutolì. Guidavi
stranamente assorto, la testa inclinata sulla spalla sinistra, e ognitanto allungavi
la mano per accarezzarmi la mano, sospirando. Che c'è, Alekos, sei stanco? No,
no. Ti senti poco bene?..No, no.. Allora che c'è? Non lo so. Sono triste. perché?
Non lo so. Forse il buio, la strada. Cos'ha, la strada?.
Nulla. E come se... nulla. Eri di malumore anche quando giungemmo a via
Kolokotroni e, dopo aver parcheggiato a sghimbescio sul marciapiede, ti mettesti
a scaricare le bambole: quasi che il fatto d'esser tornato ti infastidisse o il
possesso dell'automobile verde ora ti preoccupasse. Insieme al malumore, una
specie di noncuranza rassegnata. Infatti, e malgrado ciò che avevi detto a Roma,
ho l'impressione d'essere particolarmente osservato, non desti importanza al fatto
che l'ascensore non si trovasse a piano terreno, ed entrando in casa non avevi la
solita aria guardinga. Hai cambiato sistema! Uhm! Tanto a che serve. Quel che
deve essere è, quel che dovrà essere sarà.. Soltanto nella camera studio ti
ravvivasti e, abbassate le tende, tirasti fuori da un cassetto segreto della libreria
una scatolina piatta, di metallo, grande pressa poco quanto un portafoglio. Poi ci
inseristi un filo che terminava con una specie di bottone, facesti passare il filo
dentro la manica sinistra della giacca, fissasti il bottone al polsino della camicia,
infilasti il curioso strumento nella tasca interna della giacca e: Ora dimmi se si
capisce che porto addosso un registratore! No, ma con chi... Dovrò imparare ad
usarlo, è assai delicato, comunque ha già dato i suoi frutti. Con chi? Senza
rispondere tornasti al cassetto, qui prendesti una lettera scritta con calligrafia
colta e chiara, datata 24 febbraio 1975. Di chi è? Di Hazizikis. Alla moglie.
Domani ne farò una fotocopia perché tu la tenga in Italia. E così importante? Sì..
E me la traducesti. Diceva: Amore mio, ti scrivo dal carcere per informarti sui
fatti di cui vengo accusato e spiegarti che sono vittima di un interesse politico. Un
interesse di breve durata, peraltro, giacche il mio arresto provocherà danni
gravissimi a chi lo ha ordinato. La cura con cui mi trattano, le premure di cui mi
circondano, dimostrano che chi ha deciso di sottopormi a un processo conosce le

sconvolgenti conseguenze che gliene deriveranno. Del resto ciò si capiva dalla
faccia del procuratore mentre me lo comunicava, e io gliel'ho detto: "Che tu stia
facendo una cosa sbagliata si vede dalla tua faccia bianca.
Guardati allo specchio, lì c'è uno specchio". Poco fa la televisione ha informato
che alcune unità dell'Attica sono in stato d'allarme e che alcuni ufficiali si
preparano a sollevarsi contro il governo. Secondo il suo stile Averoff ha dichiarato
che le percentuali dei testardi, li chiama così, non raggiunge il cinque per cento.
Averoff sa bene che le sue parole sono false al cento per cento. Averoff è un
imbroglione, non a caso ha abbandonato la via buona per quella cattiva. Lui fa
sempre lo stesso. Dopo avere imbrogliato noi, imbroglia il popolo. Io posso
assicurarmi con un largo margine di sicurezza che i tenenti colonnelli e i
colonnelli a favore dell'insurrezione sono più del sessanta per cento, che tra i
capitani la percentuale raggiunge l'ottanta per cento, tra i tenenti e i sottufficiali il
novanta per cento. Stando così le cose è ovvio che, se fossi libero, qualcuno non
dormirebbe sonni tranquilli. Ecco il motivo per cui mi hanno arrestato con tanta
fretta e irregolarità, a parte il gusto per la vendetta che v'è in lui e nei politici
sporchi come lui. Ma spero di uscire presto dallo stagno in cui tentano di
isolarmi....
Il tentato golpe di cui avevi accusato il tuo drago nell'articolo di undici mesi
prima. I legami che egli avrebbe avuto grazie alla cosiddetta politica del ponte. I
suoi timori di arrestare Hazizikis e gli altri esponenti della Giunta. E questo non
era che l'inizio, il debole prologo di chissà quale vespaio.
Com'eri riuscito a farti consegnar quella lettera? Era stata lei a consegnartela
oppure il suo amante? In entrambi i casi chi, se non tu, ne avrebbe pagato il
prezzo? Mi mancava l'aria a pensarci. E senza curarmi delle tende che volevi
abbassate spalancai la finestra, mi affacciai al balcone. Ma servì soltanto ad
aumentare l'inquietudine: sul marciapiede di via Kolokotroni la tua Primavera
parcheggiata di sghimbescio, fosforescente, sembrava un altro grido d'allarme.
No, non avrei dovuto comprarla. Non avrei dovuto sfidare gli dei tornando ad
Atene.
Alekos... Mi venisti accanto, mi cingesti le spalle con ironia affettuosa: Eh! Ma se
soffri così, non ti racconto più nulla!.Allora facciamo così, Alekos. Ammenoché
non sia indispensabile, non raccontarmi più nulla. Non voglio sapere più nulla.
Se davvero fu questo a maturare il mio rabbioso disinteresse per la cattura dei

documenti è difficile a dirsi perché, insieme ai traumi di quel giorno, bisogna
mettere in conto le conseguenze della crisi esplosa con la mia fuga a New York.
I grandi amori sono anche indigestioni che a intervalli vanno smaltite col digiuno:
non si può ingurgitare in eterno piatti di lepri, lucci, fagiani, aragoste, pernici,
capponi, caprioli, vitelli farciti come in un banchetto rinascimentale dove i cani
abbaiano, gli invitati ruttano, i tamburi assordano, le arpe e i violini
accompagnano i canti dei trovatori. Per non soccombere a tanta abbondanza,
pantagruelico nutrimento, bisogna saltare qualche portata: riprendere fiato
uscendo dal salone. E i diciassette giorni trascorsi a New York non m'erano certo
bastati a riprendere fiato, smaltire l'indigestione, visto che il banchetto s'era
riaperto subito con lo stesso ritmo e lo stesso menù.
Così l'autunno in cui fluttuavo nella tua esistenza come un legno che va alla
deriva, rassegnata e consapevole d'aver perduto la mia battaglia col cancro, quelle
conseguenze s'erano rivelate in tutta la loro inevitabilità, nutrendo rigurgiti di
stanchezza, germi di nuove rivolte, addirittura la scoperta che amarti togliesse
tempo e spazio a qualsiasi altro impegno.
Possibile, mi ripetevo, ma che tutto girasse esclusivamente intorno alle tue
imprese, al tuo modo di tradurre il sogno? Possibile che da quando c'eravamo
incontrati anche il mio lavoro fosse passato in seconda linea? E la scoperta
m'aveva fatto accantonare i campanelli d'allarme: l'acquisto delle bambole da
regalare ai bambini ai grandi alla gente per non essere dimenticato, la misteriosa
tristezza che t'aveva colto lungo la strada fra Corinto ed Atene, lo stesso senso
d'angoscia che avevo provato a guardare la Primavera parcheggiata in via
Kolokotroni, per non dire la giustificata paura che m'aveva tolto il respiro quando
m'avevi tradotto la lettera di Hazizikis, le sue accuse al drago. Risultato, Sancho
Panza, non fu mai lontano dal suo don Chisciotte come nei due mesi in cui
materializzasti la sfida finale. Non ti chiedevo mai a che punto eri, ignoravo con
abilità i tuoi tentativi di raccontarmelo, non leggevo i fogli che via via mi affidavi.
La trascrizione originale del dialogo registrato durante l'incontro con Fany, la
moglie di Hazizikis, per esempio. Prima di riporlo nella cartella rosa ci gettai
appena lo sguardo.
Eccolo, in quattro paginette di carta velina, un po lacunoso per via di alcune frasi
rese incomprensibili da un difetto del registratore, sufficiente tuttavia a capire il
disegno che stavi seguendo. Porta la data del 16 gennaio 1976 e lo Tsatsos di cui

parli è l'onorevole Demetrio Tsatsos, membro del tuo partito, nipote del
presidente della Repubblica. Dimmi, Fany, hai sposato Hazizikis nel 1972? No,
nel 1971.Quando lui era alla Scuola di fanteria? No, lì ci fu dal settembre al
dicembre del Settantadue.. E alla Scuola di guerra quando ci and? Nel
Settantatre.. C'era anche Spanov? Lui era vice comandante dell'Eat. Dunque,
quando stavi a Kalkida, Hazizikis era già comandante dell'Eat. Sì, la mattina
andava alla Scuola di guerra e la sera dopo le dieci andava all'Eat. Ho sentito dire
che a quel tempo Teofilojannacos voleva un governo composto di uomini politici.
No, non era lui che lo voleva, era Hazizikis.. Dimmi, Fany, quello di cui mi parlavi
poco fa e che al centro.... Dimitri Kamonas. Ha un parcheggio di automobili? Sì,
qui vicino. perché me lo chiedi? Così, per sapere. E Fotakos, sai se lo aiuta solo in
via amichevole? Sì, in via amichevole. Come Potamianos e gli altri. Uhm! Indagher
su lui. Dimmi di Hazizikis, Fany: come stava l'ultima volta che lo hai visto al
carcere? Ha parlato delle vostre faccende personali e basta? Sì, delle altre cose
non ha detto nulla. E chiaro che non ha più fiducia in te e che di certe cose non ti
parlerà più.
E poi vuol far l'ottimista. Che vuoi dire? Ho l'impressione che stia preparando
qualcosa di cui sono al corrente anche gli altri in prigione. Questo, io...
(incomprensibile). Ah! E la moglie di Teofilojannacos la vedi? Io quella neanche se
la vedessi ci parlerei. Dicono che Alfantakis le faccia la corte.
Non lo sapevo. Lui si butta su tutte le donne. E di Demetrio Tsatsos che sai? Lo
sai se le sue lettere a Hazizikis si trovano fra i documenti? Oppure sono finite
altrove? Tsatsos... (incomprensibile). E poi fa il nome di Pantelis, di
Kostantopulos. Fany, prima mi dicevi d'esser stata presente il giorno in cui
Tsatsos denunci gli studenti. Sì ma... (incomprensibile). E lui sì che ne ha di
informazioni su Tsatsos! Ma anche quando tu e Hazizikis andavate a cena con
Tsatsos, era lui che vi invitava? Sì, con sua moglie. E vero che sua moglie
chiedeva di portare i ferri per fare la calza? Sì, una sera abbiamo anche cambiato
la lampada perché ci vedesse meglio. E stata la sera che Tsatsos...
(incomprensibile). Lo diceva prima o dopo la Giunta?. Dopo, dopo. Allora non
dirmi che escludi di aver qualcosa in casa, Fany! Quel suo cugino Kuntas sta qui
ad Atene, no? Sì, ma.... Ascolta, Fany, tu non saresti compromessa. E se
qualcuno prepara un colpo di stato non devi proteggerlo.. Ma io... Ascolta, Fany,
in questa faccenda io sono assoluto. Farò fotocopie, i documenti resteranno dove

sono, e nessuno saprà che li ho avuti da te. Se c'è qualcosa contro tuo marito, ti
prometto che non la userò. Dopotutto è condannato a trentun anni e cosa
vogliono da lui? Semplicemente che resti in carcere cinque o sei anni ed esca
quando non vi sarà più il pericolo di un colpo di stato. Lo Stato non ha ne la
voglia ne l'interesse di tenerlo dentro trent'anni, non mira a vendicarsi.
A vendicarsi mirano coloro che, come tu hai detto, raccontano d'aver fatto la
Resistenza e invece si son resi ridicoli. Soltanto a loro preme che certa gente resti
in prigione: sono pieni di odio perché si vergognano di se stessi. Devi giudicare
questa faccenda da ogni lato, Fany, devi capire perché è necessario che io abbia i
documenti da cui risultano le loro responsabilità. Non necessariamente
documenti che li incriminino: documenti che dimostrino chi sono gli uomini che
occupano od occuperanno alte cariche dello Stato. Esistono questi documenti, e
dobbiamo provarlo che certa gente non fu all'altezza dei momenti difficili, che
messa alla prova non salvò nemmeno la propria dignità. Sono loro, ti dico, che
continueranno a coltivare l'odio contro un gruppo di ufficiali come tuo marito.
Ufficiali che secondo me commisero crimini contro il paese e che tuttavia
dovremmo capire. Sì, dovremmo avere il coraggio di capirli e di usargli clemenza
per evitare che questa situazione continui. Ma io.... Ascolta, ragazzina: io credo
davvero di poter guardare quei fogli senza causarti problemi e senza che nessuno
ne sappia mai nulla. E uno di questi giorni che potrebbe essere domenica
mattina... Domenica mattina per l'appunto ho una riunione alle undici. A che ora
va in chiesa tua suocera? Alle nove, nove e mezzo. E a che ora torna? Alle undici
e mezzo. Uhm! Altri? Dammi l'indirizzo preciso. Il numero 20 è verso Patissia o
verso Kifissia? Verso Patissia.
Va bene, lo troverò. E ti ripeto, non userò nulla che possa render più difficile la
posizione di Hazizikis. Ora ti accompagno a casa e lì ti lascio perché alle sette ho
un appuntamento.
Non lessi neppure le due paginette con la trascrizione di un dialogo fra te e
l'amante di Fany. Senza data, questo, ma chiaramente avvenuto dopo il primo
incontro con lei e dopo la cattura di fogli che non ti avevano soddisfatto. Eccolo:
Ma cosa ti ha detto, che non c'erano altri documenti là dentro?.
Lei ha detto che... (incomprensibile). Comunque, se è sincera nel volermi aiutare,
può venire qui. Verrà domani se le fissi un appuntamento.. Domani devo partire,
ho un impegno. In ogni caso lei può dopo le undici del mattino. D'accordo, ora

dimmi come ha reagito alla faccenda e cosa le hai detto. Le ho detto ci che mi hai
detto di dirle: che sono arrivate circa dieci persone, che l'intero quartiere era
occupato, che hanno tagliato i fili del telefono, che sono entrati tutti insieme, che
dopo pochi minuti è arrivato anche Panagulis e mi ha detto di non aver paura
perché mi avrebbe protetto se lo avessi aiutato in qualche modo. Bene, ma c'è un
punto da chiarire. Alle otto e mezzo per quanto tempo lei non è stata con te?
Siamo scesi insieme e siamo andati fino all'angolo dove mi sono accorto d'aver
dimenticato una cosa e... (incomprensibile).Ascolta, ragazzo: io, anche se mi
tagliano le gambe, vado fino in fondo a questa storia. Quindi il problema è in
quale misura tu sia sincero. Alle otto e mezzo sono usciti di casa una ragazza e
un giovanotto, ti dico, e la ragazza aveva tutte le caratteristiche di Fany, il
giovanotto sembravi proprio tu. Portavano un sacco da viaggio. Si sono recati in
via Taxiarcas, sono entrati in una casa. Se eri tu il giovanotto, è meglio parlarci a
carte scoperte.. Ma io... (incomprensibile). E domani è meglio dire a Fany di stare
attenta se per caso ha altri documenti in casa. Naturalmente ho preso le mie
precauzioni: sia nell'eventualità che la casa venga sorvegliata, sia nel caso che la
faccenda si risappia in seguito a negligenza o pettegolezzo. Capito? Sì, ma io ho
un dubbio, Alekos: possibile che lui abbia lasciato tanti documenti lì in casa?
Possibile se mi dici che Fany ha preso lì le fotocopie e le ha date a Kuntas.
Fany non ha dato le fotocopie, a Kuntas gliele ha date.
Quanto ai tuoi dubbi, tu che sei stato tanto in casa sua, non avevi alcuna
curiosità di guardare o almeno di chiedere? Sì ma lei diceva che non doveva
interessarmi, sicché non chiedevo nulla. Viene sempre un mucchio di gente in
quella casa, eppure non sto a chiedere chi è quello e quell'altro. Io so soltanto che
alla Scuola di guerra lui ne aveva a pacchi di quei documenti e che li sistemava
nelle cartelle. Ieri a che ora è andata a visitare Hazizikis in carcere? Ieri era
giovedì e ci è andata a mezzogiorno meno diciassette. Lo so perché sono rimasto
ad aspettarla in un bar. perché me lo chiedi? E a che ora sei andato a casa di
lei?. Ieri non ci sono andato per niente, ti dico.
Lei ha telefonato verso mezzogiorno e mi ha detto: "Jannis, i miei genitori arrivano
tra mezzogiorno e mezzo e l'una. Che dici, vado?" "Sì, vacci" ho risposto. "Allora
accompagnami" ha detto lei. Così sono andato a prenderla e... (incomprensibile)..
Ascolta, ragazzo: non dirmi che l'automobile era la mia. E non dirmi che certe
cose non ti piacciono. Lo sai bene che fino a quando questa storia non sarà

chiarita io conoscer ogni tuo movimento!..Alekos, perché mi parli così? E
aggiungo: quei fogli su Averoff... (incomprensibile). Credi davvero che fosse nel
Kyp?!? Le autorità... (incomprensibile). Ragazzo, le autorità non sono al corrente.
Se avessi saputo che gli archivi erano lì ci avrei mandato il procuratore generale,
te l'ho già detto. Per ho aggiunto che, oggi come oggi, una mossa simile non
conviene più. E di lì tu non mi hai portato neanche un foglio. Ma è Fany che... Se
Fany è come tu dici, se davvero non si fa scoprire da suo marito, se davvero
agisce in modo che nessuno s'accorga di nulla, e se riesce a vedere in me un
fratello...
Quanto alle lettere di Hazizikis a Fany, sempre più numerose dopo quella che
m'avevi consegnato ad Atene, perfino averle in custodia mi disturbava e non
riuscivo a toccarle senza il disagio che viene da un'involontaria pietà. La
traduzione sommaria che un giorno ne avevi fatto, ridendo, m'era bastata a
concludere che soltanto la prima conteneva notizie di natura politica; le altre non
erano che suppliche strazianti di un coniuge innamorato e disposto a tutto pur di
trattenere una moglie che vuole abbandonarlo. Non capivo nemmeno perché tu le
collezionassi con tale scrupolo: vendetta contro lo scorpione che t'aveva seviziato
l'anima, irriso anche dopo la condanna a morte? Coerenza al giuramento fatto a
te stesso quella terribile notte? E non avrei creduto ai miei orecchi se tu m'avessi
detto che, ormai, ne vendette, ne giuramenti ti interessavano più, che nelle frasi
grondanti disperazione, impotenza, tesoro mio non andartene, bambina mia non
lasciarmi, vedevi esclusivamente materiale per la tua strategia. Te ne servivi
insomma con assoluto distacco, l'agghiacciante freddezza che deriva dal principio
niente è indegno quando il fine è degno, le leggevi per trarne notizie,
ragionamenti. Primo: se lui continuava a pregarla, lei non s'era decisa al divorzio.
Secondo: se lei non si decideva al divorzio, lui manteneva il possesso e il controllo
dei documenti che le aveva affidato.
Terzo: perché lui ne perdesse il possesso e il controllo, bisognava che il divorzio si
materializzasse. Eccoti perciò diventare il gran regista della loro tragedia, il gran
burattinaio che tira i fili delle sue marionette per farle ballare a suo piacimento;
eccoti cercare a Corfù i genitori di lei che, risulta dalle lettere, sono favorevoli al
divorzio; eccoti proporre avvocati, cavilli giuridici, sostenere quanto sia crudele
tener la poveretta legata a un marito che resterà trent'anni in galera; eccoti
manipolare con promesse e proposte l'amante, accendere il suo ardore,

suggerirgli una fuga all'estero con lei e con il bambino nato dal matrimonio. E,
quando t'accorgi che costui è un debole, un disgraziato incapace d'opporsi
all'influenza che Hazizikis esercita ancora sulla giovane moglie, eccoti piombare
sulla preda più saporita: consigliandola, circuendola, corteggiandola,
seducendola finché ogni residuo di legame coniugale è dissolto, e lo stesso
amante liquidato tanto non giova più.
Tutto ciò nei due mesi in cui io sono occupata a smaltire l'indigestione di lepri,
lucci, fagiani, aragoste, pernici, capponi, caprioli, vitelli farciti, e verso i maledetti
documenti esibisco quel disinteresse rabbioso, eludendo i tuoi tentativi di
confidarti, respingendo le tue richieste d'aiuto. Sai, devo andare a Corfù. Vieni
con me per favore! Così sembra che sia una vacanza. Corfù? No, non ne ho voglia,
non posso. Devi darmi una mano, ho un problema: sistemare tre greci in Italia.
Una coppia e un bambino. Chi è questa coppia, chi è questo bambino? Indovina.
Ah, no! Neanche per sogno! Sono nervoso, sai, non riesco a entrare in quella casa.
Avevo saputo che lei cercava una baby sitter e mi illudevo di farle assumere una
balia che conosco, ma non l'ha presa. E se con la cera mi procurassi il calco della
serratura? Non voglio saperlo! L'unica volta che ti prestai attenzione fu quando mi
descrivesti la cattura dei primi pacchi, quella avvenuta grazie alla complicità del
giovanotto. E inutile dire che le cose non stavano come, secondo i tuoi ordini, lui
aveva raccontato a Fany e come in aprile tu avresti raccontato alla stampa.
Niente quartiere occupato, niente fili del telefono tagliati, niente commando di
dieci persone che irrompono precedendoti. Da solo eri entrato, alle nove di sera,
quarto piano, porta a destra dell'ascensore, da solo avevi localizzato la stanza, la
prima a sinistra, una sala da pranzo, e individuato il mobile giusto, una specie di
credenza con gli scaffali, e rintracciato i pacchi nascosti nell'ultimo scaffale in
alto. Da solo li avevi rubati in più tappe, e ogni tappa un'agonia perché all'inizio
credevi che in casa non ci fosse nessuno ma poi t'eri accorto che nella camera in
fondo al corridoio dormiva la vecchia madre di Hazizikis.
L'avevi udita russare. Terrorizzato all'idea che si svegliasse, t'eri messo quindi a
lavorare più in fretta, trattenendo il fiato, e ti sembrava che il viaggio dalla stanza
alle scale, dalle scale all'automobile, dall'automobile alle scale, dalle scale alla
stanza di nuovo, non finisse mai. Il tuo cuore batteva cannonate sorde, il tuo
corpo sputava sudore ghiaccio, tremavi e, al terzo viaggio, il pacco era caduto per
terra con un gran tonfo.

La vecchia s'era svegliata: Jannis, sei tu Jannis? T'eri fermato col cervello in
fiamme. Ora si alza, avevi pensato, se si alza mi riconosce, se mi riconosce io che
faccio? Sei tu, Jannis? Rispondere o no? E se rispondo, se s'accorge che la mia
voce non è la voce di Jannis? Un respiro lungo e poi: Sì, sono io.
Ah! Non far rumore, Jannis. Voglio dormire. Dopo t'eri sentito male per questo, la
notte avevi avuto un incubo. Avevi sognato una piovra. Fra tutti i pesci la piovra
era il pesce che più di qualunque altro simboleggiava ai tuoi occhi il malaugurio e
la morte: non si sfugge a una piovra, dicevi, ovunque tu scappi lei ti raggiunge e ti
afferra. E questa piovra era immensa, mostruosa, aveva la testa larga quanto una
piazza, i tentacoli lunghi quanto i viali della città, infatti non stava in mare: stava
dentro la città. Le ventose incollate ai muri degli edifici, riempiva ogni vuoto
inghiottendo qualsiasi cosa si opponesse al suo espandersi, automobili, corpi,
carretti, autobus, e intanto ruggiva. Un ruggito cupo, rabbioso, una specie di
invocazione che saliva al cielo e poi ricadeva giù come una pioggia formando una
parola che tu non capivi. Una parola che dava insieme gioia e tristezza.
Assomigliava, pensa, alla parola vita, zoì. vivo, zi. Eppure mi sembrava d'essere
morto. Ma neanche a quel sogno detti importanza.
Il fatto è che non ci si accorge mai in tempo di ciò che è importante e ciò che non
lo è. finché l'essere amato t'opprime con le sue pretese, i suoi lacci, ti senti rubato
a te stesso e ti sembra che rinunciare per lui a un lavoro o a un viaggio o a
un'avventura sia ingiusto; apertamente o in segreto covi mille rancori, sogni di
libertà, vagheggi un'esistenza priva d'affetti dentro cui muoverti come un
gabbiano che vola nel pulviscolo d'oro. Che supplizio inaudito le catene con cui
l'essere amato ti lega impedendoti di alzare le ali, che ricchezza sterminata lo
spazio di cui ti chiude con le stesse catene le porte. Però, quando lui non c'è più,
e quello spazio si spalanca infinito dinanzi a te, sicché puoi volare nel pulviscolo
d'oro a tuo piacimento, gabbiano senza affetti e senza lacci, avverti un vuoto
spaventoso. E il lavoro o il viaggio o l'avventura che gli sacrificasti così a
malincuore ti appaiono in tutta la loro inutilità, non sai più cosa fartene della
libertà riconquistata, come un cane senza padrone, una pecora senza gregge, ti
aggiri in quel vuoto piangendo la schiavitù perduta e daresti l'anima per tornare
indietro, rivivere le pretese del tuo carceriere.
Perché il rimorso ti strozza. Il rimorso è una piaga incurabile.

Invano cerchi di medicarla con attenuanti, giustificazioni, se avessi saputo, se
avessi indovinato, invano cerchi di ignorarla affermando che tu hai mancato verso
di lui quanto lui mancò verso di te, quindi i conti son pari. Lì per lì la piaga
sembra cicatrizzarsi, dissolversi, ma v'è sempre un momento in cui un suono o
un odore o un colore, la vista d'un foglio, d'una automobile verde che passa, la
riaprono di nuovo con nuove sensazioni di colpa, autoaccuse, l'inequivocabile
fatto che lui è morto e tu sei vivo, quindi i conti non sono pari. Ne alludo soltanto
al rimorso di non aver compreso che in quei documenti era scritta la tua morte.
Alludo anche al rimorso di non aver compreso che intorno a te tutto stava
crollando per ributtarti dentro la solitudine atroce degli anni in cui eri sepolto a
Boiati.
La parola tutto include anche l'illusione che nella politica dei politici ci fosse
posto per te. Gli archivi di Hazizikis stavano ormai nelle tue mani e l'impresa
crudele s'era conclusa in modo crudele quando ti convincesti che, malgrado
quello, nella politica dei politici non c'era posto per te e che l'errore più grave era
stato quello di entrare in un partito. Un individualista con fantasia e dignità non
può appartenere a un partito. Per il semplice fatto che un partito è un partito,
cioè un'organizzazione, una cricca, una mafia, nel migliore dei casi una setta che
non permette ai suoi adepti di esprimere la propria personalità, la propria
creatività. Anzi gliela distrugge o almeno gliela piega. Un partito non ha bisogno
di individui con personalità, creatività, fantasia, dignità: ha bisogno di burocrati,
di funzionari, di servi. Un partito funziona come un'azienda, un'industria dove il
direttore generale (il leader) e il consiglio di amministrazione (il comitato centrale)
detengono un potere irraggiungibile e indivisibile. Per detenerlo assumono
soltanto manager ubbidienti, impiegati servili, yesmen, cioè gli uomini che non
sono uomini, gli automi che dicono sempre sì. In un'azienda, un'industria, il
direttore generale e il consiglio di amministrazione non sanno cosa farsene delle
persone intelligenti e fornite di iniziativa, degli uomini e delle donne che dicono
no, e questo per un motivo che supera perfino la loro arroganza: pensando e
agendo gli uomini e le donne che dicono no costituiscono un elemento di disturbo
e di sabotaggio, mettono rena negli ingranaggi della macchina, diventano sassi
che rompono le uova nel paniere. L'ossatura di un partito e di un'azienda,
insomma, è quella di un esercito dove il soldato ubbidisce al caporale che a sua
volta ubbidisce al sergente che a sua volta ubbidisce al tenente che a sua volta

ubbidisce al capitano che a sua volta ubbidisce al colonnello che a sua volta
ubbidisce al generale che a sua volta ubbidisce allo Stato maggiore che a sua
volta ubbidisce al ministro della Difesa: preti, monsignori, vescovi, arcivescovi,
cardinali, Curia, Papa. Guai all'illuso che crede di portare un contributo
personale con la discussione e lo scambio di vedute: finisce espulso o degradato o
lapidato, come si conviene a chi non è in grado di capire o finge di non capire che
in un partito, un'azienda, si consente solo di discutere su ordini già dati, scelte
già fatte. Purché, è sottinteso, la discussione non prescinda dai due sacri
principi: ubbidienza e fedeltà. Naturalmente tutto ci assume sfumature diverse a
seconda del partito. Ovvio che un partito con una ideologia precisa, una teoria
cristallizzata, è il più feroce nell'esigere ubbidienza e fedeltà, nel reprimere
l'apporto creativo dell'individuo: più una chiesa è rigorosa, più rifiuta i protestanti
e condanna al rogo gli eretici. Paradossalmente per, gli abusi e le infamie che una
simile chiesa commette sui suoi adepti hanno un senso, una giustificazione: la
forza della sua fede, la nobiltà almeno apparente dei suoi programmi o propositi.
Io ti schiaccio perché voglio creare interra Regno dei Cieli, e perché lo voglio
creare grazie al dogma del materialismo storico. Invece un partito che non ha una
teoria ne un modello ideologico, un partito che non sa cosa vuole ne come lo
vuole, non può portare a sua discolpa neanche motivi ideali. Di conseguenza, i
suoi abusi e le sue infamie e le sue pretese di ubbidienza, di fedeltà, sono imposte
da arrivismi personali, ambizioni private. Cricche dentro la cricca, mafie dentro la
mafia, chiese dentro la chiesa, e con l'aggravante di una malattia che nei partiti
senza dottrina è contagiosa quanto la peste: la corruttibilità e la corruzione degli
yesmen. In altre parole, se il partito dottrinario schiaccia coi suoi principi chi
protesta o disubbidisce, il partito che non sa cosa vuole ne come lo vuole rigetta
come un corpo estraneo chi non si adegua alla sua assenza di principi, cioè alle
sue menzogne, alle sue ipocrisie, alle sue clientele.
Ebbene, proprio questo era il tipo di partito che avevi ritenuto capace di ospitare
la tua fantasia, la tua dignità, la tua personalità, la tua creatività. E, quasi ci non
bastasse, nell'errore s'era inserita la monotona vecchia illusione alla quale ci
abbandoniamo, per mancanza di scelta e per impotenza, tutti noi che crediamo al
miraggio di un mondo che cambia: poter ancora lottare appoggiandoci alla
barricata che ha nome Sinistra. Infatti, escluso il breve periodo della campagna
elettorale, dei comizi in cui avevi sbugiardato i Papandreu, i direttori generali, i

consigli di amministrazione della sinistra ufficiale, ed escluso quel viaggio a
Mosca di cui soltanto gli amici sapevano qualcosa, non avevi fatto gran che per
ricordare che la merda è identica a destra, a sinistra, ed al centro. Voglio dire:
non t'eri mai impegnato a conduròre la battaglia su più fronti
contemporaneamente. Al contrario, avevi scelto la strategia del combattere un
nemico per volta, avevi concentrato le tue energie contro la destra e basta, contro
il drago e basta. Ora devo occuparmi di lui. Poi, se sarò vivo, mi occuperò degli
altri.. Di proposito insomma avevi rinunciato ad agire secondo le tue convinzioni e
a tener conto che la sinistra è la migliore alleata della destra, che nei paesi dove
essa sta al potere rappresenta il masso in cima alla Montagna, che nei paesi dove
non ci sta sostiene quel masso, gli Averoff, imitandone il gioco o integrandosi nel
loro sistema. Stessi mestieranti, stessi arrivisti, stessi opportunisti in tempo di
pace; stessi traditori o stessi vigliacchi, spesso, in tempo di guerra. E così t'eri
comportato come se il drago non fosse un drago a due teste, come se tu ignorassi
che è inutile tentar di tagliare la prima testa se non si taglia anche la seconda,
che soltanto attraverso una duplice e simultanea decapitazione si ottiene la
scomparsa del mostro e si può piantare un albero nuovo. Ammesso, s'intende,
che un albero nuovo dia buoni frutti, che il miraggio d'un mondo che cambia
nasconda un po di verde e un po d'acqua.
Non è forse vero che gli esseri umani non cambiano, che cambiano solo gli
scenari da cui il miraggio ci abbaglia? Da millenni inseguiamo il miraggio
piangendo, morendo, e poi ci ritroviamo sempre al medesimo punto. Magari con
un sindacato o un partito in più, una ideologia o una scoperta tecnologica in più,
per aggravare il bagaglio della nostra perfidia e della nostra imbecillità. Per
restare dove eravamo centomila anni or sono, con un drago a due teste. Il fatto è
che quando ti ricordasti che il drago aveva due teste era ormai troppo tardi per
tornare indietro e ricominciare daccapo la sola battaglia possibile: quella che si
svolge su più fronti contemporaneamente. L'unica cosa da fare era voltar le spalle
alla politica dei politici, all'azienda in cui t'eri ficcato dimenticando che assume
manager ubbidienti, impiegati senili, yesmen, mai uomini e donne che dicono no
e mettono rena negli ingranaggi della macchina. E lo facesti. Rinunciasti a ogni
appoggio, recuperasti la tua indipendenza. Per in tal modo ti restituisti anche alla
solitudine che ti avrebbe esposto alla logica conclusione della tua fiaba: essere

fisicamente e moralmente ammazzato da tutti, cioè per mano di mercenari
dell'una e dell'altra sponda.
Questo maturò, anzi precipitò, con le prove sul collaborazionismo di quel
Demetrio Tsatsos, onorevole, nipote del presidente della Repubblica, membro del
tuo partito, e con l'inevitabile ignavia che il tuo partito vi oppose. Fany non aveva
mentito la sera in cui l'avevi interrogata col registratore nascosto nella giacchetta
e il microfono nel polsino della camicia. Non pago di frequentarne la casa e
invitare i due coniugi a cena, Demetrio Tsatsos aveva anche denunciato studenti
dell'opposizione. Chi egli fosse, del resto, risultava dalle letterine a Nicola
Hazizikis e al capo dei torturatori di via Babulinas. Nicola mio, il discorso di
Papadopulos al pranzo della stampa era meraviglioso! E una vera vergogna che
certi portatori di fango non lo riconoscano. Amico signor Dascalopulos! Ho saputo
che lei è stato promosso e voglio essere il primo a congratularmi! Promuovere un
uomo della sua cultura e della sua civiltà è un caso eccezionale in questo paese di
mediocri, e il suo incarico al vertice della polizia è una speranza per il futuro! Suo
Dimitri Tsatsos.. Chiedesti dunque che fosse convocato il comitato direttivo del
partito e, lancia in resta, ti buttasti a capofitto nel torneo: che roba era questa,
che gente?! Ma come, cervcavi le prove su Averoff e insieme a quelle ne trovavi su
uno del tuo partito?! Che fosse cacciato subito, senza esitazione. O via lui o
via io.. Ed ecco le cricche dentro la cricca, le mafie dentro la mafia, le chiese
dentro la chiesa, le clientele, le menzogne, le ipocrisie, gli opportunismi: calma,
ragazzo, calma! Non drammatizziamo, pensiamoci su. Piano, ragazzo, piano,
vediamo di che si tratta, studiamo la cosa.
Cacciare così, sui due piedi, un iscritto che non era il signor Nessuno ma un tipo
importante, deputato, professore d'università, nipote del presidente: che diamine!
Ammesso che le tue accuse fossero esatte, cosa aveva combinato in fondo costui?
S'era dimostrato debole: non è mica obbligatorio nascere eroi. E poi cos'era
questa storia degli archivi segreti dell'Esa? Chi t'aveva autorizzato a ficcare il
naso in una faccenda così delicata? Quando si appartiene a un partito non si può
mica agire di propria iniziativa senza informarne il partito! Disciplina, perbacco,
disciplina! Documenti gravi su Averoff? Eh! Studiamoli, consideriamo i pro e i
contro. Potrebbero giovare al partito e potrebbero invece danneggiarlo. I più
schifosi erano i membri del consiglio di amministrazione: i capi delle chiese, delle
correnti, delle fazioni. Alcuni di loro, oltretutto, accettavano finanziamenti dalla

socialdemocrazia tedesca. E Demetrio Tsatsos era uno dei protetti della
socialdemocrazia tedesca, durante la Giunta era stato a Dusseldorf ospite della
socialdemocrazia tedesca: toccare lui significava rischiar di perdere i
finanziamenti. E dimmi se, tra una persona perbene e un bel mucchio di marchi,
un partito simile sceglie la persona perbene.
Capisci che cosa mi hanno risposto?! Capisci che cosa ne farebbero loro dei miei
documenti?! Li nasconderebbero!.
Alekos, perché te ne meravigli? I partiti fanno sempre così: i documenti li vogliono
per nasconderli e, all'occorrenza, servirsene come ricatto. Se tu non mi dai questo
io ti frego spiattellando che hai tradito che hai rubato che sei frocio.
Qualsiasi partito ti avrebbe risposto nel medesimo modo. Anche un partito più
serio del tuo. Bisogna vedere se giova al partito, ti avrebbe detto. E il tuo partito...
Non è più il mio partito. Ho spaccato una seggiola sul tavolo, ho dato le
dimissioni. Ah! E le hanno accettate? No, le hanno respinte. Ma non cambia
nulla. Per quel che mi riguarda è finita. Capisco.
E ora?. Ora resterò in Parlamento come indipendente di sinistra. Senza un partito
alle spalle. Anzi con dei nemici dentro il partito che continua a considerarsi il tuo
partito. Non me ne importa. Per mentre dicevi così nei tuoi occhi c'era un'ombra
di angoscia: sapevi benissimo che, senza un partito alle spalle e con nemici
dentro il partito che avrebbe dovuto appoggiarti, tutto sarebbe stato doppiamente
difficile. In che modo usare, ad esempio, quei fogli per cui avevi tanto sofferto e
fatto soffrire? Consegnarli alla magistratura perché li ignorasse? Regalarli a una
commissione del Parlamento perché li insabbiasse? Pubblicarli? Pubblicarli,
certo. Ma dove? Quale giornale ne avrebbe avuto il coraggio? Uhm. Lo so. Dovrei
avere un giornale tutto mio. E se fondassi un giornale? Un giornalino. Un
settimanale o un quindicinale che duri tre o quattro mesi: il tempo di pubblicare
ciò che ho. Ho tanta roba, sai? E ciò che non ho, lo avrò presto. Oltre agli archivi
dell'Esa esistono gli archivi del Kyp. E ho scoperto un amico al Kyp. Un ufficiale
democratico, onesto. Il marito di una ragazza che mi aiutò ai tempi dell'attentato.
Mi ha detto: io te ne d un baule
di documenti! Pensa: le carte sul golpe a Cipro, sulla Cia! Sui legami tra il Kyp e
la Cia! Tra Averoff e il Kyp e la Cia! Altro che le letterine di Tsatsos a
Dascalopulos e Hazizikis! Se riuscissi a dimostrare che Averoff sapeva del golpe a
Cipro, che d'accordo col Kyp e la Cia trasse in inganno perfino Joannidis... Il

problema è portar via quel baule. Non voglio procurare guai all'amico ufficiale.
Non è mica un aguzzino o una puttanella vogliosa, lui! Alekos... Sì, un giornale.
In copertina, i documenti su Averoff: alcuni che posseggo ed altri che troverò nel
baule.... Alekos, lascia perdere il baule. Lo sai cosa significa fondare un giornale?
Lo sai quanto costa? Soltanto chi ha potere, un potere finanziario o politico, può
fondare un giornale. Ci vuole molto denaro per fare un giornale, molto. Mi
indebiterò. Con chi, Alekos? Chi non ha denaro, non può indebitarsi. I debiti sono
un lusso dei ricchi. Nessuna cartiera ti venderà la carta. Nessun giornalista
scriverà per te. Nessuna tipografia stamperà per te sapendo che non hai denaro..
Lo troverò.. Dove? Dai medesimi contro i quali ti batti? Dovrebbe aiutarti un
partito, dovresti rivolgerti a un altro partito... Io non avrò mai più un partitooo!
Mai! Non voglio nemmeno udirla la parola partitooo! Mi fa vomitare la parola
partitooo! E ora l'angoscia nei tuoi occhi non era un'ombra e basta: gocciolava
lacrime lunghe, bagnava le guance, i baffi, inzuppava la cravatta.
Qualche giorno dopo seppi che il tuo isolamento indifeso aveva già dato i suoi
frutti. A due riprese misteriosi visitatori notturni erano entrati nell'appartamento
di via Kolokotroni dove, con una certa incoscienza, custodivi le fotocopie degli
archivi. Una volta erano entrati mentre cenavi in un ristorante fuori città e una
volta mentre dormivi nella casa col giardino di aranci e limoni a Glyfada. Non
avevano trovato nulla perché tutto stava nella camera chiusa a chiave e non
erano stati capaci di forzarne la serratura. Per avevano messo a soqquadro
l'ufficio e lasciato un biglietto di insulti. Come intendi difenderti, Alekos? In
nessun modo, alitaki. Ciò che deve essere, è ciò che dovrà essere, sarà.
Semplicemente cercherò di condurre in porto questa faccenda. E fu allora che
resuscitò in pieno il mio amore per te e riprese il folle banchetto di lepri lucci
fagiani aragoste pernici caprioli vitelli farciti di disperazione. Mano nella mano, lo
avremmo celebrato per ventotto giorni. Gli ultimi ventotto giorni che gli dei ci
concessero.
CAPITOLO III
Era successa una cosa strana. Eri piombato a Roma senza avvertirmi e: Ho
trovato chi mi pubblica i documenti! Chi? Un giornale del pomeriggio, Ta Nea.
Quando? Presto. Entro qualche settimana. Il giornalista di Ta Nea ci sta già
lavorando.. Dio sia lodato! E allora che ci fai qui in Italia? Sono venuto a scrivere

il libro. Il libro? Che libro? Una volta, è vero, avevi detto che ti sarebbe piaciuto
scrivere un libro sull'attentato e il processo e Boiati ma, più che un progetto,
m'era parso un desiderio. Possibile che di punto in bianco, e mentre stavi
immerso fino al collo nella faccenda dei documenti, tu avessi riesumato l'idea? Il
libro di cui ti parlai, no? Dopo l'accordo con Ta Nea ho pensato: pubblicare i
documenti non basta. Bisogna allargare il discorso, spiegare perché un uomo che
incominci con le bombe finisce col battersi a colpi di carta. Poi ho pensato
perbacco, questa gente che scrive libri senza aver nulla da raccontare, io ho una
storia da raccontare, una storia formidabile, e non l'ho ancora scritta! Ho preso la
valigia e sono venuto qui: per andare a Firenze. Firenze?.
Certo, per stare tranquillo. Non potevo mica mettermi a scrivere in via
Kolokotroni o a Glyfada! Troppi problemi, troppe distrazioni. Sì, per... Credi che
non ne sia capace? Sbagli.
Ce l'ho ben chiaro in testa, il mio libro, diviso per capitoli e tutto, in fondo mi son
sempre sentito scrittore. So perfino come lo incomincerà: con la scena
dell'attentato. Io che cerco di riannodare il filo arruffato, lui che esce dalla sua
villa di Lagonissi, il mare che s'infrange sulla scogliera... E se avrò qualche
difficoltà, mi aiuterai. Sì, per... Il tempo? Otto mesi, mi bastano otto mesi. A
maggio chiederò un permesso al Parlamento e a novembre consegnerò il
manoscritto. L'importante è che incominci subito e che nessuno mi disturbi, cioè
che nessuno sappia dove sono. Se incomincio domattina e vado avanti per tre
settimane, quattro, posso prendermi una pausa quando escono i documenti
e...Domattina? Sì, domattina si parte.. Alekos, domattina non posso. Non lo
sapevo che saresti venuto ed ho alcuni impegni. Non vorrai lasciarmi partire solo!
Se mi serve un consiglio, un suggerimento! Ti rifiuteresti di darmi un consiglio,
un suggerimento? No, evidente, no, ma che senso ha tanta fretta? Non posso
aspettare, mi brucia. Inoltre non voglio farmi vedere a Roma. Sennò mi cercano,
mi distraggono. Non deve saperlo nessuno che sono qui, ripeto!. Ne c'era stato
verso di dissuaderti. Senza curarti delle mie proteste, dei miei programmi,
sostenendo che all'ispirazione non si comanda, che la mia presenza t'era
indispensabile, che non potevo negartela, mi avevi costretto a partire con te. E
chiedi al portiere di prenotarci un volo per Parigi, così credono che si vada a
Parigi.

Una cosa strana, sì, proprio strana. Ma non mi abbandonavo a congetture o
dubbi ora che, chiuso dentro la casa nel bosco, ti dedicavi al libro con serietà e
costanza: a vederti chino su quei fogli chiunque avrebbe creduto che esso fosse
l'unico scopo del tuo viaggio in Italia, che nient'altro t'avesse spinto a esiliarti fra
quelle quattro mura. La mattina ti svegliavi presto, allineavi sul tavolo la carta, le
biro, le pipe, il tabacco, l'accendino, poi mi chiedevi di lasciarti solo e restavi lì a
comporre con l'impegno di uno scolaro che si prepara agli esami. Scrivevi lento e
senza ripensamenti, con la facilità di chi obbedisce a uno sfogo piuttosto che a
un'ispirazione, non sollecitavi mai i consigli per cui mi avevi trascinato a Firenze,
e la sera si aggiungevano sempre due o tre pagine fitte di calligrafia precisa, quasi
prive di cancellature. La prova che non eri stato in ozio, e puntualmente me ne
stupivo. Che fosse la casa nel bosco? T'era sempre piaciuto tornarvi, ritrovarvi
l'atmosfera e gli oggetti che riconducevano a un passato di intimità e di tenerezze,
la poltrona a dondolo, la lampada Tiffany, il grande armadio a specchio dove gli
alberi si riflettevano perché gli uccelli corressero a posarsi su una frasca che non
esisteva.
Neanche il cattivo ricordo delle notti in cui ci molestavano con la torcia, della
notte in cui volevi affrontarli e per impedirtelo avevamo perso il bambino, erano
mai riusciti a diminuire l'incanto che quel rifugio esercitava su te. Perfino ad
Atene rimpiangevi il parco coi pini e i cipressi e gli ippocastani che sfioravano il
terrazzo offrendo castagne da cogliere o da accarezzare, e le siepi di alloro, i
pergolati di rose, i cespugli di lillà. Ma allora perché non andavi mai a fare due
passi, perché non ti affacciavi mai un attimo alla finestra, perché tenevi sempre le
persiane chiuse? Ogni volta, prima di uscire, le spalancavo; ogni volta,
rientrando, le trovavo chiuse. E sebbene all'inizio non vi dessi troppa importanza,
anzi concludessi che una finestra aperta è un invito cui si resiste male, l'eroismo
di scrivere mentre il sole ci chiama richiede una disciplina da professionisti non
da scolaro, presto me ne allarmai perché vidi altri particolari bizzarri. Di sera,
anche le imposte erano tappate e le tende tirate con tanta cura che fuori non
filtrava un filo di luce: l'unica lampada accesa era quella sulla tua scrivania. Poi il
telefono. Non rispondevi mai a telefono, tu che per il telefono avevi quel culto,
quella passione. Se, trovandomi fuori, volevo comunicare con te, non avevo altra
scelta che tornare a casa. Alekos, ti ho chiamato tutto il pomeriggio, accidenti!
Non hai sollevato il ricevitore una volta! E a me chi lo diceva che chiamavi tu?

Non abbiamo stabilito che nessuno deve sapermi qui? Poi la storia della chiave.
La casa nel bosco aveva un difetto: la porta non si chiudeva a scatto bensì con
una serratura a maniglia così elementare che, bloccandola dall'esterno, chi si
trovava all'interno restava intrappolato. Ammenoché non disponesse di una
seconda chiave. La seconda chiave l'avevi dimenticata ad Atene e il giorno in cui
avevo detto di volerne fare una copia t'eri opposto: No! Una chiave è sufficiente.
Tanto a me non serve. Tienila tu e uscendo chiudi bene. E se tu volessi uscire?.
Non uscirò. E se venisse qualcuno? Non deve venire nessuno. Supponiamo che
venga lo stesso qualcuno.
Se viene, non ho la tentazione di aprire. Ed evito cattivi incontri. Infine, il
comportamento che tenevi all'ora di cena. Mangiare al ristorante era sempre stato
per te un piacere irrinunciabile, del ristorante amavi la scelta dei cibi, il
trascorrere del tempo fra piatto e piatto, i rumori, la folla, ed ecco che di colpo ci
ti infastidiva: volevi cenare a casa. Preferisco qui, è così bello starcene qui. Non
senti il bisogno di muoverti, vedere un po di gente, svagarti? No. E va bene,
meglio così.
Meglio così. Niente è più egoista dell'amore, si sa. A volte, pur di isolarci con
l'essere amato, ci piegheremmo a qualsiasi menzogna con noi stessi, qualsiasi
cecità; v'è una gioia quasi turpe nell'averlo esclusivamente per noi, e troppo a
lungo io t'avevo diviso con gli altri. Del resto, senza gli altri non ci annoiavamo
mai: l'incontro di due solitudini è anche l'incontro di due immaginazioni e la
nostra fantasia sapeva riempire ogni silenzio, ogni vuoto. Come si allargava la
stanza quando, la sera, cessavi di scrivere e ti regalavi al riposo! Se mettevi un
disco, diventava un locale con l'orchestra; se accendevi la televisione, diventava
un teatro; se spostavi il tavolo, diventava una pista da ballo; se lo portavi dinanzi
all'armadio con gli specchi diventava una sala dove due duplicati di noi
mangiavano e ballavano e ridevano perché tu fingessi di protestare: Pappagalli,
cretini! V'erano sere in cui sentivo una specie di gratitudine per quell'esilio
assurdo e le sue cause sconosciute, una segreta speranza che durasse più a
lungo possibile, ed eran le sere in cui la mia cecità precipitava negli abissi della
stoltezza. Sarebbe bastato riportare il discorso sugli archivi o sul dissidio col tuo
partito o sui misteriosi visitatori notturni di via Kolokotroni per capire che stavi
dilaniandoti in un'agonia tanto segreta quanto disperata: l'attesa di qualcosa di
tremendo che forse non riuscivi a identificare con precisione ma che in ogni caso

consisteva nell'attesa di una sconfitta mortale. Il fatto è che neanche tu parlavi
mai di quegli argomenti, tutto ci che dicevi ruotava intorno al libro cioè
all'estremo tentativo di dar corpo a qualcosa di solido prima di morire: affinché ci
che avevi sofferto non andasse completamente perduto.
Non facevi che discuterne per sciogliere i nodi che aggrumavano la tua mente,
sviscerare gli episodi e i personaggi e i problemi cui bisognava dar rilievo senza
giovare a nessuno, senza fare il gioco di nessuno. Il processo, ad esempio, che
volevi presentare come simbolo di tutti i processi che le tirannie celebrano a
destra e a sinistra avvalendosi di false confessioni, prove inventate, testimoni
intimiditi, difensori impauriti, giornalisti pusillanimi, sicché all'imputato non
resta che l'orgoglio di invocare la propria condanna. E i carcerieri come Zakarakis
che, senza accorgersi d'essere carcerati essi stessi, vittime quanto le loro vittime,
riassumono tutta la stupidità del gregge che tace o obbedisce al potere. E il
problema della violenza opposta alla violenza che lì per lì sembra legittima ma poi
scopri che è sbagliata perché sostituisce un abuso con un abuso, prepara un
nuovo padrone al posto del vecchio padrone. E il parallelismo delle barricate
ideologiche che celano il grottesco fanatismo delle squadre di calcio e mirano allo
stesso sfruttamento dell'individuo, dell'uomo. Ci credevi tanto, a quel libro, che
sembrava tu avessi dimenticato con me i protagonisti della tua ultima grande
fatica. Invece non li avevi affatto dimenticati.
Al decimo giorno il ritmo del tuo lavoro rallentò. Le tre pagine giornaliere
divennero due, sebbene molto più fitte, scritte con calligrafia molto più piccola.
Poi divennero una, sebbene ancora più fitte, scritte con calligrafia ancora più
piccola. Poi mezza e, a questo punto, buttasti via quasi tutto per ricominciare
daccapo ma, di solito, senza seguire lo sviluppo logico della narrazione. Oggi ho
abbozzato una scenetta che inserirò fra sei o sette capitoli. perché? Così. Oggi ho
preso gli appunti per un dialogo che non so dove sistemerò.. perché? Così. Vuoi
che ti aiuti, Alekos? Vuoi che lo scriviamo insieme per un po? No perché anche
scrivendo fitto arriveremmo troppo presto. Arriveremmo troppo presto dove? A
pagina ventitre. E perché diavolo non vuoi arrivare a pagina ventitre?!. perché...
ho fatto un sogno. Che sogno?! Ho sognato di scrivere il libro. E, nel sogno, il
libro si interrompeva a pagina ventitre. Non capisco. Si interrompeva perché a
pagina ventitre morivo. Ma è ridicolo! Eh!. Per questo hai buttato via quasi tutto e
ora ti gingilli, non vai avanti? Eh! Per andare avanti, vado avanti. Ma è inutile,

sento che non arriverò mai oltre pagina ventitre. Non numerare le pagine, così
non ti accorgerai di arrivare a pagina ventitre. Va bene, tenterò. Tentasti. Ma due
giorni dopo, rientrando in casa, anziché trovarti seduto alla scrivania, ti sorpresi
a letto. E tutte le luci accese, tutte le finestre spalancate. Per terra, accartocciati e
semistrappati in un impeto d'ira, stavano le pagine scritte. Le raccolsi, le contai.
Erano ventitre. Alekos! Svegliati, Alekos!.Sono sveglio. .Che hai fatto? L'ho finito.
Non lo hai finito, le hai numerate! Io non le ho numerate. Ma non riuscivo a
continuare, allora le ho contate e ho scoperto d'essere arrivato a pagina ventitre.
Siamo seri! E con questo? Con questo, non ho più nulla da dire, non c'è più nulla
da dire. Sciocchezze.
Ti porsi l'ultima pagina. Leggi questa, traducila. No. Ti prego. Ho detto no.. perché
no? E venuta male, è brutta? No, è venuta benissimo, è bella. E la più bella di
tutte. Allora, che motivo hai per non leggerla? Il motivo che mi fa sentire... mi fa
sentire.... Vedi, non lo sai neanche tu. Accontentami, via. La prendesti
sospirando, ti aggiustasti il guanciale alle spalle per prendere tempo, ritardare
più a lungo possibile la nausea che evidentemente ti dava posarci gli occhi. Su,
incomincia. A che punto della storia è? All'inizio. E ancora l'inizio
dell'interrogatorio, quando mi credono Giorgio e mi massacrano di botte perché
dica chi mi ha dato l'esplosivo. Bene.
Ti ascolto.. Esitasti un po e infine traducesti.
Erano molti ufficiali. Erano entrati col furiere che portava il caffè a Malios e a
Babalis. Non appartenevano all'Esa. Alcuni avevano le mostrine delle unità
d'assalto, altri quelle di un reggimento di fanteria, altri quelle della Marina.
Sembravano in preda a una collera furibonda, Teofilojannacos sghignazzava:
"Vedi, tenente? L'intero esercito è fuori di se. Se ti consegnassi a qualche
caserma, ti farebbero a pezzi". D'un tratto un ufficiale mi sputò addosso, e fu il
via al linciaggio. Si gettarono su di me tutti insieme: per sputacchiarmi,
picchiarmi, insultarmi. Muri di uniformi che si addensavano intorno al lettino cui
ero legato. La porta era spalancata e continuavano ad arrivare, sempre più
numerosi, come vespe attirate da un vaso di miele.
Io al posto del miele. Quanti fossero non so. Per quanto tempo durasse non lo
ricordo. Per ricordo che quasi a ogni colpo rispondevo con una frase sprezzante.
Lo facevo con meccanicità, il mio pensiero era altrove. anziché il muro delle
uniformi rivedevo il mare infuriato, il filo della miccia che s'è avvolto su se stesso

e non si snoda, gli spruzzi che mi bagnano, l'automobile di Papadopulos che si
avvicina, l'esplosione, la fuga. E nuotare sott'acqua, col fiato che mi abbandona e
mi costringe a tornare a galla. Quella corsa sugli scogli, verso la barca che si
allontana coi mesi, le delusioni, le fatiche vissute per niente. Niente, a causa di
un filo che s'è annodato diventando corto. Un errore di calcolo su un filo corto,
una frazione di secondo in più, e il tiranno passa. Vivo. Io invece vengo preso per
finire qui in mezzo alle vespe, mentre un avvoltoio impugna la rivoltella, me la
punta addosso, mi grida: perché non ti hanno ancora ammazzato, fetente?" Allora
Teofilojannacos, visibilmente preoccupato dal timore che spari, gli sposta la
mano. Nello stesso momento uno si fa largo, si mette a guardarmi, mi chiede: "Ti
sei pentito, almeno?" "No. Mi dispiace soltanto di non avercela fatta." E la mia
voce che risponde così. Che voce strana, remota. Da dove viene? Da un altro
mondo? Anche l'ufficiale educato sembra strano, remoto. Da dove viene? Da un
altro mondo anche lui? Ora si allontana in silenzio, ed è appena uscito che le
uniformi ricominciano ad arrabbiarsi. Di più, sempre di più. Mi picchiano sulle
piante dei piedi, sugli occhi. Io ripeto: "Mi dispiace solo di non avercela fatta". Sì,
mi dispiace solo di non avercela fatta. Poi un colpo terribile. Da cosa, da chi?
Sento una forza paradossale premermi lo stomaco, e il collo il petto il cuore
rientrarmi dentro, come se si rompessero, tutti insieme, scoppiando. E non
distinguo più nulla. Tengo gli occhi chiusi e...
Era la scena della tua morte, come sarebbe avvenuta un mese dopo, sulla strada
di Vouliagmeni, quando i polmoni e il fegato e il cuore sarebbero scoppiati tutti
insieme, nell'urto, e tu avresti chiuso gli occhi per sempre. Balbettai: E una scena
di morte. Annuisti: Lo so. E davvero questo che accadde durante il pestaggio?.
Non mi pare, non credo. Allora perché l'hai scritto?. Non lo capisco. A un certo
punto le parole si sono composte da sole. Era come se le dita si muovessero
indipendentemente dalla mia volontà. Sono arrivato in fondo alla pagina e qui mi
sono accorto di non poter andare avanti perché ogni pensiero si concludeva con le
ultime quattro righe. Cancellale e prosegui. Impossibile.. Ti aiuto io.
Non servirebbe. Anche il sogno finiva lì. Ma tu non stai scrivendo un sogno, stai
scrivendo la tua storia! Forse finirà così la mia storia.. Poi ti alzasti, accendesti la
pipa, andasti sul terrazzo illuminato dalle lampade accese il cui chiarore giungeva
fino al prato. Sul prato si disegnò, inconfondibile, la tua ombra. Si distingueva
perfino la sagoma del tuo profilo con la pipa in bocca: chiunque avrebbe potuto

riconoscerla. Ma era chiaro che ormai non te ne importava d'essere visto o
riconosciuto perché sapevi che la fine non ti aspettava qui bensì altrove, e in
nessun caso avresti potuto opporti agli eventi, al destino, e il destino è un fiume
che nessuna diga arresta mentre fluisce al mare. Non dipende da noi. L'unica
cosa che dipende da noi è il modo di navigarlo, combattere le sue correnti, per
non lasciarsi trasportare come un tronco divelto.
Pazienza. Pazienza cosa? Lo scriverai tu per me. Ne avevamo già parlato, del
resto. Basta, Alekos! Lo scriverai tu per me, promettilo! Basta, Alekos! Promettilo!
Va bene, lo prometto. Bene, dove andiamo a mangiare stasera? Voglio un bel
ristorante pieno di rumori e di folla. E voglio bere molto, molto, molto vino.
Vuotasti la seconda bottiglia e ordinasti la terza. Peccato, mi sarebbe piaciuto
diventare vecchio, togliermi quella curiosità. E poi ho sempre pensato che la
vecchiaia sia la stagione più felice di tutte. L'infanzia è una stagione infelice. Non
fanno che rimproverarti, nell'infanzia, tiranneggiarti. Quante botte ho preso da
bambino! Mia madre aveva sempre la scopa in mano. Dalla parte della scopa,
però: a me toccava il legno. Per sfuggirla, una volta, mi calai dalla finestra. Tagliai
a strisce un lenzuolo, ne feci una corda, e mi calai. Per quando raggiunsi il
marciapiede, la trovai lì che aspettava: con la scopa in mano, dalla parte della
scopa. Uhm! Non ho mai avuto fortuna nelle evasioni. Mio padre invece non mi
picchiava. Mai. Neppure quando abitavamo in quella casa col cinematografo.
D'estate il cinematografo funzionava all'aperto e dal balcone della camera si
vedeva tutto. Così invitavo i bambini del quartiere e gli facevo pagare il biglietto. A
riduzione, eh? Finì che il direttore del cinematografo se ne accorse e chiese il
rimborso a mio padre. E mio padre pagò senza picchiarmi. Era buono, mio padre.
perché era vecchio. I vecchi sono sempre più indulgenti, più buoni. perché sono
vecchi, e hanno tirato le somme. diventare vecchi è l'unico modo per tirare le
somme. Alekos, smetti di bere. Anche l'adolescenza è una stagione infelice.
Magari da ragazzo ti picchiano meno che da bambino perché da ragazzo ti rivolti.
In compenso ti fanno altre prepotenze che sono peggiori delle bastonate. Devi
diventar questo, ti dicono, devi diventar quest'altro, anche se tu non hai voglia di
diventare nulla perché vuoi vivere e basta. E per farti diventare questo, farti
diventare quest'altro, ti mandano a scuola che è una tremenda infelicità. perché a
scuola si studia e ci si innamora. Io a quattordici anni mi innamorai. Era una

ragazzina della mia classe, bionda, e diceva che assomigliavo a James Dean. Lo
sai chi era James Dean? Uno che morì in automobile.
Gli assomigliavo davvero. Stessa bocca, stessi occhi, stessi capelli, stessa statura.
Per non le rispondevo mai quando diceva che assomigliavo a James Dean. perché
non volevo darle un appuntamento prima di avere i pantaloni lunghi. E i
pantaloni lunghi non me li davano mai. Alla fine presi quelli di Giorgio. E la portai
in barca e la baciai. Il giorno dopo mi cacciarono da scuola, non ricordo perché.
Per ricordo il dolore, in quanto finii in un'altra scuola e non la rividi più. Poi seppi
che era morta. In automobile, come James Dean. Quanto si soffre da adolescenti!
Io penso che da vecchi si soffra molto meno, anche se si muore. perché da vecchi
la morte è una cosa normale. Mi sbaglio? Non lo saprò mai se mi sbaglio.
Per sapere se mi sbaglio dovrei diventare vecchio e io non sarò mai vecchio.
Peccato. Alekos, smetti di bere. Vuotasti la terza bottiglia e ordinasti la quarta.
Ma la stagione più infelice di tutte è la gioventù. perché è nella gioventù che
incominci a capire le cose e ti accorgi che gli uomini non valgono nulla.
Agli uomini non interessa ne la verità, ne la libertà, ne la giustizia. Sono cose
scomode e gli uomini si trovano comodi nella bugia e nella schiavitù e
nell'ingiustizia. Ci si rotolano dentro come maiali. Io me ne accorsi appena entrai
in politica.
Bisogna entrare in politica per capire che gli uomini non valgono nulla, che a loro
vanno bene i ciarlatani e gli impostori e i draghi. Uno entra in politica pieno di
speranze, meravigliose intenzioni, dicendo a se stesso che la politica è un dovere,
è un modo per rendere gli uomini migliori, e poi s accorge che è tutto il contrario,
che nulla al mondo corrompe quanto la politica, nulla al mondo rende peggiori.
Un giorno, avevo vent'anni, andai dall'uomo politico che ammiravo di più. Era un
gran socialista, e dicevano che era l'unico ad aver le mani pulite. Ci andai per
raccontargli le porcherie di certi suoi compagni, credevo che le ignorasse. Invece
le conosceva benissimo. Si mise a ridere e mi rispose: giovanotto, non crederai
mica di far politica con gli ideali? E poi mi disse che avevo sbagliato indirizzo.
Quel giorno piansi, mi ubriacai e piansi. Prima non mi ero mai ubriacato, il vino
non mi piaceva.
Mi piaceva l'aranciata. Anche ora mi piace di più l'aranciata.
Ma imparai a bere il vino, a vent'anni, imparai a ubriacarmi, perché da ubriachi
si piange meglio. Si sopporta meglio il fatto che gli uomini non valgono nulla,

che più si capiscono più è difficile amarli. Io gli uomini riesco ad amarli soltanto
quando sono bambini o quando sono vecchi. Mi piacciono i bambini, mi piacciono
i vecchi, mi sarebbe piaciuto fare la politica solo per i bambini e pei vecchi.
perché per loro non lo fa mai nessuno. Ai politici non gliene importa nulla dei
bambini e dei vecchi: i bambini e i vecchi non vanno neanche a votare. E siccome
sono stato bambino mi sarebbe piaciuto anche essere vecchio. Un bel vecchio coi
baffi bianchi e la tosse. Anche quando dovevano fucilarmi avevo quel rimpianto:
non diventare vecchio. perché non è vero che diventare vecchi è una noia.
diventare vecchi è un piacere. Ed è giusto.
Tutti dovrebbero diventare vecchi, levarsi quella curiosità. Cameriere un'altra
bottiglia.. .Alekos, smetti di bere. Bevevi con fredda determinazione, quella che
conduceva al terzo stadio, e le tue pupille erano molto lucide, le tue labbra molto
rosse, la tua voce molto impastata. Ma il cervello restava lucido.
Alekos, smetti ti prego, andiamo a casa. No, voglio bere.
Bisogna andarcene, guarda, il ristorante è vuoto. Ma io devo raccontarti perché
anche la maturità è infelice, perché tutta la vita è infelice.. Domani, me lo
racconterai domani.. No, ora! Andiamo in un altro posto. E tardi, Alekos, molto
tardi. Non è mai tardi per vivere un poco di più. Anche infelicemente.
Per vivere un poco di più, anche infelicemente, c'era un posto che amavi. Era un
piccolo bar sul piazzale Michelangelo, dove andavamo dopocena quando stavi in
esilio a Firenze. Ci andavamo per fermarci sul piazzale che è un'immensa terrazza
sospesa sulla città, tra gli alberi e il cielo. Di notte, una visione struggente. Il
fiume si snoda in un nastro di luce che è la luce dei lampioni riflessi nell'acqua,
ogni lampione un balenio di faville d'oro e d'argento, e sopra il fiume gli
arcobaleni dei ponti, al di qua e al di là del fiume i tetti che si stendono in tappeti
di tegole rosse, e da quei tappeti si drizzano i campanili, le torri, si gonfiano le
cupole illuminate dai fari contro il cielo nero. sicché arrivando indugiavi tutto
contento a ammirare e dicevi che il cielo aveva rovesciato le stelle per terra, la
bellezza esiste soltanto se il cielo la rovescia per terra dove si pu guardarla senza
farci venire il torcicollo. Stavolta non la guardasti affatto. Subito mi trascinasti
nel piccolo bar e: Due bicchieri di ouzo, grandi e doppi. Anzi quattro bicchieri di
ouzo, grandi e doppi. Bene, signore. Con ironica ossequiosità il cameriere allineò i
quattro bicchieri di ouzo, eccessivamente grandi ed eccessivamente doppi. Ne

tracannasti due di colpo mentre dal tavolo accanto qualcuno ridacchiava, e
subito una lacrima ti scese giù lungo il naso per affogare nei baffi.
Non piangere, Alekos. perché piangi? perché ho sbagliato tutto. Mi sono fidato
degli uomini, ho sbagliato tutto. Ho creduto che agli uomini importasse la verità,
la libertà, la giustizia. Ho sbagliato tutto. Ho creduto che capissero. Ho sbagliato
tutto. A cosa serve soffrire, battersi, se la gente non capisce, se alla gente non
importa? Ho sbagliato tutto. Taci, Alekos. Taci! Non dovevo uscire dalla mia cella.
Appena mi hanno messo fuori della mia cella dovevo tornarci. E ritornarci, e
ritornarci ancora. Allora avrebbero capito. Quando ero nella mia cella capivano.
Quando sei in prigione capiscono. Dopo non capiscono più, se non muori. Per
farmi capire ora dovrei morire. Taci, Alekos. Taci! Un funerale, ci vorrebbe un bel
funerale. Verrebbero dalle campagne, dalle isole, intaserebbero le strade, si
arrampicherebbero sui tetti come i corvi. E capirebbero. Per un giorno almeno
capirebbero. E si muoverebbero. Taci, Alekos. Taci! Capiresti anche tu,
finalmente.
perché neanche tu, vedi, capisci. Non mi ami e non mi capisci.
Per esser capiti a volte bisogna morire. Anche per essere amati a volte bisogna
morire. Taci, Alekos, che dici?! Taci! Ti stanno guardando, ti stanno ascoltando.
Ti guardavano davvero, ti ascoltavano davvero, e dai tavoli accanto giungevano
mormorii: Ubriaco, è ubriaco. E con questo? Cosa vuoi che mi interessi di quattro
imbecilli che domani racconteranno d'avermi visto piangere in un bar? Che ne
sanno loro del mio piangere, del mio bere? Hanno troppe automobili. E sai a cosa
servono le loro automobili? A portarli alle partite di calcio. Sai cosa faranno,
quelli, il giorno dei miei funerali? Andranno alla partita di calcio. E tra un gol e
l'altro diranno: indovina chi è morto! E dopo la partita di calcio andranno magari
a un comizio, il comizio di qualche sciacallo che ha fatto gol senza battersi, senza
soffrire. E lo applaudiranno, entusiasti. Per loro non serve nemmeno morire. Loro
capiscono soltanto il gioco del calcio e le automobili. Odio loro e le loro
automobili. Ora piscio sulle loro automobili. Ti alzasti barcollando. gettasti sul
tavolo una banconota per pagare l'ouzo. Uscisti per dirigerti verso le automobili
parcheggiate sul piazzale. Ti liberasti di me che cercavo di trattenerti e le
raggiungesti. Poi ti sganciasti i pantaloni, senza fretta. Tirasti fuori il pene, senza
fretta. Lo impugnasti come l'asta di una bandiera e calmo, deciso, ti mettesti a
inondare di urina le fiancate, i cofani, i finestrini delle automobili. Io ti tiravo, ti

supplicavo di smetterla per carità, ma più tiravo, più supplicavo, più resistevi, e
quel getto continuava, insistente, impudente, il getto di una fontana, quasi che le
tue vesciche contenessero una riserva inesauribile d'acqua, e ogni goccia ti
liberasse di una disperazione che aveva passato ogni limite, un'ossessione che
aveva dimenticato ogni controllo, e mentre facevi questo declamavi la tua poesia,
quella su coloro che non disubbidiscono mai, non si compromettono mai, non
rischiano mai. Voi, tombe che camminano / insulti viventi della vita / assassini
del vostro pensiero / fantocci in forme umane / Voi che avete invidia delle bestie
/ che offendete l'idea del creato / che chiedete rifugio all'ignoranza / che
accettate per guida la paura / Voi che avete dimenticato il passato / che vedete il
presente con occhi appannati / che non avete interesse per il futuro / che
respirate solo per morire / Voi che avete mani solo per applaudire / e che domani
applaudirete / con più forza di tutti come sempre / e come ieri e come oggi /
Sappiate allora voi / scuse viventi di ogni tirannia / che i tiranni li odio tanto /
tanto quanto ho schifo di voi / E delle vostre fottute automobili.
Timidamente prima, nervosamente poi, quelli del tavolo accanto s'erano affacciati
alla soglia del bar ed osservavano sbalorditi la scena. Con la coda dell'occhio te ne
accorgevi benissimo e ti rendevi conto che, se uno si fosse mosso, gli altri lo
avrebbero seguito per aggredirti con la loro indignazione. Ma ciò serviva soltanto
a nutrire il tuo disprezzo, la tua protervia, e, mentre il gruppo esitava, avesti tutto
il tempo di declamare la poesia fino in fondo, svuotare la vescica fino all'ultima
goccia d'acqua, sistemare il tuo pene, chiudere i calzoni, girare sui tacchi. Un taxi
stava passando. Lo fermai, ti spinsi dentro: Presto, via! Nello stesso momento ci
raggiunse un grido: fermalo, acchiappalo! Ma il tassista comprese che doveva
salvarti e accelerò, raggiungendo in pochi minuti la casa nel bosco. Si offrì perfino
di condurti su per le scale, visto che ormai ciondolavi come una bambola di
pezza. Vuole che l'aiuti? Senza complimenti, eh? Fa sempre piacere dare una
mano a chi piscia sulle automobili degli stronzi. Ma io gli risposi no grazie e da
sola ti trascinai su al terzo piano, ogni gradino una montagna, da sola ti rovesciai
sul letto dove sprofondasti con un grugnito di beatitudine: Le ho lavate bene,
uhm? Le ho battezzate. In nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo. Ma il
limbo della dimenticanza, il terzo stadio, era ancora lontano. Ruttavi,
sghignazzavi, borbottavi confuse proteste sui complici degli assassini che
uccidono senza sporcarsi le mani, poi su di me che non sapevo amarti, che non

avevo mai saputo perché non amavo te ma la mia idea di te, e perché capissi che
te eri te e non la mia idea di te bisognava che tu morissi, da morto ti avrei amato
perfettamente: Vattene. Non ti voglio qui, vattene. Via, ho detto via. Alla fine me
ne esasperai. Era così sconsolante vederti in quelle condizioni, mi rendeva
insopportabile perfino l'idea di dormire nello stesso letto. E, quando incominciasti
a russare, me ne andai davvero. Il mattino dopo, rientrando, trovai la stanza
semidistrutta.
Sembrava che un ciclone fosse irrotto dalle finestre per abbattersi sulle cose,
sradicarle come alberi, squarciarle, frantumarle. La preziosa lampada Tiffany era
infranta, la scrivania rovesciata, la poltrona a dondolo capovolta, e lo stesso le
sedie. Un quadro era caduto dal muro, un altro ciondolava a sghimbescio, e le
cartelle rosa coi documenti erano sparse dovunque. Quanto a te giacevi per terra,
immobile, accanto al telefono col ricevitore staccato. Che fosse avvenuta una
colluttazione, che t'avessero ucciso? Credendo che t'avessero ucciso, rimasi a
fissarti impietrita finché spalancasti l'occhio buono, e schiudesti le labbra. Mi
dispiace per il lume. Quello è caduto da se. Non risposi. Anche se avessi voluto
rispondere, chiederti cos'era successo e perché, non avrei potuto: un singhiozzo
represso mi paralizzava le corde vocali. Con quel singhiozzo represso misi a posto
il telefono, le sedie, la poltrona a dondolo, cominciai a raccogliere i vetri rotti, i
miseri avanzi del Tiffany, di ci che era stato un capolavoro di grazia e di armonia.
Li buttai nella pattumiera. Sempre immobile per terra, tu seguivi con l'occhio
buono i miei gesti e un lampo di interesse parve accenderlo quando raccolsi le
cartelle rosa. Ti levasti in piedi. Il volto pallido e gonfio, i capelli arruffati, l'abito
spiegazzato e macchiato di vomito, narravano un dramma vissuto ai bordi della
follia. Dove sei stata? In albergo. Mi hai detto vattene. Eri ubriaco.. .Meglio così.
Avrei potuto fare del male anche a te dopo quella telefonata. Che telefonata. Ho
chiamato Atene. La pubblicazione su Ta Nea è stata rinviata. Loro dicono rinviata.
A quando? A mai, se non torno.
Devo partire.. Credevo che tu volessi restare lontano dalla Grecia. Infatti. Ma non
ho scelta.. Parto con te. No, mi servi qui. Qui? Sì, perché se mi accade qualcosa,
quei documenti dovrai usarli tu.. Non so neanche di cosa parlino. Raddrizzasti la
scrivania, che era ancora rovesciata, e: Lo saprai fra poco.
Sedevi dinanzi alle cartelle rosa, per dirmi finalmente cosa contenessero, e
sembravi un uomo inattaccabile dalle emozioni, ora, tutto raziocinio. Il volto

rasato, i capelli pettinati, la pelle distesa da un buon bagno, gli abiti puliti,
sembravi un professore che si accinge a istruire il suo allievo. O un notaio che si
prepara a stendere il proprio testamento? V'era una punta di scherno doloroso
negli occhi, ma la voce era ferma mentre diceva eccoli i maledetti fogli per cui
avevi sconvolto tanti mesi della tua vita e della mia, l'esistenza di altre creature
perfide o sciocche per creature. Cosa raccontavano? Nient'altro che la solita storia
del masso che cade dalla montagna per tornare sulla montagna: uguale a prima e
più solido di prima.
La solita storia del Potere, l'eterno potere che non muore mai, e anche quando
pare che cada non cade, anche quando pare che cambi non cambia: non cadono
che i suoi rappresentanti, non cambiano che i suoi interpreti, e la quantità o la
qualità dell'oppressione. E sempre stato così, sarà sempre così, la storia
dell'umanità è una interminabile beffa sui regimi che vengono travolti e restano
come prima: in ogni epoca e in ogni paese i fogli per dimostrarlo sarebbero stati o
saranno pressapoco come questi, diverse solo le date e i nomi e la lingua. Sì,
anche nelle democrazie sane e forti, ammesso che esista una democrazia sana e
forte: tutte le democrazie sono deboli e malate in quanto democrazie cioè sistemi
che si basano sul meno peggio. Sì, anche nei paesi toccati da una rivoluzione:
ogni rivoluzione contiene in se i germi di ci che ha abbattuto e col tempo si
dimostra il proseguimento di ci che ha abbattuto. Da ogni rivoluzione nasce o
rinasce un impero. Guarda quella francese, l'esempio che ha avvelenato il mondo
con le sue bugie Liberte Egalite Fraternite. Fiumi di sangue e di sogni, mari di
atrocità e di chimere, e poi? Napoleone Bonaparte e l'Impero, privilegi identici ai
privilegi di prima, perfezionati semmai, abusi identici agli abusi di prima, sigillati
semmai da un codice scritto secondo principi di logica. Guarda la rivoluzione
russa, nuovo esempio di nuovi veleni, nuovi fiumi di sangue e di sogni, nuovi
mari di atrocità e di chimere. E poi? Un impero di piccoli zar uguali allo zar
eliminato, privilegi identici ai privilegi di prima, perfezionati semmai, abusi
identici agli abusi di prima, sigillati semmai da una dottrina formulata secondo
criteri di scienza. Scienza filosofica, matematica, medica: uno psichiatra che ti
dichiara pazzo perché hai disubbidito. Lì non solo ti distruggono il corpo col
carcere e il plotone di esecuzione, ti distruggono il cervello con l'amenzoina.
Guarda l'America, quest'America che nacque dai disperati in cerca di libertà e di
felicità, che si ribellò all'Inghilterra perché non voleva essere una sua colonia. E

poi? Inventò lo schiavismo, carne umana venduta a peso come la carne dei bovi,
schiacci altri disperati in cerca di libertà e di felicità, infine fece di mezzo pianeta
la propria colonia. Guarda i paesi che in Europa condussero la Resistenza e che
oggi vivono sugli stessi regimi che dettero il via al fascismo e al nazismo: gli stessi
capi, le stesse polizie. Se per dedurlo non bastassero le prove che vedi a occhio
nudo, non avresti che leggere le carte segrete dei loro ministeri. perché soffrire,
allora, perché lottare, perché rischiare d'essere investiti dalla raffica che parte
dalla montagna e ti butta laggiù in fondo al pozzo tra i pesci? Ma perché è l'unico
modo di esistere quando sei un uomo, una donna, una persona non una pecora
del gregge, perdio! Se un uomo è un uomo, non una pecora del gregge, v'è in lui
un istinto di sopravvivenza che lo induce a battersi anche se capisce di battersi a
vuoto, anche se sa di perdere: don Chisciotte che si lancia contro i mulini a vento
senza curarsi d'essere solo è anzi fiero d'essere solo. E non ha importanza che egli
agisca per se stesso o per l'umanità, credendo al popolo o non credendoci, non ha
importanza che il suo sacrificio abbia o non abbia risultati: finché lotta e nel
momento in cui soccombe fisicamente è lui il Popolo, è lui l'Umanità. E magari un
risultato esiste: sta nel fatto che egli si allontani dal branco, che rifiuti di
appartenere al fiume di lana, che turbi il gregge per un'ora o un giorno. A volte
basta che un uomo, una donna, si allontanino dal gregge perché il gregge si
sparpagli un poco, perché il fiume di lana interrompa il suo fluire lungo il
sentiero tracciato dalla montagna. Che mi ricordassi di questo, che usassi bene
questi poveri fogli che ripetevano una regola antica quanto è antico il mondo,
vasta quant'è vasto il mondo. Che non li regalassi all'una o all'altra barricata, cioè
ai direttori d'azienda, ai falsi fabbricanti di false rivoluzioni, agli opportunisti cioè,
ai rivoluzionari del cazzo. Che li porgessi ai poveri cristi che si battono da soli,
liberi da schemi e da dottrine, da disquisizioni teologiche e da violenze inutili. Che
la raccogliessero loro la tua piccola verità cercata e trovata stavolta in un piccolo
paese che non contava nulla, che non interessava a nessuno, che ormai aveva da
offrire soltanto una manciata d'isole sparse nel gran mare azzurro, e le sue
leggende superate, la sua sapienza dimenticata, i suoi morti. Alekos! perché mi
dici queste cose?. perché... Incominciamo.
Scegliesti una lettera datata 5 gennaio 1968. Questa è la prova che ho chiesto per
mesi ad Averoff e che Averoff mi ha sempre rifiutato. E la conferma che Giorgio fu
venduto agli israeliani in cambio di qualche consiglio per ammazzare altre

creature. Non riguarda il signor ministro della Difesa, o lo riguarda solo nella
misura in cui dimostra quanto ci tenesse a proteggere gli ufficiali della Giunta,
mantenerli nei posti chiave facendo i loro misfatti, insieme a loro proteggere un
governo che nel Sessantotto non aveva rapporti diplomatici con la Grecia eppure
le vendette Giorgio per trenta denari. Uhm! La politica degli equilibri mondiali. In
tal senso questa lettera una gemma. Poi traducesti: Allo Stato maggiore
dell'Esercito.
Urgente. Segreto. Seguendo gli ordini del primo ministro e ministro della Difesa
Giorgio Papadopulos, il reparto dei cinquantasei ufficiali destinati al ruolo di
consiglieri dei reparti speciali israeliani in lotta contro i commandos palestinesi
partirà con un aereo speciale diretto a Tel Aviv il 13 gennaio prossimo. Gli ufficiali
sono addestrati specialmente nelle attività di sabotaggio grazie alle esperienze
acquisite dal nostro esercito nella guerra 194649. Essi useranno anche
l'esperienza fatta in questo tipo di lotta dall'esercito israeliano e terranno un
minuzioso rapporto sul loro operato. Al comandante del reparto, colonnello
Antenore Mpitsakin, sono state date le necessarie istruzioni affinché mantenga il
segreto sulla missione e sui compiti a lui affidati durante la permanenza degli
ufficiali greci nell'esercito israeliano. Per evitare proteste da parte dei paesi arabi,
dei paesi comunisti, dell'opinione pubblica in genere, sono state prese rigorose
misure che garantiranno il segreto assoluto. Il primo ministro e ministro della
Difesa Giorgio Papadopulos ha anche ordinato al tenente Antenore Mpitsakin di
esprimere ai competenti servizi segreti israeliani i caldi ringraziamenti del governo
greco per la stretta collaborazione avvenuta nel caso del tenente Giorgio
Panagulis. Lo ha incaricato inoltre di rinnovare la promessa che tale
collaborazione sarà rafforzata sempre di più nel reciproco interesse dei due paesi.
Firmato: F. Roufogalis, vicedirettore del Kyp.
Me la consegnasti con un leggero tremito delle mani, poi cercasti altri fogli. Questi
invece riguardano lui. Dimostrano che, prima ancora di fornicare coi colonnelli e
ordire la sua politica del ponte per prendere in mano le redini del paese,
Evanghelis Tossitsas Averoff fosse un gran figlio di cane. Non è vero, infatti, che
negli anni Quaranta egli abbia combattuto i nazifascisti: ecco, con tanto di timbro
e firma, la denuncia presentata il 29 agosto 1944 da un certo Ziki Niksas. Da
essa risulta che nel 1941 l'attuale ministro della Difesa entrò a far parte della
famigerata Legione Rumena e incominci a collaborare con le truppe di

occupazione italiane. Ecco anche la denuncia presentata il 23 settembre 1944 da
un certo Elias Skiliakos, avvocato di Larissa, da cui risulta che nello stesso
periodo Averoff aiutò l'invasore tentando di costituire un'alleanza greco italiana
col console Giulio Vianelli e l'allora primo ministro Tsalakoglu. Nel suo feudo di
Giannina provvide addirittura a far rastrellare i fucili per consegnarli alle truppe
di occupazione italiane e frenare la Resistenza. Ecco infine una serie di lettere e di
denunce che illustrano altre marachelle della sua gioventù, cioè di quel che egli
chiama il mio passato di antifascista. A un certo punto venne fatto prigioniero e
inviato al campo Fieramonte in Italia. Qui divenne immediatamente un ospite di
riguardo: pollo o tacchino anziché il solito rancio, una comoda cella privata da cui
andava e veniva a suo piacimento usando l'automobile del direttore, libertà di
avvicinare chiunque gli piacesse. E sai perché? perché faceva la spia. Gli
chiedevano l'elenco dei prigionieri comunisti e lui lo forniva. Gli chiedevano i
nomi degli altri prigionieri pericolosi e lui li dava. Poi da Fieramonte lo
trasferirono ad Arezzo e lì non entrò neppure nel campo: andò a vivere in un
albergo di prima categoria. Era un prigioniero davvero speciale. Nessuno poteva
ricevere dalla Grecia più di cento lire al mese, lui ne riceveva mille per volta, più
volte al mese. Nessuno poteva acquistare la lira a meno di trecento o quattrocento
dracme, lui invece la acquistava a otto dracme. Come ricompensa dei suoi servigi,
gli italiani lo avevano incaricato anche di tenere i rapporti con l'ambasciata
elvetica e la Croce Rossa Internazionale: così toccava a lui distribuire i pacchi o il
denaro. E lui lo faceva beneficiando solo chi collaborava. Infine andò a Roma.
Affittò un appartamento vicino a piazza Venezia e vi si stabilì insieme a un
avvocato di Samos, Nicolarezos, che era l'uomo di fiducia delle autorità italiane in
Grecia nel settore dello spionaggio. Con Nicolarezos riuscì a impedire il ritorno in
patria di trecento prigionieri perché tra questi si trovavano centodieci patrioti del
gruppo Libertà o Morte. Naturalmente la magistratura archivi queste denunce. La
legge è uguale per tutti. Però, trovandole all'Esa, il previdente Hazizikis le mise da
parte. Tutto serve, anche le bricconate, in caso di ricatto. Siamo ancora alle
bricconate, ripeto, ai peccatucci veniali. Il grosso viene dopo, prende l'avvio dai
documenti relativi al suo arresto nel 1973, quando la rivolta della Marina fallì e,
sapendo che il nostro Averoff c'era dentro fino al collo, Hazizikis lo prelevò
portandolo all'Esa. E qui non ebbe neanche bisogno di spaventarlo perché subito,
di sua spontanea volontà, il futuro ministro della Difesa rivelò nomi cognomi

indirizzi date incontri, responsabilità di cui l'Esa non aveva prove, perfino il modo
in cui la Resistenza era organizzata a Creta, a Larissa, in Epiro. La delazione è
contenuta in due apologie scritte di suo pugno. Eccole. Mi traducesti la parte che
introduceva la seconda apologia: Il giorno del mio arresto non stavo bene. Ci
venne verificato anche dal comandante dell'Eat Esa. Nel pomeriggio mi svenni nel
suo ufficio, dove mi soccorsero, e soltanto grazie alle sue cure mi sentii meglio.
Però la mia salute rimase precaria e ascoltai con mente non limpida le domande
del signor comandante, le sue accuse, le sue richieste di chiarimenti. Non
compresi cioè che l'interrogatorio si estendeva anche all'aspetto politico di quanto
era successo e che trattava la responsabilità di molti ufficiali della Marina, non
solo di quelli con cui ero stato in contatto. Così, in base alla mia parola d'onore,
mi limitai a negare di non conoscere i fatti a cui il signor comandante si riferiva.
Ma oggi mi sento meglio, anche in seguito alle medicine che il signor comandante
mi ha graziosamente procurato, alle passeggiate che mi ha gentilmente consentito
di fare all'aperto, e penso di non essere più legato alla mia parola d'onore. Altri
hanno parlato, fornito dettagli, sicché posso confessare che non per malafede
bensì per la brevità delle nostre conversazioni non ho spiegato tutti i dettagli con
l'accuratezza necessaria. Lo faccio ora, convinto che sia mio diritto e mio dovere
verso il paese e chi s'è coinvolto in questa faccenda. E ritiro l'apologia del giorno 7
per dire l'intera verità sugli eventi di cui sono a conoscenza. Prendesti una pagina
a caso per tradurre un altro brano: Gli chiesi allora cosa intendesse fare in caso
di insuccesso. Mi rispose che sarebbero andati in un paese straniero e che vi
avrebbero lasciato le navi affinché quelle che non avevano partecipato in modo
diretto alla congiura potessero essere restituite alla Grecia. Le altre invece
sarebbero rimaste sotto la protezione di un paese straniero. Gli feci notare che in
tale evenienza avrebbero fatto cosa più saggia a scegliere Cipro e li informai che
Leonida Papagos era appena tornato dall'Italia dove s'era incontrato col re che
aveva avanzato riserve sull'impresa. Passò del tempo prima che avessimo un
nuovo incontro e verso metà maggio decisi di rivederlo. Mandai il signor Fufas a
casa di Papadogonas e questi fissò l'appuntamento per la mattina del 21 maggio
presso il lago di Maratona. Un motivo per cui volevo l'appuntamento con
Papadogonas era che Costantino Karamanlis aveva mandato due messaggi per
dirmi che gli avevano parlato della faccenda e che se non si trattava di una cosa
seria bisognava cancellarla. L'altro motivo era che Papadogonas mi aveva rivelato

i possibili giorni della rivolta. Una di queste date era vicina e temevo che si stesse
per commettere un grave errore di tattica politica. Temevo inoltre che il segreto
trapelasse. Infatti da una certa frase dell'industriale Cristos Stratos avevo
concluso che egli era a conoscenza di tutto. Papadogonas me lo confermò: lui
stesso s'era incontrato con Stratos il quale aveva promesso piccoli aiuti finanziari
alle famiglie dei sottufficiali che avrebbero partecipato alla rivolta.
Stratos era addirittura al corrente della data scelta: la notte fra il 22 e il 23
maggio. Ma il via era stato dato, le operazioni preliminari avviate, e revocarle
sarebbe stato impossibile.
Tieni. Mi porgesti il pacco delle due apologie, ci aggiungesti una lettera: Mettici
anche questa. Era una lettera scritta a mano, datata 26 luglio 1973 e diretta
all'illustre Signor Maggiore Nicolas Hazizikis comandante dell'EatEsa. Era firmata
con grande rispetto Evanghelis Averoff, e ringraziava Hazizikis della bontà avuta
nell'inviargli sette copie del giornale fascista Estias. La presi, e al solo toccarla,
rivissi il turbamento del giorno in cui gli occhi del drago s'erano incontrati coi
miei per frugarli un attimo lungo, crudele, poi le sue mani avevano imprigionato
le mie come valve di una conchiglia, e un brivido aveva scosso il mio corpo perché
erano mani più liscie delle mani d'una fanciulla ma il loro contatto dava una
specie di ribrezzo. Lo stesso che si prova a sfiorare le foglie d'ortica, soffici lì per lì,
e proprio mentre pensi che sono soffici avverti una pinzatura cattiva. Eppure non
era stato il contatto delle sue mani a turbarmi, e nemmeno il timbro della sua
voce che a tratti si incrinava in stridori metallici, e nemmeno lo sguardo liquido e
scivoloso dei suoi occhi tondi e neri come olive immerse nell'olio: era stato il suo
accenno alla politica del ponte. Intuisti quel che pensavo: Sì, ci stiamo arrivando
alla politica del ponte, ci stiamo arrivando. Stiamo arrivando anche alla
dimostrazione che non avevo torto ad attaccarlo in Parlamento sul problema degli
ufficiali di riserva, a dire che teneva in riserva gli ufficiali democratici in quanto lo
disturbavano nella stessa misura in cui disturbavano Papadopulos e Joannidis.
Ecco qua. E mi mostrasti due fogli di carta intestata: il suo nome stampato in alto
a sinistra, Evanghelis Tossitsas Averoff, il testo scritto a macchina, una nota
scritta a mano con la sua calligrafia. Poi traducesti: Atene, 21 gennaio 1974. Al
generale Fedone Ghizikis, presidente della Repubblica, qui.
Illustre signor presidente, ho l'onore di sottoporle la nota che accludo. Se non la
firmo e se la scrivo in terza persona è perché probabilmente lei vorrà mostrarla ad

altri senza dire chi gliel'ha sottoposta. Non si tratta tuttavia di negarne in alcun
modo la paternità, e lei può ben vedere che questo foglio porta il mio nome. La
nota che accludo è un compendio limitato nella prima parte a linee generali ma
anche essenziali.
Non tocca e non analizza tutto. Poiché può creare l'impressione che io abbia un
atteggiamento prevenuto nei riguardi dell'attuale governo, sottolineo che: l) E del
tutto corretto e per molti aspetti giusto e utile l'allontanamento di numerosi
ufficiali della riserva dalle più alte cariche dell'amministrazione. 2) Il governo ha
fronteggiato in modo non ortodosso ma nel miglior modo possibile la drammatica
vicenda della nostra venerabile chiesa. Credo che il tentativo darà frutti. 3) Saluto
la ricostituzione del consiglio per la nomina dei prefetti. 4) E utile la repressione
degli abusi nella misura in cui avvenga senza eccezioni e su basi oggettive. E con
ci riceva, illustre signor presidente, la prego, l'espressione della stima del sempre
sinceramente suo Evanghelis Tossitsas Averoff. Seguiva un postscriptum del 10
febbraio 1974: Avendo cercato invano una persona di comune conoscenza che
volesse consegnare questa mia lettera e gli appunti allegati, la porto io stesso alla
sua casa. E possibile anche che io le invii una copia a mezzo posta. Date le
condizioni in cui la invio, le sarei grato se dicesse al suo aiutante in campo di
accusare la ricevuta. Sotto il postscriptum, altre tre note evidentemente scritte da
qualcun altro, forse da un aiutante di Ghizikis, sulla copia inviata per posta: II
brigadiere di guardia al palazzo posto in via Plankedias 5153 ha rifiutato di
ricevere la presente. Essa è stata consegnata il giorno dopo, 2 febbraio 1974, dal
signor Zizis Fufas al signor Spiropulos, segretario alla presidenza della
Repubblica, in via Stisicoru 17 alle ore 9 e trenta. Lunedì 4 febbraio 1974. Alle
ore 8 e trenta una telefonata del signor Bravacos ha informato l'ufficio del signor
Atanasakos che la busta era stata ricevuta dal signor presidente. Infine la postilla
finale: Il signor Bravacos della presidenza della Repubblica ha telefonato in ufficio
per confermòare che la lettera è stata ricevuta dal presidente.
Tieni. Mi consegnasti anche la lettera a Ghizikis e un sorriso di divertimento ti
fece vibrare i baffi. Eh! In fondo Averoff è un genio. Un genio di provincia ma un
genio. Se invece di nascere in un piccolo paese che non conta più nulla fosse nato
in Russia o in America o in Cina, a quest'ora deciderebbe se la Terza guerra
mondiale deve scoppiare o no. E se fosse nato almeno in un paese più centrale e
più ricco, in qualche modo finirebbe sui libri di storia. Povero Averoff, gli è andata

male: nascere nella Grecia del Duemila. Comunque, la prova che Averoff è un
genio, un genio di provincia ma un genio, sta qui. E sventolasti le otto pagine fitte
della Nota Acclusa. Questo è un piccolo capolavoro. Incomincia con vaghe
allusioni di liberalismo, caute proteste sui rischi che corre il governo, poi passa
alla lusinga dicendo che un sentimento di gioia, di vivace ottimismo dell'avvenire,
di sentimenti affettuosi per le Forze Armate aveva dominato la Grecia il 25 e il 26
novembre 1973, cioè i giorni successi al massacro del Politecnico, quando
Joannidis esautorò Papadopulos, poi dalla lusinga passa all'esame della
situazione, e ascolta bene. perché l'abilità con cui si offre come salvatore della
patria anzi uomo del destino è semplicemente diabolica. Cercasti la pagina due,
traducesti: Che a capo delle Forze Armate vi siano uomini onesti, cosa su cui chi
scrive è sicuro, non conta. Il popolo vede lo stesso il proposito di continuarne a
tempo indeterminato un'oligarchia basata sulle Forze Armate e basta. Così il solo
guardar le uniformi lo irrita, e molti che prima indossavano la divisa con orgoglio
oggi la esibiscono in pubblico con cautela. Ci è triste e pericoloso, signor
presidente, di questo passo la gioventù seguirà chiunque sia contrario al regime.
E purtroppo sappiamo che chi è contrario al regime di rado ha pensieri sani: negli
ultimi mesi il partito comunista greco è diventato attivo, e il pensiero anarchico,
incoerente, distruttore, ha preso a sedurre i giovani che sono influenzabili e
cercano di muoversi in modo violento. Si scivola verso la sinistra, verso
pericolosissime forme di anarchia perniciosa pei giovani che domani dovranno
dirigere il paese.
E all'estero il comunismo greco è molto energico, più energico di sempre. Secondo
fonti straniere attendibili, nella sola Germania dove il partito comunista italiano
ha fondato due federazioni di lavoratori, una con sede a Colonia e una a
Stoccarda, vi sono due forti gruppi comunisti greci: l'Esak e l'Eeskei che
collaborano fra loro. Nel convegno preliminare di Stoccolma, dove emigrati di
tutte le nazionalità si sono riuniti l'anno scorso e dove è stato deciso di tenere un
convegno nel marzo del 1974 a Copenhagen, i rappresentanti più combattivi
erano i greci... Qui interrompesti la traduzione: Segue un'analisi fumosa della
realtà economica e poi viene il meglio.
perché ciò che Averoff propone a Ghizikis per risolvere i guai dei colonnelli è
proprio ciò che avvenne nel luglio del 1974 quando tutti credettero che la Giunta
fosse caduta. In altre parole, in questi fogli c'è la prova che la Giunta abdicò

secondo i consigli di Averoff e col sistema voluto da Averoff: in apparenza
trasferendo il potere ai politici, in realtà mantenendolo attraverso di lui che al
momento di assumere il ministero della Difesa sarebbe diventato l'erede e
l'interprete del passato regime o almeno dei suoi interessi. Mi spiego? Voglio dire
che nel gennaio 1974 il Potere non sapeva più cosa farsene dei colonnelli, gli
serviva un cambio di guardia, ad esempio una democrazia formale, dove gli organi
chiave fossero nelle mani della destra più reazionaria, e ci poteva avvenire
soltanto attraverso il ritorno di un Karamanlis scelto e imposto da un Averoff
ormai padrone di quell'esercito da cui gli ufficiali democratici erano stati epurati.
Dunque mi sbagliavo a credere che Averoff avesse vinto la sua battaglia all'ultimo
istante imbrogliando Canellopulos e Mavros, dicendogli ci vediamo dopo vado a
fare pipì. La pipì la fece per davvero, imbrogliarli li imbrogliò per davvero, ma ciò
che avvenne il 23 luglio era stato deciso da mesi. L'unico punto su cui Averoff fallì
fu l'imbroglio dei partiti relativi. L'imbroglio consisteva in una trovata cui la
monarchia era ricorsa dal 1963 al 1967 per tenere la destra al potere, e
funzionava così: ogni partito doveva dichiararsi relativo ad un altro partito, cioè al
partito ideologicamente più vicino, e solo i partiti relativi potevano allearsi tra loro
per partecipare a un governo. Per nessun partito voleva considerarsi relativo al
partito comunista, e ci mutilava la sinistra costringendola ad allearsi sempre con
la destra. Non v'era stato che Giorgio Papandreu a ribellarsi costituendo un fronte
popolare in cui la sinistra al completo s'era unita con il centro. E la destra aveva
risposto col golpe di Papadopulos.
Però, anche fallendo sui partiti relativi, Averoff sapeva di vincere. Infatti sapeva di
poter contare su Karamanlis, sullo scrupolo con cui Karamanlis avrebbe
osservato il piano contenuto nella lettera a Ghizikis. Il piano era questo. E
riprendesti a tradurre.
Primo: il presidente della Repubblica selezionerà una persona abile e in grado di
ispirare fiducia. Vale a dire un vecchio ufficiale o un vecchio politico o un
tecnocrate. Secondo: il presidente della Repubblica affiderà a tale persona
l'incarico di primo ministro, e il primo ministro si presenterà alla televisione
annunciando il programma ma non la formazione del governo. Terzo: il
programma rispetterà le linee principali che non sono suscettibili di cambiamenti.
Sfumature e piccole variazioni saranno esaminate con un ampio scambio di idee.
Ecco le linee principali.

a) Il nuovo primo ministro informa che le Forze Armate hanno affidato a lui,
tramite il presidente della Repubblica, la ricostituzione della legalità democratica;
b) Il nuovo primo ministro esprime i suoi omaggi alle Forze Armate sottolineando
che esse vengono dal popolo, rispettano il popolo, difendono sempre la sicurezza
interna ed esterna del paese;
c) Il nuovo primo ministro dichiara che di proposito non ha ancora formato il
governo. (Vedi allegato Top Secret.)
Allegato Top Secret:
Uno: non è opportuno che la cosa si risappia, ma dovremo accordarci sui
ministeri della Difesa e della Pubblica Sicurezza affinché siano dati a persone
rispettabili, influenti, e che posseggano la fiducia del presidente della Repubblica
nonché del primo ministro.
Due: si dovrà togliere credito a chi sostiene che le elezioni avvengono sotto il
controllo delle autorità locali nominate dalla Giunta e in grado di esercitare una
pressione psicologica in favore della Giunta stessa.
Tre: le elezioni locali dovranno essere evitate prima delle elezioni generali. Non
fare ciò sarebbe pericoloso per molte ragioni ma soprattutto perché in alcuni
luoghi si rischierebbe di avere consigli municipali capaci di influenzare le elezioni
in favore della sinistra.
Quattro: bisognerà convincere l'opinione estera e interna che il nuovo regime
conduce le elezioni in modo onesto. (Vedi testo principale.) Solo così si potrà
escludere la nomina di candidati sovversivi. Cinque: gli articoli della legge
elettorale dovranno chiarire che ogni partito avrà l'obbligo di depositare presso la
Corte Suprema una dichiarazione contenente i suoi principi basilari e i suoi
partiti relativi; che ogni partito sarà considerato relativo ad un altro solo se
questo accetterà una similitudine di principi; che i partiti non relativi ad altri
partiti non potranno partecipare alla formazione del governo e neanche
sostenerlo; che un deputato non potrà passare da un partito all'altro se il partito
che lascia non è relativo a quello in cui si trasferisce. Sei: il partito comunista
greco potrà essere legalizzato esclusivamente a condizione che coloro i quali si
recano al di là della cortina di ferro non tornino in Grecia e vengano considerati
colpevoli d'aver versato il sangue dei loro fratelli per conquistare il potere. Sette:
essendo un argomento delicato, il problema della monarchia potrà essere
discusso da una assemblea che provveda a rivedere la costituzione. Ma come

risolverlo visto che chi lavorò attivamente al referendum che instaurò la
repubblica definisce tale referendum falso? Per motivi che non riguardano questa
nota, colui che scrive considera un'Assemblea Costituente la miglior via d'uscita
al dilemma.
Ma ci richiede una spiegazione verbale..
Tieni. L'allegato si aggiunse agli altri fogli e la tua voce ebbe un fremito d'ira: La
spiegazione verbale ci fu. La commedia si svolse come Averoff aveva stabilito nel
copione scritto per Ghizikis: la facciata del potere a Karamanlis, il vero potere per
se, lo status quo pressoché intatto. L'unica cosa che non gli riuscì fu liberarsi di
Joannidis e dei vari Hazizikis, dei vari Teofilojannacos, senza mandarli in galera:
inutile dire che i processi non rientravano negli accordi delle cosiddette
spiegazioni verbali. E questo divenne il suo tallone d'Achille; ecco perché esitava
ad arrestarli. Per trovò la soluzione al problema. Direttamente o indirettamente, li
convocò uno a uno e gli offrì la fuga all'estero: o ve ne andate o sono costretto ad
arrestarvi, a processarvi. I più rifiutarono: a volte per orgoglio, a volte perché si
illudevano di tornare al potere con un colpo di stato dei gheddafisti. Altri
accettarono, invece. E questo foglio lo dimostra. Sventolasti una lettera scritta a
mano, indirizzata a Karamanlis e firmata da un agente di frontiera di Ezvonis.
Portava il numero di protocollo 2499 e risultava spedita il 6 dicembre 1974,
ricevuta il 17. Diceva: Signor presidente, il sottoscritto ritiene necessario portare
alla sua attenzione i seguenti fatti. Tra il 15 e il 20 novembre di quest'anno, una
mattina verso le cinque e mezzo, il vice comandante del controllo passaporti entrò
nel suddetto ufficio. E ciò contro le abitudini di venire alle nove. Il vice
comandante non disse nulla sull'arrivo di un pullman e, quando il pullman
giunse, alle sei circa, vedemmo che era scortato dal direttore del Centro Polizia
Stranieri di Salonicco. Il direttore indossava abiti borghesi. Neanche per effettuare
il controllo della valuta ci fu permesso di salire a bordo del pullman. Il
conducente dell'automezzo portò i passaporti all'ufficiale addetto che dovette
guardare i passeggeri. Poi il pullman partì immediatamente ed entrò in territorio
iugoslavo. Secondo informazioni sicure, a bordo c'era anche l'ex tenente del Kyp
Michele Kurkulakos il quale viaggiava con passaporto falso. Per favore, signor
presidente, consideri valida tale lettera e accetti i miei ossequi. Un sorriso amaro:
Mica un pesce piccolo, questo Kurkulakos. Era anche agente della Cia a
Salonicco e su lui pendeva l'accusa d'aver fatto uccidere due resistenti, Tsarukas

e Kalkidis. Ora sembra che sia a Monaco di Baviera o in qualche altra città
tedesca e che curi un'organizzazione fascista fondata nel 1960 da Otto Skorzeny,
quello che liberò Mussolini al Gran Sasso.
Un'organizzazione chiamata Die Spinne, il Ragno. In greco, Aracni. Sembra anche
che incontri spesso Panajotis Cristos, ministro della Pubblica Istruzione al tempo
di Joannidis, ed Evanghelos Sdrakas, altro pezzo grosso della Giunta, nonché
amico di Averoff. Insegnava all'università di Giannina, la città di Averoff.
Scappato anche Sdrakas, a bordo di quel pullman suppongo. Uhm! Bel colpo,
quel pullman, bel colpo. Quanto al Ragno, Aracni, Die Spinne, sembra che in
Europa abbia centri ovunque: in Germania, in Spagna, in Inghilterra, in Francia,
in Italia. Lascia che metta le mani sul baule che mi ha promesso l'ufficiale del
Kyp e ne udirai di grosse: io ti dico che il prossimo dittatore della Grecia potrebbe
chiamarsi Averoff, se qualcuno non lo smaschera in tempo. Qualcuno o qualcosa.
Un dittatore in borghese, di quelli che durano, alla Salazar. Sì, bisogna proprio
che metta le mani su quel baule.
Purché me ne diano il tempo... E, ghignando, sventolasti l'ultimo foglio. Ecco il
diamante di Kohinoor. Il... cosa? diamante di Kohinoor, il diamante dei diamanti,
la gemma delle gemme. Qualcosa che non mi fa dormire da alcune settimane,
qualcosa che mi fa detestare perfino la luce del sole. La prova che egli faceva la
spia per la Giunta. Viene dall'archivio di Hazizikis, ovviamente, quello che
elencava informazioni e giudizi sulle persone schedate dall'Esa. Ci gettai lo
sguardo e stavolta non fu necessario che tu traducessi.
Tutto era spaventosamente chiaro. Sulla prima colonna a sinistra si allineavano i
nomi, preceduti da un numero. Sulla seconda colonna, le qualifiche professionali.
Sulla terza, le caratteristiche ideologiche. Sulla quarta, il commento. I nomi erano
sette, i numeri andavano dal diciassette al ventitre. Al ventitreesimo posto leggevi:
Evanghelis Averoff Ex deputato Seguace della politica del ponte fra il governo
nazionale e gli ex politici Già collabora ed è diretto da alti esponenti del Kyp, con
risultati finora molto positivi.
V'è una misteriosa espressione sul volto di quelli che sanno di andare a morire,
un'ombra che si condensa negli occhi e che si trasmette nei gesti. La vedi ad
esempio nei malati che lasciano l'ospedale per spengersi nel loro letto, o nei
soldati che partono per un combattimento da cui non si torna. E lì per lì è difficile
metterla a fuoco perché, più che vederla, la senti: soltanto dopo la morte, nel

ricordo, essa t'appare nitida come una fotografia ben stampata, e di colpo capisci
cos'era. Era la nostalgia del futuro che non verrà, la consapevolezza improvvisa
che mancando il futuro perfino il presente è illusione, e solo il passato è
esistenza. Ebbene, proprio questa espressione tu avevi negli occhi il giorno in cui
lasciasti per sempre la casa nel bosco. Le valigie erano già cariche sul taxi, il taxi
aspettava, il treno sarebbe partito fra poco, e tu, la mano sinistra ficcata in tasca
del cappotto, la mano destra levata a regger la pipa stretta tra i denti, il capo
inclinato su una spalla, indugiavi a camminare su e giù per la stanza, silenzioso,
assorto, osservando ogni oggetto con l'espressione di chi vuole imprimerlo a fondo
nella memoria, trattenerlo insieme al rimpianto di un pezzo di vita, gli attimi di
un tempo che sembrava dovesse durare per sempre. Una poltrona a dondolo, un
posacenere, un quadro che non rivedrai più. Io fremevo, impaziente: Che cerchi,
Alekos, che vuoi? Su, vieni, si fa tardi, andiamo. Ma tu non rispondevi, quasi non
ti importasse di perdere il treno, buttare via un tempo di cui abbondavi perché tra
non molto avresti avuto a disposizione l'eternità. E a un certo punto sedesti sul
letto, le labbra piegate in un sorriso misterioso, immalinconito da un'ombra che
scendeva su tutto il tuo viso annerendo le sopracciglia boscose, poi togliesti la
pipa di bocca, accarezzasti il guanciale, mormorasti: Siamo stati bene qui.
Siamo stati vivi. Ci staremo ancora, Alekos, su andiamo. Sì, andiamo. Ma
pronunciasti quelle due parole, lo avrei capito un mese dopo, col tono
dell'ammalato che sa d'essere giunto alla fine e risponde sì a chi gli dice guarirai
caro guarirai, col tono del soldato che sa di partecipare a un combattimento da
cui non si torna e risponde sì a chi gli dice ce la farai, ce la farai. Del resto
accaddero altre cose strane quel giorno, cose che si ripeterono e si intensificarono
nei giorni seguenti. Esitazioni, titubanze, rinvii. Entro ventiquattr'ore voglio
essere ad Atene, quindi ci fermiamo a Roma una notte e basta. Non apro neanche
le valigie dicesti in treno. Giunto a Roma invece le vuotasti subito e non
prenotasti nemmeno l'aereo. Alekos, dobbiamo prenotare l'aereo. Domani. E
l'indomani: Dopodomani. E dopodomani: C'è tempo. Era un continuo rimandar la
partenza, quasi che il problema di Ta Nea non esistesse più, e qualsiasi pretesto
era buono per non rifar le valigie, non prenotare l'aereo. Il primo fu l'arrivo da
Atene di un amico sarto che voleva avviare un commercio di tessuti tra l'Italia e la
Grecia. Il secondo fu un invito a Capri per il compleanno di una signora
ottantenne, madre di un tuo ammiratore. Il terzo fu un party all'ambasciata greca

dove non avevi mai messo piede. Il quarto fu l'appuntamento con l'editore cui
avevi promesso il libro. E naturalmente dell'amico sarto ti importava ben poco:
del compleanno dell'ottuagenaria ancor meno, del party all'ambasciata proprio
nulla, e l'appuntamento con l'editore non aveva alcun senso giacche rifiutavi di
continuare a scrivere il libro. Tuttavia vedesti il sarto, andasti dalla vecchia
signora, partecipasti al party, incontrasti l'editore, mai alludendo alla necessità di
dover rientrare ad Atene, sollecitare la pubblicazione accordata, anzi distratto da
un'inaspettata e inspiegabile spensieratezza. Finita la disperante angoscia che
t'aveva bloccato a pagina ventitre, scomparsa la cupa malinconia che aveva
provocato l'apocalittica ubriacatura e il gettò d'urina sulle automobili, dissolta la
solenne drammaticità del mattino in cui mi avevi letto e consegnato i documenti
sul drago, sembrava che quegli episodi non fossero avvenuti mai, che il futuro
fosse una lunga promessa da godersi senza fretta e senza timori, che il tuo
impegno di rivelare la verità non urgesse più. Dall'incontro con l'editore uscisti
addirittura eccitato e affermando che avevi cambiato idea, che ti saresti messo a
scriver di nuovo da pagina ventitre, che entro agosto gli avresti consegnato metà
manoscritto, entro l'anno l'intero libro. Anzi sai cosa faccio? Quella licenza dal
Parlamento la prendo appena arrivo in Grecia. Sto lì due settimane, poi mi
raggiungi, e torniamo qui con la Primavera.
Io ne ero contenta e allo stesso tempo irritata. Da una parte mi rallegrava vederti
lavato del dolore lugubre che aveva semidistrutto la casa nel bosco e benedivo
quei giorni di quiete, di meritato riposo; dall'altra concludevo che allora i tuoi
problemi non erano gravi quanto avevi detto, dunque quale capriccio o isteria
t'aveva spinto stavolta a martirizzarmi con le tue angustie, le tue teatrali scenate,
l'ossessionante lettura dei noiosissimi archivi? E in tale duplicità di sentimenti
ondeggiavo, ora rifiutandomi di seguirti nei tuoi impegni assurdi, ora rendendomi
complice dei tuoi trastulli oziosi, comunque mai sospettando che tu rinviassi il
viaggio ad Atene perché all'improvviso l'istinto di sopravvivenza superava la
passione per la sfida.
Cominciai ad intuire che le cose non stessero affatto così solamente quando
dicesti: E tempo che rompa ogni indugio.
Infatti, nell'attimo stesso in cui lo dicesti il tuo umore cambi e accadde qualcosa
di molto bizzarro. Stavamo per attraversare via Veneto e si accese il semaforo
rosso. Mi fermai, ben sapendo quanto t'irritasse vedermi attraversare col

semaforo rosso, e subito una spinta brutale mi gettò in mezzo al traffico: .Avanti!
Di che cosa hai paura?! Chi non è pronto ad attraversare col semaforo rosso non
è pronto a morire, chi non è pronto a morire non è pronto a vivere! Poi mi
abbandonasti sul marciapiede opposto e solo a tarda notte rientrasti in albergo
con la giacca semi strappata, le mani sbucciate e insanguinate: neanche tu avessi
preso a pugni tutti gli alberi del viale. Ma non erano gli alberi che avevi picchiato:
era un povero ruffiano che ti offriva una prostituta. Lo avevi colpito con tale
violenza che i poliziotti erano accorsi e volevano arrestarti.
Alekos, hai bevuto di nuovo! No, neanche un goccio. Allora perché lo hai fatto,
perché? Non lo so, ti giuro che non lo so.
Mi ha colto come una voglia di ucciderlo, un bisogno di scaricare la rabbia che ho
in corpo. Poi ti chiudesti almeno un'ora nel bagno e quando allarmata dal tuo
silenzio venni a vedere se ti sentivi male, ti trovai immerso nella vasca con gli
occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto: la posa dei cadaveri dentro la cassa.
Che cosa stai facendo, perdio?! Le prove, faccio le prove. Sai, non è detto che la
morte sia brutta. In fondo la morte è un'amica di chi è stanco. E anche una
grande alleata dell'amore. Nessun amore al mondo resiste se non interviene la
morte. Se vivessi a lungo, finiresti col detestarmi.
Poiché morirò presto, invece, mi amerai per sempre.
E giunse l'ultimo giorno che passammo insieme, il giorno che per mesi e per anni
la mia memoria avrebbe frugato di più, alla ricerca ostinata di ogni particolare,
ogni istante, quasi che ci servisse a restituirmi una goccia di quel che avevo
perduto, per senza riuscirci, anzi smarrendomi nello stupore impotente che coglie
quando ci si risveglia da un sogno che non si ricorda. Era un sogno importante
eppure non si ricorda, un sipario è calato su troppi particolari, un velo di tenebre
che ha spento le immagini, i suoni, e che non si può strappare, neanche diradare.
Invano rincorri l'eco d'un rumore, d'un gesto, invano ti illudi d'averlo
acchiappato; nel medesimo istante in cui ti pare di stringerlo in mano esso si
dissolve e devi rassegnarti: il sogno è proprio svanito. Per l'ultimo giorno che
passammo insieme è così. In qualche pozzo del mio subcosciente deve esserci il
film di tutte le cose che facemmo, tutte le cose che dicemmo, ma l'oblio chiude il
pozzo con un buio più pesto di una lastra di marmo. Un buio che va dall'alba al
tramonto. Il ricordo dell'ultima notte infatti è chiarissimo, si accende come un
fuoco d'artificio insieme alla musica della tua bella voce che narra la fiaba delle

stelle assorbite dai buchi neri del cosmo. Siamo nel ristorante che preferisci,
aperto su una piccola piazza della vecchia Roma, e la saletta è angusta, col
soffitto ad archi, riscaldata da un camino a legna che arde in fiammate viola, i
tavoli sono illuminati da candele infilate dentro bottiglie verdi su cui la cera si
scioglie formando bizzarri rilievi, stalattiti bianche. Noi sediamo in un angolo
separato da una balaustra e nascosto da una colonna, la candela sbianca il tuo
viso bianco e allunga la tua fronte che sembra più alta di sempre, i tuoi baffi che
sembravano più folti di sempre, e sul baffo sinistro vi sono tre fili grigi. Non li
avevo mai notati, non c'erano prima: quand'è che sono diventati grigi? Anche il
ciuffetto grigio alla tempia è diventato più grigio. Strano, quand'è che è diventato
più grigio? Fingo di strapparlo, ti schermisci inclinando la testa in un gesto carico
di dolcezza. Sei dolce stasera e il tuo sguardo è morbido.
Domani parti davvero sussurro. Sì. Vorrei venire con te.
No. Mi servi qui, te l'ho detto. E poi ci rivediamo presto, ci rivediamo a Pasqua.
Così porto la Primavera e le cambiamo il colore. Bisogna cambiarle il colore. Se
qualcuno volesse farmi del male... Una stilettata al cuore: per l'ultima frase o per
l'immagine macabra e terrorizzante che l'automobile evoca in me? Strano, è dalla
vigilia di Capodanno, tre mesi, che non la rivedo e che non ti chiedo di lei: se
funziona bene, se funziona male, se ti piace ancora. Anzi, ognivolta che hai
pronunciato il suo nome ho cambiato discorso: quasi che mi bruciasse sentir
ricordare che esiste, che ad Atene non sono più tornata dopo quel viaggio sulla
nave che ci sbarcò a Patrasso. Non ci sono più tornata per via del giuramento
tradito o per via di lei?
Potremmo scegliere il blu o il grigio o l'avana stai dicendo.
E la stilettata si ripete: sì, per via di lei. Non sopporto che tu parli di lei. Posso
ascoltare i tuoi discorsi sulla morte, ci sono ormai abituata, non fai che parlare di
morte, e non i tuoi discorsi su di lei. Infatti ecco, scantono, e ignaro tu cambi
argomento. Mi racconti a tuo modo, inventando, la storia delle stelle che vengono
assorbite dai buchi neri nel cosmo. Le teorie degli astronomi non ti interessano,
dici, macché condensazione nucleare, macché attrazione gravitazionale, lo sai tu
cosa sono i buchi neri nel cosmo. Sono autentici buchi, strappi dell'infinito, e
sono buchi piccolissimi, il diametro di un bicchiere, sembra inconcepibile che
una stella possa entrarci perché una stella è immensa, è un mondo, ma per
entrarci lei si restringe, attraverso milioni e miliardi di anni si addensa e si

restringe fino a diventare un pugno, un limone, un sassolino, e il sortilegio si
compie. Il destino. Si alza un gran vento, e più che un vento è un turbine
mostruoso che la chiama, la invoca, la supplica per attirarla verso il buco nero.
La stella non vorrebbe. Per milioni, miliardi di anni ha vissuto soltanto per
entrare in quel bucòo, per questo s'è addensata e ristretta fino a diventare un
pugno, un limone, un sassolino, ed ora che il momento si avvicina, non vorrebbe.
perché vorrebbe invecchiare, spengersi in pace, andando alla deriva. Impaurita
respinge l'invito, vi si oppone con tutta la sua volontà, tutta la forza del suo peso
che è immane, concentrata ed immane.
Scappa. Si allontana con giri larghissimi, fino ai bordi dell'universo, si nasconde
dietro le stelle che il vento non chiama, si difende, si nega, quasi ignorasse il
destino che incombe su lei dacché è nata, o le mancasse il coraggio. Ma il vento è
irresistibile, capace di vincere il peso più smisurato, la volontà più testarda,
sicché la fuga della stella si fa sempre più debole, i suoi giri sempre più stretti,
più raccolti in direzione del buco, e a un certo punto lo spazio sterminato si
riduce a un vortice angusto e profondo, un gorgo dentro cui l'infinito scivola giù
col silenzio, silenzio che ruota e si avvolge in se stesso per coagularsi intorno a un
mistero, e all'improvviso quel buco diviene una galleria senza luce, senza uscita.
O forse l'uscita esiste, per talmente remota che non si intravede nemmeno.
E la stella esausta, rassegnata, vinta, si lascia inghiottire: cade a capofitto nel
buio, nel mistero che la condurrà chissà dove.
Dall'altra parte, dimmi, che c'è?
I tuoi occhi brillano ansiosi nel chiarore della candela, la tua voce palpita:
Dall'altra parte che c'è? La stilettata mi colpisce di nuovo e rabbrividisco. Eppure
stavolta non hai parlato dell'automobile, hai solo interpretato poeticamente una
teoria scientifica per ricavarne una fiaba, e non sei mica tu la stella che scappa. E
una fiaba stupenda balbetto. No, è una realtà terribile rispondi. Dipende dal
modo in cui la si intende, Alekos. C'è solo un modo di intenderla: i buchi neri
sono la Morte. Se i buchi neri fossero la Morte, qualsiasi stella ci cadrebbe
dentro. Invece succhiano alcune stelle e altre no.
Perché? perché non tutte le stelle vanno punite. I buchi neri succhiano quelle che
vanno punite. Punite di che? D'aver cercato mondi diversi, dove ciascuno è
qualcuno e dove la giustizia esiste, la libertà, la felicità. Non è un delitto cercare
mondi diversi dove ciascuno è qualcuno e dove la giustizia esiste, la libertà, la

felicità. No, ma è un lusso che la dittatura di Dio non può consentire, e neanche
la Montagna. Dio vuol farci credere che il suo è l'unico universo possibile, la
Montagna vuol farci credere che il suo è l'unico sistema possibile. E chi si ribella
finisce in un buco nero. Parli come se tu credessi a Dio. Ci credo. Non so cosa sia
ma ci credo. E gli perdono perché non ha scelta, quindi non ha colpa. Sono gli
uomini che hanno scelta, quindi hanno colpa. Sorrido: Una volta conobbi
qualcuno che disse tutto il contrario. Gli uomini sono innocenti, mi disse, perché
sono uomini. Chi era? Un prigioniero vietcong. Non era mai stato dinanzi a un
plotone d'esecuzione, allora. Quando stavano per fucilarmi, io perdonai anche
Dio. E quando morir, lo perdonerò di nuovo. Non riesco più a sorridere. Te ne
accorgi e mi accarezzi una mano:
Non te la prendere. Poi col tuo solito gesto chiami la fioraia che è entrata con un
cesto di rose e prendi tutte le rose e me le butti in grembo. Usciamo dimentichi
delle stelle che muoiono, mi prendi in giro perché il gran mazzo di rose mi
impaccia. Ce ne andiamo a piedi per le viuzze dai muri fuligginosi e qui il ricordo
si compone di suoni smorzati, immagini sparse, sensazioni che durano un battito
di ciglia. I nostri passi che si ripercuotono sul selciato, un cane che passa
scodinzolando, il tuo pollice che mi solletica l'incavo della mano mentre sussurri:
Però è bella la vita. E bella anche quando è brutta. E lei non lo sa. Lei è una
prostituta che passeggia annoiata.
Dammi una rosa. Te la dò, gliela porgi, col risultato di farti insultare: Ah, scemo!
Sei scemo? A forza di camminare siamo arrivati a via Veneto, sotto l'albero dove il
pomeriggio dell'automobile gli uccelli si tuffavano a centinaia. Vi si sono tuffati
anche oggi, fitti come bacche dormono sui rami. E Necaiev? Sta cercando di
sfuggire al vento. E Satana? Satana è in paradiso. Entriamo in albergo e in
ascensore ti diverti a premere tutti i bottoni: Guido l'aereo che ci porta in
Paradiso! Nel corridoio mi rubi l'intero mazzo di rose e infili una rosa alla
maniglia di ogni porta. In camera ti plachi. Ti spogli con pensosa lentezza, ti
stendi sul letto, incroci le braccia sotto la nuca, resti immobile a guardare il
soffitto. Ma dall'altra parte, che c'è? Basta Alekos, basta! Rispondi: dall'altra parte
che c'è? Rispondo: Se le stelle inghiottite cercano mondi migliori, dall'altra parte
dovrebbe esserci un mondo migliore.. No, c'è il niente. L'estrema punizione per
chi cerca mondi migliori è il niente. Ma forse non è una punizione, è un premio.
Si dura tanta fatica a cercare ci che non esiste che da ultimo viene il bisogno di

riposarsi nel niente. Poi un guizzo: Giochiamo? E rapito da una sfrenata allegria
mi butti addosso le gambe dicendo che non sei una stella, sei una cometa e
queste gambe sono la coda della cometa, e siccome la luce della cometa è
sfolgorante non c'è bisogno di tenere la lampada accesa. La spengi e ci amiamo
come ci amammo una lontana notte d'agosto nella stanza con le poltrone rosse e
sbucciate, i vassoi di pistacchi sui tavolini, mentre il vento cantava tra i rami
d'olivo. Stessi gesti, stesse sensazioni. Da un passato che gli anni non hanno
corroso tornano gli abbracci armoniosi, le carezze di seta, la gioia di annegare
insieme dentro un fiume di dolcezza che abbaglia, di nuovo ed ancora, ed ancora
ed ancora, quasi dovesse durare per sempre, ripetersi fino alla vecchiaia. La mia
vecchiaia, la tua vecchiaia. E invece durerà soltanto quest'ultima notte. Non
dimenticarmi. Non dimenticarmi mai. Non devi dimenticarmi! gorgoglia una voce
che non riconosco, rauca e struggente, mentre il tuo corpo avviluppa il mio corpo.
Molto tempo dopo, quando la nostra tragedia si sarà conclusa anche nello strazio
che sembrava inguaribile, e al posto di quello ci sarà una cicatrice che duole
anche se non la tocchi, una solitudine diversa e peggiore, in essa mi porrò
domande inutili e assurde, perché la vecchiaia non arriva per tutti, e che cos'è la
morte, specialmente la morte che piomba prima della vecchiaia, e perché tu della
morte eri così innamorato, spaventato sì ma innamorato, sedotto al punto di
rendermene gelosa come se fosse una persona, una donna, il ricordo dell'ultima
sera e dell'ultima notte mi aggredirà con la forza di una rivelazione. Non c'è
dubbio, sapevi. Avevi la matematica certezza che il vortice fosse incominciato e
che il buco nero stesse per inghiottirti.
Lasciammo l'albergo alle tre del pomeriggio, e il tuo aereo partiva alle quattro. Il
taxi era malconcio, procedeva con lentezza esasperante, e tu incitavi l'autista:
Acceleri un poco, la prego, mi farà perdere il volo. Ma lui rispondeva villano: Più
di così non posso, doveva muoversi prima! D'un tratto, eravamo alla periferia
della città, il motore prese a tossire e poi si fermò. Ho finito la benzina. Finito la
benzina?! Si accetta una corsa all'aeroporto senza avere benzina? Intervenni a
evitare un alterco: Guardi, c'è una stazione di servizio qui accanto, cerchi di
arrivarci. Tra brontolii e bestemmie, innesti di marcia e irosi colpi di acceleratore,
la raggiungemmo e facemmo il pieno. Ma inutilmente. Non va lo stesso. E rotta.
Rotta?! Ti guardai temendo uno scoppio di collera: esaurite le preghiere, le
raccomandazioni, avevi seguito la scena in silenzio e di solito ci preludeva a

scoppi di collera. Invece no, all'improvviso te ne stavi lì quieto come se la cosa
non ti riguardasse: che tu non avessi capito? Alekos, dice che è rotta.
Meglio..Meglio? Non vuoi più partire?. Uhm! Dimmelo, perché se vuoi partire
bisogna fare qualcosa! Uhm! Sempre più villano, l'autista interruppe la
discussione: Che lei parta o non parta, io non posso mica tenervi qui! Ora chiamo
un altro taxi a telefono. Se crede! Credeva. Ando, telefonò, tornò: Non si trova,
non c'è. Che, gliene fermo uno per strada? Se crede! Credeva. Sbuffando si mise
in mezzo alla strada ma non passava nessun taxi, ed erano quasi le tre e mezzo.
Alekos, torniamo in albergo, parti domani. Forse hai ragione. Ma proprio mentre
dicevi così e io avvertivo un sollievo sproporzionato, una contentezza esagerata,
non tanto perché saresti rimasto ancora una sera quanto perché c'era qualcosa in
questa partenza che non andava, passò un taxi vuoto. E il nostro autista lo
bloccò, rabbonito, ci trasferì le valigie, rabbonito, ci aprì lo sportello dicendo
svelti, lui ha il motore a posto, lui corre. Riprendemmo la via dell'aeroporto, erano
ormai le tre e quaranta.
Alekos... devo spiegargli che mancano pochi minuti? Ma no, perché vuoi forzare le
cose, il destino? Quel che deve essere è, quel che dovrà essere sarà. Se è scritto
che prenda quell'aereo lo prender anche se arrivo dopo le quattro. Se è scritto che
non lo prenda, non lo prender neanche se arrivo in tempo.. Poi mi cingesti le
spalle, serio: Ti piacerebbe che stessimo insieme un altro giorno, lo so. Piacerebbe
anche a me, per giorno più giorno meno, mese più mese meno, che cambia?
Abbiamo avuto molto noi due, e non è con un altro giorno o un altro mese che
possiamo avere quel che non abbiamo avuto. perché dici questo?! perché sei stata
una buona compagna. La sola compagna possibile.
Giungemmo all'aeroporto alle quattro in punto. Il volo era chiuso, l'aereo stava
per decollare. Per un funzionario della compagnia ti riconobbe e dette disposizioni
perché ti aspettassero. Quindi premuroso, eccitato, prese i bagagli, ti consegnò la
carta d'imbarco, ti spinse verso il controllo passaporti: presto, corra, presto. Tu lo
seguivi senza fretta, indugiando a ogni passo, quasi che ora tu volessi forzare il
destino, la legge del quel che deve essere è, quel che dovrà essere sarà, o quasi
che ora ti ripugnasse rientrare ad Atene, e dinanzi alla porta a vetri oltre la quale
non sono ammessi che i passeggeri, ti fermasti addirittura a giocherellare col
koboloi. Allora ciao dissi e ti porsi la mano. In pubblico non ci abbracciavamo
mai.

Me la chiudesti fra le tue, a lungo, evitando il mio sguardo.
Ciao, alitaki. Il funzionario fremeva: presto, corra, presto.
Annuisti e raggiungesti il controllo passaporti, poi passasti il controllo della
polizia. Proseguisti per qualche metro, senza voltarti, fosti quasi al cancello
d'imbarco. E qui, di colpo, con la decisione di chi obbedisce a un impulso che non
si può respingere, tornasti indietro. Cosa fa, dove va?! strillò il funzionario. Due
poliziotti scattarono, cercarono di bloccarti.
Non si può! Li scansasti senza guardarli, senza ascoltarli, altero, fosti di nuovo
sulla soglia della porta a vetri, mi venisti accanto. Mi stringesti in un abbraccio
lungo, intenso, silenzioso. Mi baciasti sulla bocca, sulla fronte, sulle tempie. Mi
prendesti il volto fra le mani: Sì, una buona compagna. La sola compagna
possibile. Quindi sempre più altero, sempre più flemmatico, ripassasti tra i
poliziotti stupefatti e il funzionario sbalordito. L'ultima immagine che ho di te è
un paio di baffi che spiccano neri su un pallore di marmo e due occhi lucidi,
fermi, sconvolgenti, che mi fissano da lontano entrando nei miei. Vivo, non ti
avrei rivisto mai più.
Parte sesta CAPITOLO I
La morte è una ladra che non si presenta mai di sorpresa, ecco quel che ho
cercato di dirti finora. La morte si annuncia sempre con una specie di profumo,
percezioni impalpabili, silenziosi rumori. La morte si sente arrivare. Anche mentre
mi abbracciavi all'aeroporto sapevi che vivo non ti avrei rivisto più. Del resto,
troppe volte l'avevi corteggiata con le tue sfide, cantata con le tue poesie, invocata
con le tue angosce per non riconoscerla, annusarla, convincerti che stava
arrivando. Per, ecco il punto, le altre volte l'avevi respinta o scansata un attimo
prima che ti ghermisse; dopo quell'abbraccio invece le andasti incontro come un
innamorato impaziente, ansioso di lasciarsi rubare da lei. Per calcolo, stanchezza
di vivere, stanchezza di perdere? Le tre cose insieme. Il calcolo nacque dalla
stanchezza di vivere, la stanchezza di vivere nacque dalla stanchezza di perdere:
la notte in cui avevi distrutto la casa nel bosco avevi ben compreso che ogni tappa
della tua fiaba si era risolta con una sconfitta. Bastava che tu ti voltassi indietro
per concludere che la maledizione del fallimento incombeva sulla tua esistenza
con l'inesorabilità di un tumore, bastava che tu ripercorressi all'indietro il
cammino degli otto anni per accorgerti che la tua sola vittoria era stata non

arrenderti a nulla e a nessuno, non cedere neanche nei momenti di sconforto o di
dubbio. L'attentato a Papadopulos era abortito; il calvario dell'arresto, del
processo, della condanna non aveva smosso la Grecia. Le fughe dal carcere non
erano riuscite, per rivedere il sole avevi dovuto subire la clemenza del tiranno. Il
piano dell'Acropoli era rimasto una fantasticheria, i tuoi viaggi clandestini ad
Atene non erano serviti che a farti soffrire, la speranza di organizzare una
resistenza armata era naufragata. E il ritorno al villaggio, uno smacco; la scelta di
inserirti nella politica dei politici, un errore; la campagna elettorale, un disastro;
l'attività di deputato, un insuccesso. Così lo sforzo di adeguarti a un partito, la
pretesa di cacciarne gli uomini indegni; così il tentativo di scrivere un libro.
Quanto alla tua grande intuizione che le ideologie non reggano perché ogni
ideologia diventa dottrina e ogni dottrina cozza contro la realtà della vita,
l'incatalogabilità della vita, o quanto alla tua grande scoperta che gli schemi
destra e sinistra non abbiano significato, che semmai si equivalgano perché
entrambi sorretti da un alibi falso ed entrambi destinati a un identico approdo, il
Potere che schiaccia, non eri stato capace ne di formularla in termini di pensiero
ne di sostenerla rigorosamente coi fatti.
Ora condensandola in poetici slogan, ora neutralizzandola col tuo cedere al lercio
ricatto delle opposte barricate cioè col tuo schierarti dalla parte dei bugiardi che
indossano le mutande con la parola Popolo ma per popolo intendono la folla che li
applaude, l'avevi relegata nel frigorifero delle idee abbozzate o delle imprese
impossibili. Soltanto attraverso il tuo caso personale, troppo unico, avevi detto
che ogni essere umano è un'entità non generalizzabile e non riconducibile al
concetto di massa, quindi la salvezza va cercata nell'individuo che rivoluziona se
stesso.
Insomma, qualsiasi cosa tu avessi intrapreso t'eri ritrovato con un pugno di
sabbia in mano e tutto t'era andato male, tutto: come dinamitardo e come
cospiratore, come tribuno e come pensatore, come politico e come leader. Anche
come leader, visto che ad ascoltarti erano sempre stati pochi gregari soggiogati
dal tuo fascino non attratti dal tuo messaggio, che un po di gente t'aveva seguito
il pomeriggio del corteo e basta, sulla scia d'un gesto non capito. Mai un
discepolo, un vero complice al quale appoggiarti. L'unico interlocutore che t'era
stato accanto nel deserto di quegli anni ero io che però basavo il legame sugli
equivoci fondamenti dell'amore e che, me l'avevi ben rimproverato, non ti amavo

per ciò che eri bensì per ciò che volevo tu fossi e non eri, Nguyen Van Sam e
Huyn Thi An e Chato e Julio e Marighela e padre Tito de Alencar Lima, gli schemi
del mio passato vissuto sugli schemi, sicché ad ogni rottura di schema scappavo
delusa avanzando pretesti, opponendo rivolte, mancando proprio quando avrei
dovuto starti vicino. E la solitudine continuava ad essere la tua vera compagna.
D'accordo, il destino di don Chisciotte è questo, il destino degli eroi, dei poeti. Ma
viene sempre il giorno in cui un uomo, per quanto eroe, per quanto poeta, non ce
la fa più a vagare solo nel deserto. Viene sempre il momento in cui si stanca di
vivere perché si stanca di perdere, stroncato dalla nausea dice a se stesso bisogna
che vinca almeno una volta, e dicendolo pensa alla morte (ora addosso col suo
profumo, vicina) quasi fosse una carta vincente. Un asso nella manica, un
premio. Invecchiare perché? continuare la fatica che ha nome esistenza perché?
Per subire le medesime sconfitte cioè per ripetersi oppure per adeguarsi e
appassire nel grigiore della rinuncia, della normalità? Non è più un anarchico
pazzo, un irrequieto, un ribelle, ha messo giudizio, è cresciuto. Mi sembra di
riconoscerlo, non è lui che mise la bomba e rubò gli archivi dell'Esa? Morendo
invece avresti dato un senso ai tuoi sacrifici, alle tue sofferenze, ai tuoi fallimenti.
E la gente ti avrebbe ascoltato infine, compreso. Sia pure esprimendosi male, coi
fiori e con le bandiere e con gli urli, il suo olocausto, il suo esempio, sarebbe stato
con te, avrebbe dimostrato che il gregge può non essere gregge, che le dottrine si
sfaldano contro l'iniziativa del singolo, la disubbidienza del singolo, il coraggio del
singolo, che ciascuno è qualcuno purché lo voglia, che la salvezza sta
nell'individuo che rivoluziona se stesso. E forse la Montagna avrebbe tremato un
po, forse il masso sulla sua cima avrebbe dondolato. Non v'è eroe vivo che valga
un eroe morto, lo dicevano anche gli antichi. Del resto gli eroi del mito non si
consumano mai negli acciacchi della vecchiaia, non si spengono mai di malattia
in un letto d'ospedale: se ne vanno nel fiore della gioventù, in modo violento, e
quasi sempre l'ultimo atto della loro avventura è praticamente un suicidio
compiuto attraverso chi li ammazza. Morire per non morire, lasciarsi uccidere per
vincere almeno una volta, ecco il calcolo orrendo e geniale che, mischiando
abnegazione e superbia, altruismo ed egoismo, il tuo occhio buono e il tuo occhio
cattivo, facesti accettando senza sgambetti in extremis il tuo appuntamento a
Samarcanda, regalandoti alla Morte in un amplesso suicida.

Maturò nel giro di un mese il calcolo orrendo e geniale. Il mese di aprile.
Consapevolmente o no? La linea che separa il conscio dall'inconscio è una linea
talmente sottile. Rientrando ad Atene, avrei saputo, apparivi svuotato d'ogni
vivacità, avvilito in una misteriosa abulia. Passavi gran parte del tempo in ufficio
dove la tua segretaria ti sorprendeva sempre con lo sguardo appannato, la bocca
serrata, le braccia conserte, e seduto con l'aria di chi rincorre un pensiero
ossessivo. Non spostavi le pupille nemmeno se squillava il telefono o se lei ti
parlava, bisognava avvicinarsi e tirarti una manica perché tu rispondessi con uno
scossone: Chi è, che c'è? Quando il garzone del bar sottostante entrava col caffè
caldo, non ti accorgevi ne di lui ne della tazzina che posava sul tavolo, e dopo,
notandola, la esaminavi stupito: com'era giunta fin lì, chi l'aveva portata? A volte
ti alzavi, piano piano, sospirando, ti mettevi camminare per le stanze. Mani in
tasca, spalle curve, testa china, tre passi avanti e tre indietro come a Boiati. Se i
passi ti conducevano alla scrivania della segretaria ti fermavi a fissarla senza
vederla, ed erano talmente vitrei i tuoi occhi che lei si impauriva: Signor
Panagulis! Si sente male, signor Panagulis? Ti sentivi male. Lo dicevi a tutti. Ti
doleva lo stomaco, ti dolevano le gambe, non dormivi. Ho preso un sonnifero
doppio e non è servito a nulla. Oppure: Mi sono appisolato alle cinque e alle sette
ero già sveglio. Oppure: Non mi reggo in piedi e mi brucia l'esofago. Non riesco a
inghiottire. Mangiavi pochissimo, mai prima di sera, di colpo avevi cessato di bere
sostenendo che l'odore del vino ti dava disgusto. Ti dissetavi con le aranciate e le
tue cene non erano più allegri simposi destinati all'ebrezza, bensì pretesti per
nutrirti un poco, stare un poco in compagnia di qualcuno. Un amico di passaggio
o un cortigiano insistente o una mènade vogliosa.
Ma anche con loro ti mostravi taciturno, distratto, quasi che la tua mente fosse
lontana migliaia di miglia o avvolta da una nebbia che proteggeva un segreto. E,
particolare raggelante, verso la tua Primavera ora esibivi una forma di
inesplicabile odio. Ne sbatacchiavi le portiere, la guidavi con cattiveria, ti divertivi
a grattare il cambio, a strisciare le gomme contro il bordo dei marciapiedi, a
parcheggiarla male cioè esponendola al traffico e agli urti delle altre automobili, la
insudiciavi con voluttà. All'esterno era sempre polverosa, impillaccherata,
all'interno un ricettacolo di fogli, cenci, cicche, giornali, porcherie di ogni genere.
Del resto la prestavi a chiunque te la chiedesse, ostentando assoluta indifferenza

se te la riportavano con nuovi graffi o nuove ammaccature: quasi fosse divenuta il
simbolo della tua anima che se n'andava a pezzi.
Io non lo sapevo, non lo sospettavo neanche che la tua anima stesse andando a
pezzi. Ti credevo sereno perché avevi convinto Ta Nea a rompere gli indugi e a
pubblicare i documenti entro il mese. Nei primi dieci giorni d'aprile l'unica volta
in cui mi preoccupai fu quando chiamasti per dirmi che t'erano entrati in casa di
nuovo, di nuovo avevano tentato di rubarti i documenti. Pronto, sono io, sono me.
Indovina cos'è successo. Stanotte, rientrando, ho trovato uno in casa. Uno in
casa?! Sì, l'ho sorpreso mentre tentava di forzare la porta di camera. E che hai
fatto?!? Gli sono saltato addosso e l'ho coperto di botte. Poi l'ho immobilizzato,
l'ho fatto prigioniero, e l'ho chiuso in una cantina. Lo sto interrogando. E chi è,
chi lo ha mandato? E quel che tento di scoprire, per ora posso dirti soltanto che
si chiama Erodotu. Forse è un ladro e basta, Alekos. No, non è un ladro e basta.
Sapeva che le fotocopie si trovano in camera. Ma come?! Le tieni ancora lì? Non le
hai ancora sistemate in un luogo sicuro? E dove vuoi che le tenga? Nella villa di
Averoff? Ascoltami, Alekos... Niente prediche, ciao. Oltre che preoccupata ne
rimasi perplessa: era mai concepibile che tu continuassi a custodire il tuo tesoro
in quella casa, in quella stanza, alla merce di chiunque? E non era strano che
dell'allarmante episodio tu parlassi quasi con leggerezza, indovina che è successo,
stanotte ho trovato uno in casa, l'ho fatto prigioniero e l'ho chiuso in cantina? Dal
tono della voce si sarebbe detto che la cosa ti divertisse. O mi sbagliavo? Per
accertarmene aspettai qualche ora e poi ti richiamai. Ma la voce, stavolta, tradiva
una sconsolante rassegnazione: Sì, sono io, che mi racconti?Io nulla, Alekos. Sei
tu che devi raccontarmi! Su cosa? Come su cosa? Su quell'Erodotu che hai
chiuso in cantina. Ha parlato? Ah, sì. Ha parlato.
E chi lo mandava? Uffa, per telefono non è il caso di discuterne. Comunque chi se
ne frega, non è importante...Non è importante?! Uno sconosciuto entra in casa di
notte, tu lo sorprendi mentre sta forzando la porta di camera, mi telefoni perché
lo sappia, e poi non è importante? Non lo è perché non cambia nulla. Quanto a
lui, si tratta di un disgraziato, mi dispiace perfino d'averlo preso a botte.
Poveraccio, è tutto un livido.. E non lo consegni alla polizia? No. Non ne informi i
giornali?. No. Alekos, non ti capisco. Eh! Forse sto diventando saggio. La vita è
già talmente faticosa, perché complicarla con le inutilità? L'ho acchiappato, ho
saputo quel che volevo sapere, ho deciso che non me ne importa. Basta. E con

questa frase chiudesti un argomento cui prima avresti dedicato fiumi di parole,
oceani di furore. Ne sarei mai riuscita a trasmetterti la mia convinzione che si
trattasse d'una faccenda gravissima.
Anzi a quei tentativi avresti reagito con ruvidezza così sgarbata da farmi
concludere che, malgrado l'incanto dei ventotto giorni e l'abbraccio all'aeroporto,
ti stavi staccando da me. Nulla di nuovo sul tuo prigioniero? Quale prigioniero?
Erodotu, no?. Lascia perdere Erodotu, cosa vuoi che conti Erodotu.
Conta, Alekos, conta. Se conta è affar mio. Che modo di rispondere è questo? Il
modo di chi ha le scatole rotte. Mi hai rotto le scatole come Erodotu. Ciao, non
posso ascoltarti. E non telefonare per ogni sciocchezza! Se tu sapessi i problemi
che ho! Ne avevi. Per incominciare il partito. Dopo che le dimissioni erano state
respinte, col partito avevi raggiunto una specie di armistizio. Per nei giorni
seguenti eran venute a galla altre prove sul collaborazionismo di Tsatsos e la
guerra era ripresa, aggravata dal fatto che costui avesse sfacciatamente proposto
di toglierti la presidenza del gruppo giovanile e che, per spuntarla, si fosse
appoggiato alla corrente che i socialdemocratici tedeschi finanziavano in cambio
d'una politica ultramoderata e neutrale. Allo sforzo di combattere, dunque, si
aggiungeva lo sdegno di vederti attaccare proprio da quella combriccola di
mestieranti senza ideali, di yesmen senza scrupoli. Poi c'erano i guai con Ta Nea,
gli ostacoli che non avevi previsto.
Uno riguardava gli annunci pubblicitari che la radio e la televisione rifiutavano di
accettare per timore di compromettersi; l'altro la sequenza con cui gli archivi
andavano pubblicati. Tu sostenevi, a ragione, che i documenti su Averoff
dovevano aprire la serie perché erano i più gravi e perché in caso contrario egli
avrebbe avuto il tempo di correre ai ripari con qualche stratagemma giuridico. Il
giornalista cui avevi affidato il lavoro redazionale, Jannis Fazis, sosteneva invece
che quei documenti dovevano apparire per ultimi perché l'attesa li avrebbe
impreziositi e drammatizzati. Ad appoggiare Fazis, che ti piaceva, c'era un
direttore che detestavi al punto di chiamarlo Signor Malaka, signor Stronzo, e ci
esasperava i tuoi malumori, la tua inappetenza, la tua insonnia. Tuttavia non
erano questi problemi a nutrire il tuo disinteresse verso Erodotu e il tuo distacco
nei miei riguardi: era la misteriosa abulia in cui ti rifugiavi come una chiocciola
che si rannicchia nel guscio per dormire in se stessa. In fondo, ci che avviene ai
morituri nella fase che precede lo stato di coma. V'è una fase, prima che

sopraggiunga lo stato di coma, durante la quale essi si chiudono in un isolamento
quasi mistico: respingendo le persone che amavano, ignorando le cose che li
appassionavano, spogliandosi degli affetti, delle curiosità, dei desideri, di tutto ci
che costituisce un ponte con la vita. Però non è la fase decisiva perché, nel
medesimo istante in cui si credono liberati da ogni legame, residuo di tentazione,
scoppia in loro un rabbioso singulto, quasi una nostalgia della vita che è bella
anche se è brutta; nella vita c'è il sole, c'è il vento, c'è il verde, c'è l'azzurro, c'è il
piacere di un cibo, di una bevanda, di un bacio, c'è la gioia che riscatta le
lacrime, c'è il bene che riscatta il male, c'è il tutto, il contrario del nulla. Dall'altra
parte c'è l'immobilità, c'è il buio, c'è il nulla. E allora gli torna la voglia di amare,
di desiderare, lottare. Soprattutto lottare. E una voglia oscura, dolorosa, fragile
come un cristallo. E brevissima. Ma a un eroe basta per compiere lo sforzo finale.
Lo sforzo finale ebbe inizio la settimana in cui il destino si servì ancora una volta
di me, bullone dell'ingranaggio, anello della catena. Era metà aprile, la Pasqua si
avvicinava con date diverse nel mio paese e nel tuo, quella cattolica sarebbe stata
il 18 e quella ortodossa il 25, quando il telefono squillò per regalarmi l'antica voce
festosa: Pronto, sono io, sono me, kalimera, buongiorno, alitaki! Meno male. Sei
contento, oggi. Vanno bene le cose? Sì, rispondesti, andavano splendidamente
perché t'eri dimesso dall'odioso partito una seconda volta e per sempre: con la
politica dei politici ormai non avevi più nulla a che fare. Davvero? Davvero, e ti
doleva la gola per gli urli con cui li avevi assordati, ti sentivi Demostene per le
cose che gli avevi detto. Che arringa, no, che rissa. Al gruppo parlamentare,
oltretutto, dove udivano anche gli altri. Prima avevi chiuso il becco a Tsatsos
buttandogli sul grugno le sue letterine a Dascalopulos e le sue delazioni a
Hazizikis; poi l'avevi chiuso ai suoi compari leggendo un'intervista di Brandt,
quella con cui Brandt ammetteva di finanziare la loro chiesina; infine avevi
chiesto a quale socialismo si riferisse questa Unione di Centro che parlava di
socialismo. A quello inafferrabile e indefinibile della socialdemocrazia tedesca? A
quello chiacchierone e bugiardo del demagogo Papandreu? A quello totalitario e
settario dei fanatici che volevano portare la Cambogia in Europa? Tutti socialisti,
perdio; a parte il cristianesimo, non esisteva moneta più inflazionata del
socialismo. Così inflazionata, così cincischiata, così sputtanata che tutto l'oro di
Fort Knox non sarebbe bastato a restituirle un po di valore e un po di autorità. E
la cosa più orrenda era che, pur tenendola nel portafoglio, pur spendendola a

occhi chiusi per ogni cazzata, nessuno sapeva che cavolo significasse se non quel
che n'era stato scritto in un libro letto da un pugno di studiosi e basta.
E ammesso che significasse quel che tu speravi, un sogno per andare avanti e
rendere il mondo un po più libero, un po più pulito, era così che volevano
materializzarlo? Vendendosi per un pugno di marchi, tenendo un sacco di merda
perché era nipote del presidente della Repubblica, rompendo i coglioni a te che
volevi denunciare la sudicia destra, la destra degli Averoff? Dopodiche ho
spaccato la sedia sul tavolo e ho rotto il tavolo, sono uscito sbatacchiando la
porta e ho scardinato la serratura. Ah! Dice che verrò espulso perché le
dimissioni non contano. Ah! E ora mi odiano all'unanimità: a destra, a sinistra, al
centro, all'estrema destra, all'estrema sinistra, e all'estremo centro. Un plebiscito.
Ah! sicché se stanotte finissi investito da un camion o avvelenato da un piatto di
funghi, non chiederti chi mi ha ammazzato. Mi hanno ammazzato all'unanimità:
a destra, a sinistra, al centro, all'estrema destra, all'estrema sinistra, e
all'estremo centro. Ah! Sono felice. Felice?! SI, perché la vita mi piace. Nella vita
c'è il sole, c'è il vento, c'è il verde, c'è l'azzurro, c'è il piacere di un cibo, di una
bevanda, di un bacio, c'è la gioia che riscatta le lacrime, c'è il bene che riscatta il
male, c'è il tutto, e ti amo.
Anch'io. E poi c'è la radio che in questo momento trasmette gli annunci
pubblicitari di Ta Nea: Alessandro Panagulis rivela gli archivi segreti che il
governo non ha saputo trovare.
Alekos, questa sì che è una bella notizia! Ce l'hai fatta, dunque! Quando
incomincia la festa? Fra tre giorni, domenica.
Uhm! Peccato che non sia ad Atene domenica. Vengo in Italia, domenica. Arrivo
con la Primavera e ci rimango fino a giovedì o venerdì.. Alekos... Così sto lontano
dal bailamme e cambio colore alla Primavera, la faccio verniciare di blu. Il blu si
confonde col buio, e pazienza se poi dovremo cambiarle il nome. Vuol dire che la
chiameremo Autunno. Alekos... Prenota il vagone letto per Brindisi, prendo la
nave a Patrasso, sbarco a Brindisi, ci incontriamo al porto e proseguiamo insieme
per Roma e Firenze. Alekos! Che c'è? Non vuoi venire a Brindisi? No, Alekos,
Brindisi non c'entra. E che domenica sera o lunedì mattina parto. Vado in
America. Ma domenica è Pasqua, la Pasqua cattolica! E lunedì è il lunedì di
Pasqua! Sì, Alekos.. Abbiamo sempre passato i Natali e le Pasque insieme,
sempre! Sì, Alekos, per stavolta era sottinteso che non avremmo passato la

Pasqua insieme perché devo recarmi in America! Ne avevamo parlato, Alekos! Ne
avevamo parlato e spesso. Il 18 o il 19 aprile, t'avevo detto, sarei andata a New
York e di lì nel Massachussets per tenere una conferenza in un college. Il tema
della conferenza era l'arte del giornalismo e la formazione della coscienza politica
in Europa attraverso la stampa e, dopo qualche battuta di scetticismo, avevi
concluso che si trattava di un buon tema: mi avevi suggerito addirittura alcune
ricerche sui menanti che nel Cinquecento andavano di feudo in feudo coi loro
papiri di informazioni politiche. Non te ne ricordi, Alekos? Me ne ricordo tanto
bene che ho detto: arrivo domenica 18 e rimango quasi una settimana. La tua
conferenza è il 26. Hai tutto il tempo di partire il 24 o il 25 o anche il 23. No,
Alekos, no, perché nei giorni precedenti ho preso molti impegni a New York:
anche di questo abbiamo parlato! Gli impegni a New York li cancelli, semplice.
Impossibile, Alekos. Niente è impossibile fuorché non morire. Ascoltami, Alekos:
perché non vieni subito con l'aereo? Così stiamo insieme fino a domenica sera o
lunedì mattina e... No. Se vengo, vengo per starci quasi una settimana. Se vengo,
vengo con la Primavera per cambiarle la tinta. E per toglierla di qui, non aver la
tentazione di usarla durante il bailamme. E va bene, portala. Ci vedremo per
ventiquattr'ore e... Ventiquattr'ore no. Sii ragionevole, Alekos. Cerca di adeguarti
almeno una volta alle mie esigenze, non fare le bizze. Sei tu che fai le bizze. Sei
tu, sono io, è colpa tua, è colpa mia: quando sdrucciolavamo in simili battibecchi,
il nostro antagonismo si scatenava e nessuno dei due voleva cedere. Alla fine
urlasti che andassi pure in America, sulla Luna, all'inferno, tanto non saresti
venuto, non avresti cambiato nessuna tinta, ti saresti tenuto la Primavera ad
Atene, e togliesti la comunicazione lasciandomi con l'immagine di un gran muso
verde che corre bruciando due immensi occhi gialli inseguito da altri occhi gialli.
La solita immagine umanizzata, sinistra, della Morte con l'aspetto di
un'automobile. Allora presi a dirmi che forse avrei potuto rinviare davvero gli
impegni a New York, partire sei giorni dopo, insomma accontentarti, e la notte ti
richiamai per dire hai vinto, caro, va bene, ho cambiato programma. Ma il
telefono suonava a vuoto: eri andato a smaltire la rabbia in un buzuki. C'eri
andato con un greco di Zurigo e questi racconta che apparivi scatenato, non
facevi che comprare rose, gardenie, gettarle all'orchestra perché suonasse la
canzone che ti ossessionava due anni prima, la vita è breve, molto molto molto


breve, e a un certo punto volevi raccattare due prostitute, portarle in via
Kolokotroni. Non ce le portasti perché il greco di Zurigo te lo impedì:
Sei distrutto, riposati, vuoi morire? E tu: Uhm! Sai che funerale mi farebbero se
morissi ora? Un milione di persone a dir poco. E perfino Papandreu si chinerebbe
a baciare la mia bara, perfino Tsatsos direbbe che gli dispiace. Il solo a tacere,
forse, sarebbe Averoff. Però non eri ubriaco, parlavi di Camus, di Epicuro, della
felicità che si cerca nei piaceri, nel vino, nelle prostitute, questo dimenticando che
la felicità esiste solo nell'atarassìa cioè nell'assenza di dolore, e poiché la morte è
assenza di tutto è anche assenza di dolore, quindi felicità. La felicità delle pietre,
dice Camus. Sembravi ossessionato da questa battuta, la felicità delle pietre.
Ogni tuo discorso si rifaceva alla felicità delle pietre.
Ma io non lo sapevo che ormai desideravi la felicità delle pietre, niente avrebbe
potuto indurmi a un tale sospetto, e non trovarti mi irritò. All'alba smisi di
chiamare, giurai che avrei mantenuto il programma americano, e ci riparlammo
soltanto domenica 18 aprile. E da questo momento che le nostre telefonate
diventano importanti, tessere indispensabili per ricomporre il mosaico del tuo
ultimo sforzo. Uno sforzo così crudele, così sovrumano, da offuscarti la memoria e
la mente. Pronto, sono io, sono me. Non sei venuto davvero, eh? Hai tenuto fede
alla bizza. Meglio, alitaki, meglio. Non immagini il lavoro che ho qui, le
preoccupazioni. Poi se fossi venuto, avrei portato la Primavera, e la Primavera mi
serve qui perché non dormo più in via Kolokotroni: dormo a Glyfada. Come farei a
spostarmi due volte al giorno fra Atene e Glyfada senza automobile? Per questo
non ti ho trovato l'altra notte! Potevi anche dirmelo, no? Te l'ho detto! Quando?
Ieri. Ma se ieri non ci siamo parlati! Ah, già. Comunque perché dormi a Glyfada?
Un altro Erodotu? No, una cautela. Sai, è uscito Ta Nea. C'è un lungo articolo,
oggi. L'intera prima pagina sui miei documenti. Ma la grande giornata è domani.
La pubblicazione vera e propria incomincia domani. Coi documenti su Averoff?
No, purtroppo no. Il signor Malaka non ha ceduto, si caca addosso dalla paura.
Incomincia col diario di Hazizikis. E, subito dopo, la nebbia. Lo sai perché ti
chiamo? Per augurarmi buona Pasqua e per chiedermi scusa di aver tenuto fede
alla bizza. No, per dirti che passeremo insieme la Pasqua ortodossa, domenica
prossima! A Parigi! A Parigi?! Sì, venerdì 23 devo andare a Parigi per partecipare a
un congresso di esiliati cileni e... Non te l'avevo detto? Strano, mi sembrava di
avertelo detto. In ogni caso ho promesso di andarci e tu mi raggiungi a Parigi. Ci


stiamo fino a lunedì o martedì e poi andiamo a Cipro. A Cipro?! Sì, devo ritirare
qualcosa che...
A telefono non posso spiegarmi, per puoi immaginarlo. Roba di prima qualità.
Alekos.... Ti piace l'idea di Parigi e di Cipro? Eh? Ti piace? Alekos... domani vado
in America. Te ne sei dimenticato? In America?!. Sì, caro, in America. Non ci
siamo litigati per questo, tre giorni fa? Uhm. Già. Ora me ne ricordo. Ora te ne
ricordi?!Sì, lo avevo dimenticato. E cosa vai a fare in America? Alekos! Che ti sta
succedendo? La conferenza nel college del Massachussets, hai dimenticato anche
questo? Uhm. Già. Ora me ne ricordo. Dunque non vieni a Parigi con me. No,
caro, no! E nemmeno a Cipro.
No, caro, no. Peccato! Alekos, ti senti bene, Alekos?. Sì, sì.
Quando torni dall'America? Il 4 o il 5 maggio. Uhm. Già.
Ora ricordo. Allora ci vediamo il 5 maggio. Vengo da te il 5 maggio. No, sarai tu a
venire da me il 5 maggio. Abbiamo appuntamento il 5 maggio. Resta fissato il
giorno 5 maggio. Ripetevi la data 5 maggio come un disco rotto che suona sempre
lo stesso frammento, quasi che trattenerla ti costasse una fatica tremenda e
perfino pensare fosse un'agonia. Eppure anche nei momenti di maggiore tensione
il tuo cervello rimaneva più lucido d'uno specchio pulito e per le date avevi una
memoria fantastica. Per esempio, durante il litigio avevi ricordato benissimo che
la mia conferenza nel Massachussets era il 26 aprile. Strano. Proprio strano, mi
dissi. E deposi il ricevitore in preda a un disagio che superava perfino lo
sbalordimento.
Mi sarei sbalordita assai meno se avessi saputo che, accettando di dare inizio alla
pubblicazione proprio col diario di Hazizikis, avevi tradito l'impegno assunto con
Fany: Se c'è qualcosa contro tuo marito, io ti assicuro che non lo userò.
Credimi, ragazzina, io son certo di poter prendere gli archivi senza causarti
problemi e senza che nessuno ne sappia mai nulla.... Ma, più di quello, v'era il
fatto che proprio in quei giorni tu fossi entrato in possesso del documento che
avrei ricevuto dopo la tua morte: un foglio indicato col numero di protocollo
98975. In alto a sinistra, scritto a macchina: Dalla centrale del Kyp al ministro
della Difesa Evanghelis Averoff.
Segreto assoluto. Personale urgente. In alto a destra scritto a mano: Ricevuto il 6
aprile 1976 alle ore 9,30. Al centro, sempre a mano: Graf. Sig. ministro. E diceva:
Abbiamo l'onore di informarla che in base al suo ordine verbale dei giorni scorsi il


colonnello Costantino Costantopulos e un altro ufficiale del quartier generale
raggiungeranno il nostro gruppo di Cipro per recuperare i documenti segreti
dell'EatEsa di Atene che si trovano nelle mani di un collaboratore del deputato
Panagulis. Questo ufficio si mette ai suoi ordini per informarla che aspetta da lei
ulteriori incarichi.
Fu dopo quel foglio e la scelta fatta da Ta Nea che le cose precipitarono. Anzitutto
con le telefonate minatorie: Se non metti giudizio, Panagulis, te ne pentirai. Se
non abbassi la cresta, Panagulis, ce la pagherai. Poi con l'accanimento della
magistratura che attraverso un giudice di nome Giuvelos si opponeva alla
pubblicazione. Giuvelos, un tipo ambizioso, pieno di iniziative, aveva già dato
segni d'allarme quando gli annunci pubblicitari erano stati trasmessi alla radio.
Infatti aveva subito telefonato a Ta Nea per sapere di che si trattasse, e va da se
che non lo avevi preso sul serio. Escludo che voglia davvero ostacolarci avevi
detto a Fazis. Vedrai che si calmerà. Domenica 18 aprile, per, cioè il giorno del
lancio che anticipava il diario di Hazizikis, eccolo chiamare di nuovo: per
diffidarti. Così lunedì 19, così martedì 20. Stavolta, per convocarti nel suo ufficio
con Fazis. Eppure non c'era nulla di sensazionale in quel diario, nulla che
gettasse disdoro su qualche membro del governo; malgrado la drammaticità con
cui veniva presentato, non faceva che spiegare i sistemi con cui ogni giorno il Kyp
consegnava all'Esa le schede dei sorvegliati speciali. I lettori n'erano rimasti
addirittura delusi: Tutto qui?Quanto alle schede che Fazis e il suo direttore
avevano scelto come esempio, riguardavano persone del tutto in pace con la
propria coscienza, resistenti come Mavros e come Canellopulos. L'invito del 20
aprile quindi ti indispettì. perché se la prendeva tanto, Giuvelos? Che cosa
temeva? Di vedere, forse, la scheda col numero ventitre: Evanghelis Averoffex
deputato seguace della politica del ponte fra il governo nazionale e gli ex politici
già collabora ed è diretto da alti esponenti del Kyp con risultati finora molto
positivi? Il dispetto divenne tuttavia sdegno quando notasti che Giuvelos ti
convocava per l'indomani 21 aprile, anniversario del golpe di Papadopulos.
Giuvelos! Vuoi festeggiare il 21 aprile, Giuvelos? fu l'urlo con cui gli rispondesti. E
che non ti aspettasse, non avresti raccolto il suo invito, se voleva parlarti doveva
venire lui da te ma coi carri armati perché non gli avresti aperto neanche la porta,
non lo avresti ricevuto. Poi chiedesti a Fazis di fare altrettanto. Allora, giovedì 22
aprile, Giuvelos si recò al giornale. Parlò con Fazis e con il direttore, mise sul


tavolo le sue richieste: che Ta Nea cessasse immediatamente la pubblicazione, e
che gli archivi gli fossero consegnati. Lo esigeva anche il ministro della Difesa che,
quale custode dell'Esa e del Kyp, era l'unico in grado di autorizzare la diffusione
di simili carte. E se Ta Nea non avesse obbedito egli avrebbe provveduto al
sequestro emettendo un'ordinanza. Che te ne informassero. Te ne informarono e
la tua replica fu adamantina: Dite a Giuvelos che con la sua ordinanza ci si può
pulire il culo.
Sì, la tua combattività s'era riaccesa. Per a quale prezzo.
Chi t'era vicino dice che bastava guardarti per capire lo sforzo che ti costava, la
tensione che ti consumava. Non stavi mai fermo, ora ti toglievi la giacca
brontolando ho caldo, ora la rimettevi brontolando ho freddo, ora ti allentavi la
cravatta, ora ti sganciavi la camicia, ora ti lamentavi per il mal di stomaco: Ho la
febbre. Mi sento male. Sono vecchio. Ah, come sono vecchio! Capitava anche che
tu indicassi le case di via Kolokotroni dicendo: Uhm! Da una di quelle finestre
potrebbero spararmi proprio bene. Uhm! L'idea che qualcuno volesse ucciderti,
infatti, non ti lasciava un secondo. Era questo a provocare gli stati confusionali
che ti accecavano la mente? La notte tra giovedì e mercoledì, quando ti chiamai
da NewYork, ad Atene già il mattino di giovedì, sembrava che tu fluttuassi dentro
una nebbia: Sei già arrivata, bene! Brava! Io arrivo domani, alle due del
pomeriggio, con l'Olympic. Vieni a prendermi all'aeroporto? All'aeroporto, Alekos?!
Quale aeroporto?!.Come quale aeroporto? Quello di Parigi, no? Così di lì andiamo
a Cipro e... Alekos! Dove credi che sia, Alekos?!.
Silenzio. Poi un soffio smarrito: Dove sei? Da dove chiami? Da New York, Alekos!
Sono a New York! Oh, no! Io credevo che tu fossi a Parigi. Alekos, che dici? Non ti
ho chiamato anche ieri da New York?! Uhm! Già! Uhm! Ma cosa ci fai a New
York? perché sei a New York? Non dovevamo incontrarci a Parigi, fare insieme la
Pasqua ortodossa, andare a Cipro lunedì? Avrei pianto. No, Alekos, no. Hai
dimenticato di nuovo!. Già. Ho dimenticato di nuovo. Che ti succede, Alekos?
Tutto. Sono stanco, sono così stanco. Sono stufo, sono così stufo. Non ne posso
più. Mi sta tagliando le gambe, sai, mi sta tagliando le gambe. Sai che ti dico?
Liquidata questa storia, lascio anche il Parlamento. E mi rimetto a studiar
matematica.
Invece di rimettermi a scrivere il libro mi rimetto a studiar matematica. Tanto
scrivere libri non serve a nulla. Neanche stare in Parlamento serve a nulla. Oh,


che mal di testa, che mal di testa. Hai ricevuto la fotocopia del foglio? Che
fotocopia, che foglio? Quella che ti ho spedito due giorni fa a Firenze..
Alekos, se sono a New York, come posso aver ricevuto una fotocopia che hai
spedito due giorni fa a Firenze? Giusto. Hai ragione. Vedi quanto sono stanco.
Appena lo ricevi, mettilo in banca. Ce lo metteremo insieme quando torno, Alekos.
Sì, quando torni. Ma quando torni? Il 5 maggio, Alekos, lo sai! Ne abbiamo
parlato cento volte! Uhm! Sì, vero. Il 5 maggio.
Ci vediamo il 5 maggio. E i tre numeri di Ta Nea li hai ricevuti? Ricevuti dove?!.
Ah! Dimenticavo di nuovo, non puoi averli ricevuti, li ho spediti a Firenze. Meglio
così. Tanto non c'è nulla. continuano a pubblicare futilità, sono caduto nelle
mani di imbecilli. Ciao, ci parliamo domani. Domani sono a Parigi, all'hotel Saint
Sulpice. No, non al Saint Sulpice, al Louisiana. Al Saint Sulpice o al Louisiana?
Non ricordo neanche questo, cataramene Criste! Quel disgraziato di Giuvelos mi
rompe la memoria, insieme ai coglioni.
L'ordinanza di Giuvelos fu emessa venerdì 23 aprile. Poiché la Corte marziale ha
aperto un'inchiesta sui documenti dell'Esa, poiché un giornale sta pubblicando
quei documenti, poiché coloro che se ne sono impossessati non li consegnano alla
magistratura pur essendo stati invitati a farlo con le formalità della legge, poiché
non ci è stato possibile requisirli, poiché tale pubblicazione può ostacolare il
lavoro della giustizia, abbiamo deciso di vietarla a partire da oggi. Il testo giunse a
Ta Nea mentre stavi volando a Parigi ignaro che la minaccia si fosse realizzata,
anzi convinto che non si realizzasse. durante il viaggio, m'avrebbe raccontato il
passeggero che ti sedeva accanto, un uomo d'affari amico di Karamanlis, apparivi
disteso. Conversavi con equilibrio e con amabilità, criticando le intemperanze dei
giovani, esaltando il buon senso dei vecchi, citando proverbi. Un paio di volte
citasti quello di Mao Tze Tung: Quando punti un dito alla Luna per indicare la
Luna, invece della Luna gli stupidi guardano il dito. Che quel giorno il tuo umore
non fosse cattivo e la tua mente non fosse confusa, lo confermano inoltre i due
greci che ti aspettavano a Orly, una coppia del tuo entourage dionisiaco. Un po
pallido, sì, e aveva le occhiaie. Un po fiacco perché, disse, il passeggero che gli
sedeva accanto lo aveva fatto chiacchierare troppo. Per quasi allegro. A tavola
mangi d'appetito e rideva narrando della coppia Giuvelos Averoff. Del resto eri
lucido e gaio anche quando mi telefonasti per chiarire che l'albergo era il
Louisiana, non il Saint Sulpice: scherzavi addirittura sulle passate smemoratezze.


Scommetto che sei a New York! Sabato invece fluttuavi di nuovo dentro la nebbia
e l'apatia. Erano le sette di sera, a Parigi, quando ti chiamai da New York per
augurarti buona Pasqua, e non credevo neanche di trovarti. A quest'ora, pensavo,
sarà al congresso degli esiliati cileni. Non eri al congresso, mi rispose una voce
impastata di sonno: Sì, dormivo... dormo. Alle sette di sera? E i cileni?I cileni
stanno in Cile. Quanta cordialità! Buona Pasqua.Non c'è Pasqua per me, non c'è
più nulla per me. Ha emesso l'ordinanza, ha sospeso la pubblicazione. Ieri. E ora
che farai? Non lo so. Decider lunedì, rientro lunedì. Senza andare a Cipro? Non
serve più. Non avevi voglia di parlare, non riuscivo a intavolare un discorso,
rifiutasti di prendere l'indirizzo del college dove sarei stata la sera seguente. Tanto
non ti chiamo lì, troppo complicato. Chiamami tu. E se non puoi chiamarmi, non
preoccuparti: ci vediamo il 5 maggio. Resta l'appuntamento del 5 maggio. Era
l'unica cosa che non precipitasse mai nelle tenebre della dimenticanza, la data del
5 maggio.
Ma che c'entra il 5 maggio con l'indirizzo del college? Il 5 maggio è lontano,
Alekos. E vicino, invece. Molto vicino.
D'accordo, è vicino. Ciao, Alekos, a domani. Ma l'indomani, quando ti richiamai, il
portiere del Louisiana disse che eri partito. Partito? Oui, madame, le monsieur est
parti. E non aveva lasciato un messaggio per me? No, madame, pas de message
pour personne. Nessun messaggio per nessuno. Le monsieur etait presse, très
presse. Il signore aveva fretta, molta fretta.
CAPITOLO II
La domenica è così quieta e inquietante a New York. Pare che il mondo si fermi,
che la vita cada in catalessi, la domenica a New York. La gente tace, le strade
sono deserte, l'unico rumore che muove il silenzio è lo strisciar soffocato delle
ruote sull'asfalto, un'automobile, un camion, oppure il borbottio di un elicottero
che sorvola la città. Chi ha detto che ci si rilassa e ci si riposa la domenica a New
York? Al contrario, sembra un giorno fatto per pensare, per tirare le somme dei
nostri errori e dei nostri rimpianti, cioè per tormentarci. Rattrappita in quel
vuoto, in quel silenzio appena mosso da fruscii, borbottii, mi laceravo il cervello di
rimproveri, dubbi, interrogativi e la sensazione d'aver commesso un tragico errore
a mettere un oceano fra noi cresceva di minuto in minuto.


D'accordo, la conferenza che dovevo tenere il giorno seguente non avrebbe potuto
esser cancellata senza commettere un imperdonabile sgarbo; d'accordo, avevi
detto più volte che ti servivo lontano dalla Grecia; d'accordo, la mia presenza ad
Atene sarebbe stata probabilmente un impaccio. Ma ogni volta che parlavamo
sembravi così solo, così triste, così confuso, e come avevo potuto lasciarti in un
momento simile? Non ci vedevamo da ventiquattro giorni. Di colpo ventiquattro
mesi, ventiquattro anni. Non eravamo mai rimasti ventiquattro giorni senza
vederci, mai. L'intervallo più lungo era stato quello della mia fuga: diciassette
giorni. E stavi bene, allora: bene quanto un Satana che si ribella alla dittatura di
Dio, quanto un Dioniso inghirlandato di piaceri e di pampini. Stavolta, invece:
Non c'è Pasqua per me, non c'è più nulla per me. Le monsieur est parti. Le
monsieur etait presse, très presse.. E il foglio che avevi spedito a Firenze? Che
foglio era? Di che parlava, di chi? E quell'addio, quell'abbraccio in pubblico,
quella frase solenne: Sei stata una buona compagna. L'unica compagna possibile.
perché avevi parlato al passato? E perché ora pensavo a quel saluto come a un
addio? Sciocchezze. Malinconie di una domenica a New York. Ne avremmo
discusso il 5 maggio. Ci vediamo il 5 maggio. Resta l'appuntamento del 5 maggio.
Ogni tuo discorso si concludeva con le parole 5 maggio, la data 5 maggio. Stava
diventando un'ossessione questo 5 maggio. Incominciava a innervosirmi questo 5
maggio. Neanche fosse dovuto succedere qualcosa di speciale, anzi qualcosa di
brutto il 5 maggio. E a proposito di giorni, perché eri partito da Parigi con un
giorno di anticipo? Telefonai ad Atene, non rispose nessuno. E allora mi ribellai:
basta coi complessi di colpa, i timori, le angosce: anche se mi trovavo dall'altra
parte della terra, in un paesaggio che non ti apparteneva, in una realtà che ti
escludeva, riuscivi a condizionare la mia esistenza, determinarla, fagocitarla.
Liberarsi di te, liberarsi! Sarei andata subito ad Amherst. Preparai la valigia, e tre
ore dopo ero ad Amherst, la cittadina del college.
Prati ben rasati, freschi. Alberi frondosi, verdi. Case rosse col porticato di
colonnine bianche e il tetto di ardesia blu. E dinanzi alla finestra della mia
camera uno splendido pesco fiorito, una nuvola rosa che stordisce col suo
profumo. Benvenuta fra noi, benvenuta, guarda come è tenero il mondo da noi,
com'è facile. Niente archivi dell'Esa, niente diario di Hazizikis, niente imprese
eroiche, niente passioni. Abbiamo superato tutto, noi, anche il dolore. Non
abbiamo mai fame, non abbiamo mai freddo, le controversie teologiche non ci


interessano, al destino non ci crediamo, alle superstizioni, ai presentimenti.
Siamo logici, noi, raziocinanti. E anche carini, ospitali, civili, malgrado qualche
guerra e qualche visto negato.
Vieni, riposa con noi, ti facciamo un po di anestesia. Un bell'anfiteatro con le
poltrone di velluto, un muro rotondo di immobili volti che ascoltano. Un
altoparlante che diffonde una voce metallica, una lingua che ti cancella
finalmente dai miei pensieri. Good evening, ladies and gentlemen, it's a pleasure
to be here with you. Buonasera, signore e signori, è un piacere esser qui con voi.
The subject of this lecture will be the art of journalism and, through the press,
the formation of the political consciousness in Europe. L'argomento di questa
conferenza sarà l'arte del giornalismo e la formazione della coscienza politica in
Europa attraverso la stampa. Atene dov'è? Sancho Panza chi è? E Ismaele? Dopo,
in albergo, c'è un telefono accanto al mio letto. Basterebbe sollevare il ricevitore,
comporre un prefisso e un numero, dirti: Visto che ho cianciato di political
consciousness, coscienza politica, e senza contare l'amore, perché sei partito da
Parigi con un giorno di anticipo? Sollevo il ricevitore e: Hallo, may I have a coke?
Posso avere una coca cola? Che sollievo questa pace grassa di benessere,
imbottita d'oblio. Would you like to stay one day more, two days more?
Gradirebbe rimanere un giorno o due in più? Yes, thank you! Thank you very
much. Oh, sì! Grazie! Grazie mille. Rinviare i tormenti, sospenderli. Riposare
ancora, allungare ventiquattr'ore di più questa deliziosa narcosi dell'anima. E così
che ci si prepara al male che urla quando ci si sveglia dall'anestesia? perché
intanto, al di là dell'oceano, la morte si avvicinava. L'irresistibile vento che
succhia la stella e l'aspira nel gorgo spazzando ogni residuo di speranza, di
illusione. Non ti restavano ormai che cinque giorni di vita.
Lunedì 26 aprile, quint'ultimo giorno. Sembravi un uccello che svolazza in una
stanza priva di porte e finestre, mi avrebbe raccontato Fazis. Camminavi su e giù,
su e giù, disperato, infuriato, in cerca di un'uscita, e l'uscita non esisteva.
Rientrando da Parigi, la sera avanti, avevi chiamato Giuvelos e un ruggito aveva
scosso via Kolokotroni: Giuvelooos! Sei anche tu un servo di Averoff, Giuvelooos?
Prendi ordini anche da quel frocio di Averoff, Giuvelooos? Ma Giuvelos aveva
risposto, ghiaccio, che lui prendeva ordini soltanto dalla giustizia e la giustizia
avrebbe fatto il suo corso. Poi avevi chiamato l'ufficiale del Kyp. Il baule dei
documenti su Cipro, il baule! Bisognava portarlo via immediatamente, non c'era


tempo da perdere! Che te lo mandasse al più presto. Anzi che venisse subito
all'ufficio: dovevi spiegargli cosa stava succedendo. In preda al panico l'ufficiale
aveva balbettato no, non era più possibile, troppo rischioso ormai mostrarsi con
te: Averoff lo sospettava, si accingeva a trasferirlo in una caserma ai confini con
la Turchia. Trasferimento?! In una caserma ai confini con la Turchia?! Dunque
non ti si voleva tagliare le gambe e basta, ti si voleva anche mozzare le braccia,
strappare la lingua! Fremendo di collera avevi sussurrato all'ufficiale un indirizzo,
la casa di un amico fidato: che ti raggiungesse lì. L'ufficiale ti avevi raggiunto e
per ore avevate discusso, ma al momento di lasciarvi non avevate concluso nulla.
Peggio, mentre guidavi nel buio, lungo la strada che porta a Glyfada, t'era parso
d'essere seguito da due automobili: una molto chiara, quasi bianca e una rossa.
T'era "parso" perché, quando una appariva, l'altra spariva, e tuttavia il dubbio era
così lieve da sfiorare la certezza. Con quest'idea eri entrato a casa di tua madre e
anche lì, tre volte, il telefono aveva squillato: Se non metti giudizio, Panagulis, te
ne pentirai. Se non abbassi la cresta, Panagulis, ce la pagherai. Controlliamo ogni
tuo gesto, Panagulis, ogni tuo spostamento. Non ci sfuggirai. Non t'avevano fatto
chiudere occhio. Ed ora, stremato dal sonno e dall'impotenza, uccello che
svolazza in una stanza priva di porte e finestre, sbattevi invano le ali contro il
muro e il soffitto del tuo ufficio in via Kolokotroni. Se tu non fossi stato così solo!
Se tu avessi avuto un partito alle spalle! Se i partiti fossero stati una cosa seria,
una cosa degna! Se la parola sinistra avesse avuto un significato! Se al posto
della politica dei politici, dei politicanti, dei mestieranti, degli arrivisti, dei
demagoghi, dei demiurghi, dei rivoluzionari del cazzo, ci fossero stati uomini veri,
disposti a battersi, a darti una mano! Se il popolo fosse stato popolo, se tu avessi
potuto arringarlo, invocarlo: compagni, amici, fratelli, aiuto! Aiuto, perdio! Eppure
doveva esserci una via d'uscita: eri evaso da Boiati, saresti evaso anche da quel
ginepraio.
Avresti, ecco, avresti parlato con Karamanlis per dirgli ci che avevi e sapevi su
Averoff, e ci che Averoff tramava contro di te: servizi segreti, magistratura,
provvedimenti disciplinari che colpivano i tuoi amici. Avresti offerto a Karamanlis
due soluzioni: o intervenire sul suo ministro della Difesa perché ti lasciasse in
pace e su Giuvelos perché revocasse l'ordinanza, o essere affrontato da te in
Parlamento: trovarsi nell'estremo imbarazzo di vedersi consegnare le prove di ciò
che affermavi.


Lo svolazzare dell'uccello impazzito si placò. Sedesti alla scrivania, telefonasti a
Moliviatis: il segretario personale e consigliere di Karamanlis. Gli chiedesti un
appuntamento con il primo ministro: motivi gravissimi, dicesti, rendevano
urgente l'incontro. Moliviatis rispose che il signor primo ministro era molto
occupato in quei giorni: problemi con la Turchia, con la Nato. Le probabilità di
vederlo erano scarse. Comunque avrebbe tentato e ti avrebbe fatto sapere
qualcosa.
Fu Moliviatis a informare Averoff? Lunedì 26 aprile Averoff sembrava molto al
corrente dei tuoi tentativi per incontrarti con Karamanlis. Nel pomeriggio si
trovava a Gudì, nel campo militare di Dionisos, per la cerimonia del dopo pasqua,
e conversava con un ufficiale. A un certo punto questi pronunci il tuo nome, e fu
come dar fuoco a una miccia. Scomparsa ogni morbidezza, ogni untuosità, Averoff
s'accese in un parossismo di cui nessuno lo riteneva capace, dimenticò persino
che centinaia di persone lo stavano guardando, ascoltando, e, gli occhietti
iniettati di sangue, strillava: L'insolente! Il maledetto! Io lo schiaccerò! Lo
schiaccerò, lo schiaccerò! Exonthso, exonthso, exonthso! Lingue di fuoco e
ruggiti, isterici colpi di coda, teste mozze e scheletri spolpati: i resti di chi osò
avvicinarsi al ponte che protegge il reame e scagliare una piccola freccia, un
sassolino contro la montagna. In ginocchio, ribaldi, in ginocchio voi tutti che
osate sfidare chi comanda, chi conta! Exonthso, exonthso, exonthso! Lo udirono
tutti mentre strillava quel verbo. E l'ufficiale che involontariamente aveva
provocato la scena fu colto da tale imbarazzo che arrossendo disse: Signor
ministro, permetta che le volti le spalle per mostrare un sorriso. Altrimenti
crederanno che lei voglia schiacciare me.
Martedì 27 aprile, quart'ultimo giorno. Entrasti in ufficio lamentandoti d'aver
passato un'altra notte d'inferno: niente sonno e molta emicrania. Non eri riuscito
a dormire anche perché, mentre guidavi verso Glyfada, l'automobile rossa e
l'automobile chiara quasi bianca erano riapparse nel buio e in via Vouliagmeni,
all'altezza del distributore di benzina, quella rossa t'aveva quasi toccato. Una
Bmw rossa con due uomini a bordo. Poliziotti incaricati di controllare i tuoi
spostamenti oppure mercenari pagati per molestarti, magari darti una lezione?
Prima o poi li avresti affrontati per toglierti la curiosità; ti saresti trasformato da
inseguito a inseguitore e li avresti costretti a fermarsi. Ora no, ora avevi cose
importanti di cui preoccuparti. L'appuntamento con Karamanlis innanzitutto.


Squillò il telefono, lo agguantasti ansioso: Moliviatis? No, la solita voce beffarda:
Sappiamo sempre dove vai e dove sei, Panagulis. continua così e vedrai che festa.
La segretaria ti udì gridare: .Rotto in culo! Malaka! Vieni qui, vieni a dirmelo in
faccia se ne hai il coraggio!: Si calmi, signor Panagulis! Chi era, signor Panagulis?
Il solito imbecille che crede di spaventarmi. E Moliviatis? Il telefono squillò di
nuovo, di nuovo lo agguantasti ansioso. No, non era Moliviatis. Era Fazis che ti
raccontava la scenata di Averoff al campo di Dionisos.
Ha detto proprio exonthso, lo schiaccerò? Sì. Molte volte.
Eh! Chi l'avrebbe detto? Mi piace, ha più fegato di quanto credessi. Ora sì che lo
farò impazzire. E tu ne avrai di cose da scrivere, alla fine, Fazis! Un romanzo,
caro mio, un romanzo!Quasi che la faccenda ti divertisse. Ma deponendo il
ricevitore avevi guardato l'orologio, impaziente. E Moliviatis? perché non
chiamava, Moliviatis? Ancora qualche minuto e lo avresti chiamato tu. Lo
chiamasti. Oh, disse lui pomposo e ossequioso, lo avevi preceduto d'un attimo.
Stava per telefonarti, per dirti che ieri aveva previsto bene: l'agenda del signor
primo ministro traboccava di impegni. Non v'era una sola pausa nella quale si
potesse introdurre un appuntamento con te. Oh, la Turchia! Oh, la Nato!
Spiacente. Bisognava aspettare. Non posso aspettare, signor Moliviatis! Non devo
aspettare! Non voglio aspettare!. Ma cerchi di capire, signor Panagulis, questioni
di Stato...Anche la mia è una questione di Stato. Riferisca, cataramene
Criste!Riferirò, proverò. Ci provò davvero? Ci aveva provato? Qualche mese dopo
la tua morte parlai con l'uomo d'affari amico di Karamanlis che aveva viaggiato a
Parigi con te, e gli raccontai l'episodio, gli chiesi di chiedere a Karamanlis perché
non ti avesse ricevuto quella settimana.
L'uomo d'affari mi accontentò e, quando lo rividi, mi giurò che Karamanlis
appariva sincero mentre rispondeva di non aver mai saputo che tu avevi chiesto
di vederlo e con tanta insistenza. Se gli avesse detto la verità non lo so, però so
che il rifiuto fu un colpo mortale per te. Ti accasciasti sulla scrivania e ripetevi:
Non c'è nessuno, non ho nessuno. Sono solo, solo, solo! Non ne posso più. Non ce
la faccio più.
Si vede anche dalla fotografia che quella sera ti scattarono in un ristorante. La
fotografia di un uomo che ormai si aggrappa alla vita coi denti. Le guance sono
così risucchiate che gli zigomi emergono più aguzzi delle mascelle; le occhiaie
sono così livide che sembri preso a pugni; il naso è così affilato che non ha più la


medesima forma, il doppio mento è scomparso, e il collo è talmente secco che
sguazza nella camicia. Parli a due che ti ascoltano seri, e dal modo in cui muovi
le mani è evidente che stai dominando un'atroce tensione nervosa. I due hanno
mangiato, i loro piatti sono quasi vuoti, il tuo piatto invece è ancora colmo di
cibo. E il tuo bicchiere di vino è intatto. No, non ce la facevi proprio più. perché,
da qualsiasi parte tu guardassi, tutte le strade ti venivano chiuse e il futuro ti
crollava addosso con la pesantezza di una casa che cede.
Mercoledì 28 aprile, terz'ultimo giorno. Non solo Moliviatis non aveva mantenuto
la promessa di riferire a Karamanlis che chiedevi di incontrarlo ma, ora, non si
faceva neanche più trovare. Bene, dunque: avresti trasferito la tua battaglia in
Parlamento. Prendesti carta e penna, abozzasti una prima stesura della super
domanda da rivolgere a Karamanlis. perché il primo ministro tiene nel suo
governo e a un posto di capitale importanza come il ministero della Difesa, il
signor Evanghelis Tossitsas Averoff, cioè un individuo che collaborò con la
Giunta, che sotto Papadopulos fece la spia del Kyp, che sotto Joannidis tradì la
Marina rivelando agli inquisitori ogni particolare della rivolta, che dopo la Giunta
aiutò i criminali del regime ad espatriare? Poi ci che avresti detto avvicinandoti
agli scanni dove siedono i membri del governo e porgendo il pacco dei fogli.
Consegno al primo ministro le prove di ciò che ho dichiarato: gli archivi
dell'EatEsa che Evanghelis Tossitsas Averoff voleva recuperare attraverso i servizi
segreti e la cui pubblicazione ha sospeso servendosi della magistratura.
Eccoli, e il Parlamento mi è testimone. Me lo raccontasti quando, svegliandomi
dalla narcosi dell'anima, l'anestesia di Amherst, rientrai a New York e ti telefonai.
Sto scrivendo una cosa importante, molto importante. Cioè? Una super domanda
a Karamanlis. Te la leggo, ascolta. Vuoi dire che consegni a lui i documenti?! Sì.
La prossima settimana scoppia la bomba. In Parlamento, stavolta, e vedrai che
farà più rumore di quella che regalai a Papadopulos otto anni fa. Non raccontarlo
a nessuno, Alekos. Al contrario, una cosa simile dev'essere pubblicizzata. Poi mi
raccontasti delle minacce telefoniche e delle due automobili che, non avevi più
dubbi, ti perseguitavano di notte. Il supplizio di star sempre a scrutare nello
specchietto retrovisivo, cercavi una macchina che a volte c'è e a volte non c'è, a
volte è rossa e a volte è chiara quasi bianca, sicché a momenti ti chiedi se hai le
traveggole, a momenti ti dici che non le hai per niente, e ora ti senti un cinghiale
infuriato, ora una mosca caduta nella tela del ragno. Tutte le sere, perdio, tutte le


sere quando vado a Glyfada. Sai, la Primavera si vede anche al buio. Quel
maledetto verde fosforescente. Alekos, è proprio necessario che ogni sera tu vada
a Glyfada? Meglio che in via Kolokotroni. Ci ho trovato uno che forzava la
serratura in camera, ricordi? E chi ti scorta, la sera, quando vai a Glyfada?.
Nessuno, chi dovrebbe scortarmi? Non sono mica Sua Eccellenza Papandreu, io,
non ho mica le sue guardie del corpo!Alekos, chi credi che sia, stavolta?..Chi vuoi
che sia? Qualcuno che mi vuol bene. Alekos, vengo da te. Qui ho fatto quel che
dovevo e non me la sento di aspettare il 5 maggio. No, ci vediamo il 5 maggio. Ma
perché ce l'hai col 5 maggio?! perché è fissato, no? E sicuro. Vedrai che il 5
maggio staremo insieme. Ma ti sento così depresso...
Eh! Cosa non darei per tornare indietro, nella mia cella di Boiati..
Quel filo di voce. La rassegnazione che inzuppava quel filo di voce. perché questo
accadde mercoledì 28 aprile: il dissolversi della tua resistenza, lo sfasciarsi della
tua indistruttibilità, il sopraggiungere della rassegnazione. Non durò molto lo
sforzo finale. A un certo punto la stanchezza di vivere torna, anima e corpo
s'allentano nella rassegnazione che guarda all'indietro: guizzi involontari gli
slanci, gli urli, le super domande che non rivolgerai. Lo dice anche la poesia che
scrivesti quella notte rientrando a via Kolokotroni. Pensieri di un uomo che
dall'esilio rimpiange il passato, il passato essendo l'unico appiglio al quale
aggrapparsi per risalire ai tempi in cui la solitudine era una cella senza spazio e
senza luce, un desiderio pazzo di parlare a qualcuno, per il futuro era una
speranza.
Eccola, su quattro foglietti del tuo block notes. Che calligrafia convulsa, alterata.
Di verso in verso diventa più convulsa, più alterata, quasi che tenere la penna in
mano ti costasse una fatica terribile. Come andavano girando nel passato / i
poeti / e come declamavano le loro verità / verità vestite di belle parole / dai
racconti battezzate / così andavo girando anch'io / in luoghi sconosciuti / ma
belli al pari dei nostri / e volevo credere che / non voltavo le spalle al mondo /
Non viaggio io / parlo a me stesso / pei boschi i monti le valli / non viaggio io /
sono le campagne che corrono / e il mio ricordo legato agli amici / che in qualche
posto / stavano aspettando di vedermi sbucòare all'improvviso / ai giorni lontani
in cui / con la sola forza dei sogni / costruivamo speranze / e il dolore / ci
accompagnava ovunque sempre / Alberi montagne vallate viaggiano / ed io /
legato a loro che soffrivano perché soffrivo / che piangevano perché piangevo /


che invocavano sbarre perché ero dietro le sbarre / solo / Sono trascorsi anni e io
/ senza dimenticare il dolore / ma senza diventare ingiusto a rievocarlo / per le
stesse strade vo camminando / strade che soltanto chi ha sofferto conosce / e la
mia cella anelo con nostalgia / se penso che in quei giorni davo qualcosa / che
tutti capivano / E quando penso a quello che so / che accade ora / ora più di
allora / senza che gli altri riescano a capirlo / neanche a intuirlo / dico: / la mia
fine verrà nel modo in cui vogliono coloro che hanno il potere..
L'avrei trovata quarantott'ore dopo sotto il tuo guanciale, insieme a un quinto
foglio su cui avevi trascritto le parole che Socrate dice prima di darsi la morte. E
giunta l 'ora di andare.
Ciascuno di noi va per la propria strada: io a morire, voi a vivere. Che cosa sia
meglio Iddio solo lo sa..
Giovedì 29 aprile, penultimo giorno. Entrasti in ufficio senza guardare in faccia
nessuno e dicesti alla segretaria che non volevi essere disturbato: dovevi fare una
telefonata. Era la telefonata ad Averoff, l'estremo tentativo per impedire il
trasferimento dell'ufficiale del Kyp. Avevi perfino chiesto il consiglio di un
avvocato su questo, e insieme eravate giunti alla medesima conclusione: inutile
raccogliere le minacce che Averoff aveva strillato lunedì pomeriggio a Gudì:
sarebbe servito soltanto ad affrettare il trasferimento. Meglio fingere di ignorar
l'episodio e scendere a un compromesso, meglio imitar la sua tattica abituale.
L'Averoff che vinceva sempre non era quello di lunedì pomeriggio, era un signore
educato, raziocinante, maestro nell'arte dell'ipocrisia: e non si batteva all'arma
bianca bensì coi veleni dell'intelligenza. Bisognava dunque fare esattamente lo
stesso. Componesti il numero del ministro della Difesa. Chiedesti del signor
ministro. Il signor ministro non si negò: Caro amico! Egregio collega! Che piacere
udirla, che onore! Il sarcasmo vibrava ben chiaro nella voce melliflua. Per non ti
scoraggiasti. Grazie, signor ministro, il signor ministro era davvero cortese, ti
auguravi di non disturbarlo.
Ma che dice, illustrissimo! Cosa può indurla a un tale sospetto?! Disturbo? Sì,
disturbo, ripetesti. Anche perché gli telefonavi per sollecitare un favore e i favori
sono sempre una noia.
Prego, caro amico! Prego! Di che si tratta? Si trattava di un ufficiale il cui destino
ti premeva, dicesti, un ufficiale del Kyp.


Infatti sua moglie era un'amica che ti aveva assai aiutato nel Sessantotto quando
eri fuggito a Cipro. A quel tempo lei lavorava all'ambasciata di Cipro. Capisco,
caro amico, capisco. Questa signora adorava la sua città, da vera ateniese non
riusciva a rinunciarvi, e per l'appunto il signor ministro aveva dato ordine di
trasferire l'ufficiale del Kyp in un villaggio ai confini con la Turchia. continui, caro
amico, continui. Qual era dunque il dilemma della signora? Lasciare Atene e
seguire il marito nel villaggio ai confini con la Turchia oppure restare ad Atene e
viver lontana dal marito? Cosa crudele, oltretutto, perché i due si amavano molto.
Chiaro, caro amico, chiaro. E in cosa posso servirla, caro amico? Mi dica.
Impallidisti.
Glielo sto dicendo, signor ministro. Le sto chiedendo di non trasferir l'ufficiale. Ed
io le rispondo che sono qui per accontentarla, caro amico, egregio collega. Metter
l'ufficiale dove lei desidera. Dove desidera che lo metta, caro amico, egregio
collega? Il gioco del gatto col topo. Lui il gatto e tu il topo. Un gioco che non
sapevi condurre. Anche con Hazizikis era quasi sempre fallito perché reggevi,
sopportavi, e d'un tratto scoppiavi. Che tu stessi per scoppiare del resto si vedeva
dal pallore del volto e dal turgore paonazzo della cicatrice allo zigomo sinistro.
Cercasti di dominarti: Desidero che resti dov'è sempre stato e dov'è, signor
ministro: nel suo ufficio del Kyp, ad Atene. Uno squittio: Illustrissimo! Chi
oserebbe negarle un servizio? I suoi desideri per me sono comandi. Atene è
impossibile, temo, però mi dica dove preferisce che egli sia trasferito e io le
obbedir.. Posasti il ricevitore sulla scrivania, chiudesti gli occhi, ti obbligasti a
riprendere fiato. Ancora uno sforzo, mioddio, un tentativo. Fa' che mi riesca.
Riprendesti il ricevitore: Forse non mi sono spiegato, signor ministro. Le stavo
chiedendo di... Insomma, non voglio che l'ufficiale sia trasferito. In nessun posto.
Non vuole, illustrissimo? Non vuole? No..E perché, di grazia, perché, se non sono
troppo indiscreto?perché, come dicevo, la moglie di questo ufficiale... E qui gli
argini si ruppero, le fragili dighe che frenavano l'oceano del tuo furore. Si ruppero
con un grido che fece tintinnare i vetri, nella stanza accanto si raggricciarono
tutti, la segretaria si fece il segno della croce. Averofakiii! Piccolo Averoooff!
Ak£sa, Averofaki, skulikaki! Ascolta, piccolo Averoff, piccolo verme! Den isse
t'afendik tis Elladas! Non sei il padrone della Grecia! E non lo diventerai! Ke den
tha ghinis! perché io, io, io te lo impedir! Dalla mia tomba te lo impedir, dalla mia
tombaaa! E allora anche Averoff, dimentico d'ogni prudenza, cedette alla rabbia


che lo aveva travolto a Gudì. E ripetendo le stesse parole, aggiungendone altre
peggiori, gridando anche lui, gridando: Eg tha s'exonthso, Panagulis! Io ti
schiaccerò, Panagulis! Eg tha se katastrepso, Panagulis! Katastrepso.
Io ti distrugger, Panagulis! Ti distruggerò! Questo lo seppi subito dopo, quando ci
parlammo di nuovo e riconoscevo la voce. Non era la tua voce, la tua bella voce
sensuale, gutturale, fonda; era una specie di pigolio rarefatto che sembrava
venire da una caverna lontana milioni e milioni di anni luce. Quasi un'eco del
ricordo. Infatti ogni tanto spariva, lasciando vuoti di silenzio, e: Pronto, Alekos,
pronto! Non ti sento, mi senti?. Mi ha.... Pronto, Alekos, pronto! Distrugger...
schiaccer.... Pronto, Alekos, pronto! Non funziona la linea accidenti! No, la linea
funziona. Sono io che non funziono più.. perché, Alekos, perché? Cos'hai, Alekos,
dimmelo, ti senti male, hai la febbre? No. Sì. Sì o no? Spiegati, non spaventarmi,
mi spaventi! E sono quaggiù, non posso far nulla per te, pronto!. Sì, mi sento
male. Molto, molto male... Dove? perché? perché sono molto, molto, molto triste.
Molto, molto, molto preoccupato.. Alekos, basta con questa storia, basta! Ti stai
uccidendo, ti stanno uccidendo! Io vengo ad Atene, vengo subito,
immediatamente. Voglio vederti, voglio portarti via, voglio.... Vieni se vuoi, ma
non puoi fare nulla, agàpi.
Nulla. Ci vedremo il primo maggio, mi vedrai il primo maggio.
Ciao. E togliesti la comunicazione lasciandomi sbalordita.
Primo maggio. Avevo capito bene? Avevi detto primo maggio? Sì, primo maggio:
non cinque maggio. Ora non ricordavi neanche la data del nostro appuntamento,
mioddio. O forse avevi cambiato idea e volevi che arrivassi davvero il primo
maggio cioè dopodomani? Bisognava richiamarti. No, macché richiamarti.
Servivano soltanto a farmi soffrire queste telefonate, e non volevo riudirla quella
voce che non era la tua voce.
Sarei venuta davvero il primo maggio, ecco. Sarei partita domani, ecco. E lo feci.
Mi imbarcai proprio nello stesso momento in cui stavi morendo. Le sei e
cinquantotto di venerdì 30 aprile. Ad Atene, l'una e cinquantotto di sabato primo
maggio.
Infatti alle sette in punto ero a bordo, guardavo l'orologio sorpresa dalla
puntualità d'un volo che di solito aveva ritardo.
durante il viaggio ero inquieta, oppressa da un nervosismo che non riuscivo a
definire. Il nervosismo crebbe quando proiettarono un film che odorava di


malaugurio: la storia di un poeta matto e coraggioso, incompreso da tutti e
sempre immerso in avventure impossibili, sempre braccato dalla morte che
coperta da un bianco sudario lo adesca impugnando la falce. Ogni poco la falce
riempiva lo schermo e il poeta doveva scappare. Per scappare si rifugiava in
nuove imprese, nuove pazzie da cui usciva miracolosamente indenne. Per alla fine
si stancava di scappare, di negarsi a lei che lo voleva con tanta insistenza, e le
andava incontro, e si faceva uccidere. E lui e la morte si allontanavano insieme
cantando, danzando su un gran prato verde come il verde della tua Primavera.
La contemporaneità delle azioni è solo in apparenza un mistero coagulato di
episodi accidentali ed autonomi. Di fatto è un tessuto composto di episodi
necessari l'uno all'altro e rigorosamente legati fra loro. E una macchina ben
lubrificata.
Me ne sarei persuasa a ricostruire gli avvenimenti che composero l'ultimo giorno
della tua vita, quando tutto coincise e contribuì a lubrificare la macchina,
intrecciare le vie parallele delle tue azioni e delle azioni di Steffas, affinché il
processo ormai irreversibile della tua morte si sviluppasse senza errori ne ritardi
ne intoppi e si concludesse in un punto preciso, cioè già collocato nello spazio e
nel tempo. Il buco nero sotto il garage con la scritta Texaco, l'una e cinquantotto
di sabato primo maggio millenovecentosettantasei.
L'ultimo giorno della tua vita si levò dentro un cielo grigio, di piombo. durante la
settimana c'era stato un sole d'estate e nemmeno una nuvola aveva offuscato
l'azzurro. Ma la sera avanti, di colpo, l'orizzonte s'era illividito d'una luce ghiaccia
e s'era alzato un gran vento, il mare s'era gonfiato sbatacchiando sul litorale, e la
tempesta s'era abbattuta da Atene a Corinto.
Per tutta la notte, come in una rissa di dei imbestialiti, i fulmini avevano
squarciato l'aria, la pioggia aveva allagato le strade, e soltanto all'alba la quiete
era scesa con quel cielo grigio, di piombo, messaggero di sciagure. Ti svegliasti di
buon'ora.
Stranamente avevi fatto un buon sonno e, quando tua madre ti portò il caffè, eri
già in piedi a guardare assorto il giardino, i danni causati alle piante. La burrasca
aveva decapitato le rose e mutilato gli alberi, arance e limoni giacevano su un
tappeto di rami e di foglie strappate, era caduto anche il mazzo di agli legato a
una scaglia della palma per cacciare la malasorte.


Cadendo s'era disfatto spargendo i bulbi sul viottolo e sulle zolle melmose, alcuni
bulbi s'erano aperti: gli spicchi sembravano avanzi d'una collana schiacciata. I
tuoi agli!. esclamasti.
Lei si affacciò, vide, grugnì d'orrore: non era mai successo che il mazzo cadesse,
anche quando t'avevano condannato a morte era rimasto appeso. Allarmata posò
il vassoio col caffè, corse fuori a raccogliere aglio per aglio, spicchio per spicchio,
poi rientrò in casa, preparò un altro mazzo, più grosso, lo strinse forte con lo
spago, andò a legarlo di nuovo alla scaglia della palma. Lo legò molto bene ma
aveva appena voltato le spalle che il nodo si sciolse e il mazzo cadde una seconda
volta spargendo altri bulbi, altri spicchi: quasi che il diavolo si divertisse a
insister segni di cattivo augurio. Affacciato alla finestra, tu la guardavi attento, e
un sorriso inspiegabile ti increspava le labbra. Non ci riuscirai mai, nemmeno se
lo inchiodi dicesti mentre lei tornava a raccogliere i bulbi e legarli in un mazzo,
caparbia. La tua voce era limpida, quella mattina, la bella voce che amavo, e
l'altissima fronte era priva di rughe.
Sembravi riposato, fresco. Una misteriosa serenità, d'improvviso, aveva preso il
posto della disperazione in cui t'eri disfatto fino a poche ore prima.
Ti lavasti e ti vestisti bene, con cura, quasi che tu andassi a una festa. Scegliesti
buona biancheria, la camicia più bella, e il completo che ti piaceva di più: giacca
e pantaloni di gabardine nocciola. Con attenzione meticolosa ti facesti la barba, ti
spuntasti i baffi, ti riempisti le tasche degli oggetti che portavi sempre addosso:
pipa, sigarini, tabacco, penne, agende, block notes, forbicine, ritagli di giornali.
Nel taschino interno nascondesti un documento su Averoff che esitavi a
fotocopiare. Lo avevi detto anche a uno dei tuoi scudieri: E troppo importante.
Fotocopiarlo è rischioso. Meglio che lo porti con me. Ti muovevi senza fretta,
assorto, con la calma di chi ha cessato di misurar l'esistenza sulle lancette
dell'orologio. Dopo che fosti pronto, ti mettesti a girare su e giù per la casa come
se ti mancasse la voglia di uscire o tu cercassi qualcosa.
Un rimpianto, un ricordo? Trascinandosi sulle ciabatte e fissando forcine nei
capelli arruffati, tua madre ti veniva dietro sorpresa: Ti teles? Che vuoi? Tipote,
nulla. Pensavo. Manca un mese e due giorni al mio compleanno. Trentasett'anni,
il 2 luglio. Sono vecchio.. Infine uscisti gettando un'occhiata al mazzo di agli che
ora pendeva saldo dalla scaglia della palma.


Giunto al cancello per ti fermasti, tornasti sui tuoi passi e con un gesto secco lo
strappasti via, lo scagliasti per terra: Non bisogna essere superstiziosi! Lei
borbottava ancora, raccapricciata, indignata, quando sedesti al volante della
Primavera e partisti imboccando via Vouliagmeni: il viale percorso migliaia di
volte e di cui conoscevi ogni metro, ogni svolta, ogni buca. Ti girasti dinanzi al
garage con la scritta Texaco? Con me ti giravi sempre brontolando che l'assenza
di un muretto rendeva lo scivolo pericoloso, una botola per rompersi il capo.
Indicavi il cartello sopra lo scivolo, Kalon Taxidi, Buon viaggio, e: Buon viaggio
con la testa rotta! Alle nove fosti in via Kolokotroni e parcheggiasti la Primavera
proprio dinanzi al negozio di macchine tessili, quello accanto al tuo portone, con
la parete e i vetri in comune col corridoio che conduceva all'ascensore. Il negozio
era aperto, dentro c'era già un cliente: un giovanotto dalla faccia rotonda,
deturpata di nèi. Era il medesimo che nel luglio del Settantacinque era venuto a
Firenze col nazista greco per restarvi una settimana: per l'appunto la settimana in
cui avevi lasciato Atene dicendo che andavi a Firenze e invece eri andato a Cipro.
Il medesimo che a Firenze s'era tanto vantato delle sue imprese di kamikaze, delle
complicate manovre di cui era capace con la sua Peugeot: colpo di testa, colpo di
coda e l'altra automobile schizza via come un proiettile. Il medesimo che durante
la Giunta aveva lavorato nell'atelier di Despina Papadopulos, e molto viaggiato nei
paesi in cui c'era da pedinare gli oppositori in esilio ma soprattutto in Canada
dove aveva partecipato a gare su circuito aperto, le terribili gare alle quali si
partecipa per distruggere le altre automobili con manovre di testacoda, e a
vincere è colui che ha la mente più fredda, l'occhio più svelto.
Michele Steffas, insomma. Attualmente socialista papandreista, impiegato presso
una ditta di abbigliamento, la Heim Fashion, e proprietario di una Peugeot 504
bianco argento. E vedi caso: nel negozio di macchine tessili era venuto altre volte,
in quei giorni.
Entrasti in ufficio e qui ti aspettava l'avocato. Gli raccontasti il litigio col drago e:
Come vedi ho seguito il tuo consiglio, ma scendere a patti è impossibile. Non ho
altra scelta ormai che andare fino in fondo a questa storia, costi quello che costi.
Lunedì rivolgo la super domanda a Karamanlis. Otterrai ben poco. Lo so.
Karamanlis non può permettersi di liquidarlo e non c'è nessuno con me.
Nessuno. E allora? Allora nulla. Vi sono casi in cui per vincere bisogna perdere
anche il respiro.


E dopo la super domanda? Andrò in Italia per qualche giorno, di lì a Cipro.
L'avocato ti osservava con perplessità: eri così pacato quella mattina, così sicuro.
Perfino riferendo gli insulti scambiati con Averoff. La tua voce non tradiva alcuna
passione. Ma cosa intendevi dire con la frase vi sono casi in cui per vincere
bisogna perdere anche il respiro? Colto da un sospetto, l'avvocato portò il
discorso sulle telefonate minatorie, le persecuzioni automobilistiche,
l'inopportunità di guidare ogni notte da solo per strade deserte, recarti a Glyfada.
Quanto siete monotoni tutti gli rispondesti cosa piacerebbe, anche a te, che
viaggiassi con la guardia del corpo, che mi rendessi ridicolo? Poi sollevasti il
ricevitore del telefono che squillava e parlasti con qualcuno, le labbra piegate in
una smorfia annoiata. Che seccatura. Una certa Sugiulzoglu ti invitava a cena
per conto del cognato Victor Nolis, un greco di Melbourne. L'avevi conosciuto a
Roma nel Sessantotto, questo Nolis, e qualche mese prima s'era rifatto vivo
attraverso la Sugiulzoglu, sorella di sua moglie. Ora si trovava ad Atene e voleva
portarti a mangiare con le due donne. Proprio oggi! L'ultima cosa che vorrei è
passar la sera con tre barbagianni.
Vieni a cena con me. Vengo a prenderti con l'automobile e dopo a Glyfada ti ci
accompagno io, così per una volta non giri da solo di notte suggerì l'avvocato
riportando il discorso dove lo aveva interrotto la telefonata della Sugiulzoglu. No,
grazie.
Se non vado con loro devo cenare col direttore dell'Olimpia Express, è lo stesso.
Ci vediamo domani. D'accordo, ci vediamo domani, ma te lo ripeto: non girare
solo di notte, e fino a Glyfada vacci il meno possibile. Non mi convince questa
storia dei due che ti seguono appena fa buio. Quel che deve essere è, quel che
dovrà essere sarà. Vi lasciaste con queste parole e più tardi richiamasti Nolis: che
venisse da te verso le cinque del pomeriggio e poi, se ti fosse riuscito annullare
l'appuntamento col direttore dell'Olimpia Express, avresti cenato con lui, sua
moglie, e sua cognata. Intanto Michele Steffas aveva lasciato il negozio delle
macchine tessili e s'era recato con un taxi alla Heim Fashion. Usava il taxi perché
da un mese non teneva la Peugeot ad Atene, avrebbe detto. La teneva a Corinto,
dinanzi alla casa dei suoi genitori, perché la targa era ancora una targa francese
e andava immatricolata. Un mese addietro, ad Atene, per via della targa aveva
rischiato una pesantissima multa.


Ti allontanasti dall'ufficio verso le due e mezzo, rientrasti alle tre e mezzo per
annullar l'impegno col direttore dell'Olimpia Express, ed è a questo punto che
scatta la contemporaneità delle tue azioni con le azioni di Steffas. Alle cinque
venne Nolis e gli dicesti che sì, lo avresti visto a cena, ma eri tu ad invitarlo con
sua moglie e sua cognata in un ristorante di Glyfada. Alla stessa ora, le cinque,
Steffas abbass la saracinesca della Heim Fashion e fu pronto a recitar la sua
parte. Alle sei ti congedasti da Nolis fissando di prelevarlo prima di cena in via
Alkionis 8 dove alloggiava e alla stessa ora, le sei, Steffas and da
BasilioJorgopulos: suo amico e suo alibi. Alle nove la Sugiulzoglu ti telefonò che
aveva rotto l'automobile: prima di recarti in via Alkionis potevi passare da lei in
via Androtzu 15A? Alla stessa ora, le nove, Steffas salì sul pullman diretto a
Corinto per andare a prendere la Peugeot e portarla ad Atene.
(E la targa francese da immatricolare? E il rischio di beccarsi una multa?
Jorgopulos, si sarebbe giustificato, gli aveva proposto di trascorrere il primo
maggio con due ragazze a Egina e ci gli aveva fatto dimenticare ogni cautela. Ma
non è un'isola, Egina? Non ci si va con la nave, a Egina? Che senso ha
precipitarsi da Atene a Corinto col pullman, qui prendere la Peugeot non
immatricolata, portarla ad Atene, imbarcarla su una nave, sbarcarla, imbarcarla
di nuovo, sbarcarla di nuovo, riportarla di nuovo a Corinto il giorno dopo?
Nessuno, ovvio. Ma chi ha detto che la Peugeot serva veramente per una gita con
le ragazze ad Egina? Potrebbe servire a ben altro, per esempio a un servigio, a un
favore che richiede mente fredda, occhio svelto, abilità nelle manovre di
testacoda, addirittura un passato di kamikaze allenato sulle piste del Canada con
le gare a circuito aperto, e una macchina solida, resistente agli urti più d'una
certa automobile molto chiara quasi bianca, che nei giorni scorsi ha dimostrato di
non essere all'altezza del compito.) Alle nove e mezzo lasciasti via Kolokotroni per
passare dalla Sugiulzoglu e raggiungere i Nolis. Alle dieci fosti in via Alkionis dai
Nolis che ti trattennero il tempo di bere un aperitivo, un sorso di whisky che però
non ti piacque e rimase intatto nel bicchiere. Alle dieci e un quarto uscisti con
loro. Ed erano le dieci quando il pullman con Steffas arrivò a Corinto, Steffas
scese e corse alla piazza dove teneva la Peugeot. Erano le dieci e un quarto
quando raggiunse la piazza, salì svelto sulla Peugeot. Erano le dieci e venticinque
quando imboccò l'autostrada che da Corinto porta ad Atene. Era la medesima ora
quando parcheggiasti la Primavera davanti a Tsaropulos, poi entrasti coi Nolis e


la Sugiulzoglu da Tsaropulos, il ristorante che avevi scelto per noi tre anni prima,
la sera in cui ero tornata da te e tu eri scappato dalla clinica tutto giulivo, risorto
alla vita, e mi avevi regalato la poesia, ed era incominciata la settimana di felicità.
Ordinasti la cena, eccitato. Di colpo la calma in cui ti muovevi al mattino, il
sereno equilibrio, l'assenza delle passioni, aveva ceduto il passo a un'euforia
inaspettata. Apparivi eccitato. Parlavi senza sosta, scherzavi, raccontavi ridendo
degli archivi e di Averoff e di Tsatsos, della super domanda che avresti rivolto
lunedì a Karamanlis, del terremoto che avresti causato a consegnare i fogli
proibiti da Giuvelos. Confidasti perfino di scrivere un libro, lo avevi già
incominciato, dicevi, e i problemi lo avevano interrotto per nel mese di maggio lo
avresti ripreso per finirlo entro l'anno. Ci lavorerò senza sosta in estate e in
autunno, andrò per questo in Italia, chiederò un permesso dal Parlamento. E un
libro che comincia con l'attentato a Papadopulos e si conclude coi documenti. E
la storia di una fatica, la storia di un uomo. Promettesti anche di fare il viaggio in
Australia: Sì, voglio muovermi, conoscere il mondo. Finito il libro, vengo davvero
in Australia. Sembrava che un futuro interminabile fosse davanti a te, carico di
promesse e di successi e di gioia; sembrava che il tuo atroce disegno, il tuo
calcolo inconscio, morire per vivere, fosse dimenticato. E ti brillavano gli occhi, ti
tremavano le mani, ti piaceva tutto. La compagnia dei tre vecchi, il cibo, la gente.
Le due signore ti guardavano mute, sedotte, Nolis ti ascoltava affascinato. Che
brio, quest'uomo, che calore, che fuoco! Non avevi neanche bisogno di bere per
alimentare quel fuoco: una bottiglia per quattro. A un certo punto, portando il
bicchiere alle labbra, dicesti che i tuoi rapporti col vino s'erano deteriorati: avevi
riscoperto le virtù dell'aranciata. E non me ne dispiace perché il buio è pieno di
insidie, di ombre in agguato. Bisogna avere il cervello lucido e i riflessi pronti.
Intanto Michele Steffas guidava bestemmiando per via della pioggia che tra
Corinto e Megara aveva ripreso fitta, la pioggia gli impediva di correre come
avrebbe voluto. Per correva abbastanza visto che a mezzanotte meno dieci egli era
un'altra volta a casa di Jorgopulos, il suo alibi fino all'una e trenta. (Strano
questo tornare da lui a mezzanotte, questo procurarsi testimonianze al minuto.) E
la Bmw rossa? C'era anche lei, c'era, ne avrebbe aspettato la Peugeot di Steffas
per venirti incontro. Dopo averti seguito fino al ristorante, s'era allontanata per
aspettar l'ora giusta senza dare nell'occhio e aveva commesso un errore
significativo. Era circa mezzanotte quando un cittadino atterrito si present alla


polizia per denunciare che in via Vouliagmeni una Bmw rosso scuro lo aveva
tallonato a distanza per un paio di chilometri e ad un tratto aveva puntato su di
lui, lo aveva strisciato col chiaro proposito di buttarlo fuoristrada. Lui aveva
evitato il disastro tenendo forte il volante, fermandosi appena possibile, e no: non
era stato un caso. Poteva provarlo perché, mentre se ne stava lì a riprendere fiato,
chiedersi il motivo dell'aggressione, la Bmw era riapparsa. E s'era fermata. E i
due a bordo lo avevano guardato bene, poi s'erano abbandonati a un gesto di
disappunto: neanche avessero commesso un errore di persona o si fossero dati
degli imbecilli. Ricordando che se ti avevano lasciato da Tsaropulos non potevi
esser già in via Vouliagmeni. Il cittadino atterrito aveva i baffi e una automobile
verde. Non verde mela ma nel buio quasi uguale alla tua.
Lasciasti Tsaropulos poco dopo l'una del mattino, e sulla soglia del ristorante
nacque una piccola discussione: tu volevi accompagnare a casa i tuoi ospiti e loro
insistevano per prendere un taxi. Dormivi a Glyfada e il ristorante era a Glyfada,
ripetevano tutti e tre, assurdo che tu andassi fino a via Alkionis e via Androtzu,
entrambe in quartieri lontani, per poi rientrare a Glyfada. Li costringesti
ugualmente a salire sulla Primavera, prima tappa via Alkionis, e fu in una
trasversa di via Alkionis, dopo aver salutato i Nolis, che successe una cosa
strana: un taxi ti super e ti chiuse il passaggio frenando al centro della strada.
Frenasti anche tu e scendesti dicendo: Anche i taxi ora! Voglio proprio vedere chi
è. Poi ti dirigesti verso l'autista e la Sugiulzoglu ti vide polemizzare con lui per
qualche minuto.
Ma quando tornasti indietro apparivi sollevato: No, non mi stava seguendo. E di
Glyfada, lo conosco. Rimettesti in moto e girasti in via Poseidonos. Il fatto è che
sono ormai così sospettoso con le automobili. perché? esclam la Sugiulzoglu. Non
rispondesti. Forse non la udisti neanche. Le labbra serrate, la fronte aggrottata,
guardavi nello specchietto retrovisivo. D'un tratto: Heleni, se la sente di fare una
capatina in un buzuki? Il tempo di bere un'aranciata e godersi un po di musica.
Ce n'è uno qui a due passi, nella direzione opposta.
La Sugiulzoglu non capì, si schermì. No, grazie, era tardi, alla sua età non si va
nei buzuki coi bei giovanotti. Suvvia, Heleni. No, grazie, davvero. Pazienza. E, lo
sguardo che continuava a posarsi sullo specchietto retrovisivo, accelerasti
imboccando a gran velocità via Leoforos Sigru. Giunto dinanzi alla fabbrica di
birra frenasti di colpo, ti scusasti in modo frettoloso: non eri abituato ad


abbandonare le signore sui marciapiedi di notte ma via Androtzu non era lontana
e il 15a di via Androtzu era dietro l'angolo, le dispiaceva scendere qui e
continuare a piedi? Di nuovo la Sugiulzoglu non capì. Soltanto dopo la tua morte
si sarebbe resa conto che non volevi entrare in via Androtzu, piccola e buia, e che
eri molto impaziente di restare solo. Rispose che no, non le dispiaceva per niente,
poi scese senza che tu accennassi il gesto di fare altrettanto o di aprirle lo
sportello. Una mano sul volante e l'altra sul cambio, ti tenevi pronto a scattare
via. Grazie, Heleni. Mi scusi, Heleni.
Grazie a lei, Alekos. Ma perché non va a dormire in via Kolokotroni? E qui a due
passi, e vale la pena guidare altri venti minuti fino a Glyfada? Meglio dormire
quattr'ore a Glyfada che otto a Kolokotroni. Allora arrivederci... Arrivederci. Non
aspettasti nemmeno che attraversasse la strada per raggiungere il marciapiede
opposto. Partisti immediatamente. Ed era l'una e trentacinque, al massimo l'una
e quaranta, avrebbe detto la Sugiulzoglu. Lo avrebbe detto spiegando che all'una
e quarantacinque era in casa: a percorrere i duecento metri che la separavano da
via Androtzu 15A, aprire il portone, chiamare l'ascensore, salire al terzo piano,
entrare in casa, non poteva aver impiegato meno di otto o dieci minuti. D'accordo,
per di notte e con le strade semi deserte, per andare da quel punto di Leoforos
Sigru al punto in cui ti uccisero in via Vouliagmeni bastano cinque o sei minuti.
E l'orologio della tua Primavera si sarebbe fermato, con l'urto, all'una e
cinquantotto: ora confermòata dai testimoni. Tra il momento in cui salutasti la
Sugiulzoglu e il momento dell'urto v'è quindi un vuoto di diciotto o ventitre
minuti, diciamo venti minuti, che nessuno ha mai saputo o voluto spiegare. Sono
i venti minuti della corrida che facesti con i tuoi assassini.
Sbucarono insieme, precisi, quasi avessero un appuntamento preciso.
Sbucòarono subito, mentre giravi in via Diakou.
Una Bmw rossa e una Peugeot grigio argento. E certo non te ne meravigliasti: che
sarebbe successo lo avevi capito in via Poseidonos quando volevi tornare indietro
e fermòarti con la scusa del buzuki, poi te n'eri convinto in via Leoforos Sigru
quando t'eri liberato della Sugiulzoglu. Del resto i testimoni che la polizia del
Potere avrebbe ignorato o zittito (salvo uno che non si piegò mai, un autista di
nome Mandis Garufalakis) l'indomani mattina dissero che dietro alla Fiat verde
mela non c'era la Peugeot e basta: c'era anche una macchina rosso ruggine o
rosso granata, forse una Jaguar e forse una Bmw. Ti trovasti fra le due come un


topo preso in trappola, ed è possibile che lì per lì tu volessi scappare. Ma subito
sbocciò l'irresistibile impulso di affrontarli, vederli in faccia, scoprire chi fossero,
batterti insomma nel medesimo modo in cui t'eri battuto a Creta e a Roma e ad
Atene e tutte le volte che avevano tentato di intimorirti o provocarti o ucciderti
con l'automobile; rifiorì la stanchezza di vivere che deriva dalla stanchezza di
perdere, quindi il bisogno di vincere almeno da morto, il calcolo inconscio
secondo cui non v'è eroe vivo che valga un eroe morto, e incominci la corrida.
Quella che a momenti inverte i ruoli e trasforma l'inseguito in inseguitore,
l'inseguitore in inseguito, a momenti li ristabilisce sicché l'inseguitore torna ad
essere inseguitore e l'inseguito torna ad essere inseguito, e quale fu l'arena di
questa corrida prima di via Vouliagmeni io non lo so ma ripercorrendo le strade
della tua agonia avrei concluso che il tragitto poteva essere stato soltanto il
tragitto di via Diakou, via Anarafseos, via Loguinu, via Musuru, via Imittu, via
Iliupoleos, cioè prima in direzione del cimitero e poi intorno al cimitero, perché se
da Leoforos Sigru non entri subito in via Vouliagmeni e imbocchi il senso vietato
devi prendere quelle strade per forza, e quelle strade conducono al cimitero, e
giunto al cimitero non puoi far altro che girarci intorno col moto circolare della
stella presa nel vortice che la succhierà dentro il buco nero. Io ti vedo, teso sul
volante, pallido, che li rincorri mentre ti rincorrono, li attacchi mentre ti
attaccano, in un succedersi pazzo di sbandate, accelerate, decelerate, urti. Gli
urti, le collisioni descritte nella perizia che i magistrati del Potere non avrebbero
accolto, le tracce di vernice d'un marrone ruggine che avrebbe potuto essere rosso
ruggine o rosso granata, e in quale istante avvertisti l'inutile impulso di
sopravvivenza, il guizzo della stella che per strapparsi al vortice si consegna al
gorgo? In quale momento pensasti di dirigerti a via Vouliagmeni per raggiunger la
casa col giardino di aranci e di limoni, unico scampo? D'un tratto eccoti sfuggire
all'orribile girotondo, sgusciare nella stessa strada da cui eri venuto, via
Anarafaseos, irrompere in via Vouliagmeni dove i testimoni che ho detto
racconteranno d'aver visto sfrecciare un'automobile verde e una automobile rossa
e una automobile bianco argento. Quattro testimoni: un tassista che si trovava
duecento metri indietro, il passeggero che aveva a bordo, un secondo tassista che
vi precedeva, un terzo che sostava a un incrocio. Lo racconteranno presentandosi
spontaneamente alla polizia, e all'inizio la polizia non gli chiederà neanche i nomi,
poi glieli chiederà e tre di loro modificheranno il racconto, dimenticheranno


l'automobile rossa. Solo Mandis Garufalakis insisterà, però inascoltato o
sconsigliato cioè minacciato, infatti coi giornalisti che vorranno saperne di più
parlerà sempre più malvolentieri, con la ritrosia che è figlia della paura. Sì, una
rossa e una bianca...
Bianca, no, avana... No, grigia. Ora l'una e ora l'altra, ora a destra e ora a sinistra
ti sorpassavano e ti tagliavano la strada, si mettevano davanti a te che dovevi
scansarle entrambe per sorpassarle a tua volta, e c'eri appena riuscito che
ripetevano la manovra. Con metodo, con precisione, con sincronia perfetta.
Ma io non so nulla, signori, io non ho visto nulla, per carità.
Io non voglio storie, ho moglie e bambini, ho famiglia, non tiratemi in ballo. Se
non mi tirate in ballo, se giurate di non fare il mio nome, vi dico che l'automobile
verde si trovava sempre imprigionata tra l'automobile rossa e l'automobile chiara,
a bordo dell'automobile rossa c'erano due persone, e a un certo punto
l'automobile rossa fece il peggio: tamponò l'automobile verde proprio sulla targa.
Allora l'automobile verde sbandò, si riprese per miracolo, continuò a correre in
direzione di Glyfada. Ma io non so nulla, signori, non ho visto nulla, non ho
parlato, per carità. Andavano molto forte tutte e tre. Centodieci, centoventi,
centotrenta, e con questa velocità arrivasti alla chiesa di San Demetrio: superata
la quale le case finiscono e la strada monta con una lieve gobba. Dopo la gobba,
via Vouliagmeni si allarga in un doppio vialone diviso da uno spartitraffico. A
cinquanta metri, sulla destra, c'è il garage con la scritta Texaco.
Fu all'altezza di San Demetrio che l'automobile rossa ti tamponò sulla targa. E fu
dopo la gobba che ti sorpassò un'ultima volta per allontanarsi, perdersi nel buio.
Ma mentre ti sorpassavano per allontanarsi e perdersi nel buio, i due a bordo
dell'automobile rossa usarono o no la rivoltella a gas? Una rivoltella identica a
quella che il giudice istruttore archiviò con tanta disinvoltura in agosto. Numero
di matricola 159789, made in West Germany; canna corta, impugnatura tozza. Il
caricatore contiene cinque proiettili a cilindro, cinque cartucce metalliche con un
piccolo foro da cui esce un gas che evapora quasi senza lasciare tracce. (E, se le
tracce c'erano, all'obitorio non si curarono di cercarle. Non fecero nessuna analisi
che servisse a trovare residui di allucinogeni, di sostanze volatili narcotizzanti.)
Dunque e di nuovo: la usarono o no questa rivoltella a gas? Le circostanze lo
permettevano, visto che guidavi col vetro sinistro quasi completamente
abbassato; del resto la Primavera fu trovata col vetro di sinistra quasi


completamente abbassato. E, se non la usarono, se quel giudice istruttore non
sbagli ad archiviare con tanta disinvoltura la rivoltella col numero di matricola
159789, cos'altro ti intorpidì avvolgendoti in un sudario di stupore e di sonno?
Cos'altro ti annebbi la vista e la volontà? Sbandavi e slittavi quando la Peugeot ti
raggiunse, stavi già perdendo il controllo della guida, sicché Steffas non durò
fatica a completare il lavoro. Prima ti investì col parafango anteriore di destra sul
parafango posteriore di sinistra, poi si incollò alla fiancata di sinistra e ti trascinò
per alcuni metri, poi si staccò con una sterzata secca e ti inflisse la speronata
mortale: un colpo di coda sul parafango anteriore sinistro. E tu schizzasti via
come un proiettile mentre, con una manovra di gran kamikaze, da killer
addestrato sui circuiti aperti del Canadà, lui virava quasi ad angolo retto per
inserirsi nel raccordo dello spartitraffico che divide via Vouliagmeni. Schizzasti via
in trasversale, montasti sull'ampio marciapiede, sullo spiazzato adiacente al
garage con la scritta Texaco, evitasti di qualche metro il palo di un lampione e,
attraverso il sudario di stupore, di sonno, tentasti invano di rallentare la corsa
frenando. La tua Primavera era ormai decollata. Alta e decisa volava inesorabile
verso lo scivolo che scende nell'autorimessa, la botola col cartello Buon Viaggio,
Kalon Taxidi, e niente avrebbe potuto fermarla. Forse, se il volo fosse durato due
metri di più, avrebbe potuto saltare il vuoto dello scivolo e atterrare di nuovo nel
mondo dei vivi: avresti potuto salvarti. Ma ciò non rientrava nei piani degli dei,
del tuo destino già scritto, e presto lei perse quota, abbassò il muso puntando sul
muro che un attimo avanti non si vedeva e all'improviso si vedeva, ti cadeva
addosso con (rapidità folle, cessava d'essere un muro per diventare uno schianto,
il boato di una bomba che esplode, la fine. E mentre tu alzavi le braccia in segno
di resa, di vittoria e di resa, mentre le palme delle tue mani toccavano l'ingresso
del nulla, tutto accadde come doveva accadere, come tu avevi previsto che
accadesse nei tuoi calcoli inconsci, nelle tue veggenze, nelle ultime righe del libro
interrotto a pagina ventitre. Mi dispiace solo di non avercela fatta. E la mia voce
che risponde così. Che voce strana, remota. Da dove viene? Da un altro mondo?
Anche l'ufficiale educato sembra strano, remoto. Da dove viene? Da un altro
mondo anche lui? Ora si allontana in silenzio, ed è appena uscito che le uniformi
ricominciano ad arrabbiarsi. Di più, sempre di più. Mi picchiano sulle piante dei
piedi, sugli occhi. Io ripeto: Mi dispiace solo di non avercela fatta. Sì, mi dispiace
solo di non avercela fatta. Poi un colpo tremendo. Da cosa? Da chi? Sento una


forza assurda premermi lo stomaco, e il collo e il petto e il cuore rientrarmi dentro
quasi si rompessero insieme, scoppiando, e non distinguo più nulla. Chiudo gli
occhi e...
Il primo ad accorrere fu l'autista del taxi col passeggero a bordo, e lì per lì non
vide che una fittissima nube. Al momento dello schianto s'era alzato un gran
polverone, e copriva tutto col buio. L'autista avanzò brancolando nella nube, nel
buio, e quando fu sull'orlo della botola si coprì il volto, incredulo e inorridito:
sembrava impossibile che un'automobile tanto grossa si fosse infilata dentro uno
spazio tanto piccolo. Ma proprio come una stella che muore e che per farsi
inghiottire dal suo buco nero si stringe e si addensa fino a diventare un pugno,
un limone, un sassolino, così la tua Primavera s'era compressa e contratta e
rimpicciolita fino a ridursi un breve ammasso di ferri contorti, lamiere divelte,
vetri sbriciolati. In mezzo a quelli giacevi, ancora vivo e apparentemente intatto.
Sollevasti le palpebre, muovesti le labbra: Ime... sono... Mou echun... mi hanno...
Zitto, zitto supplicò l'autista senza riconoscerti. Isan... Erano... Zitto, zitto, ti
tiriamo fuori. E con l'aiuto del passeggero ti estrasse dal groviglio, ti trascinò su
per lo scivolo, ti depose sul marciapiede. Qui ti riconobbe e s'accorse che non eri
intatto: dalle ferite il sangue sgorgava irrefrenabile, inzuppando l'asfalto.
All'ospedale, presto, all'ospedale! balbettò. All'ospedale o all'obitorio? rispose il
passeggero. E senza convinzione ti sollevarono per le braccia che erano
disarticolate, per le gambe che erano stroncate, ti adagiarono sul sedile posteriore
del taxi. Due pupille ormai cieche. Due labbra che tentavano invano di muoversi
per dire qualcosa. L'ospedale era molto distante, comunque non serviva più. A
mezza strada muovesti un'ultima volta le labbra e invocasti chiaro: Oh Thes! Thes
mu! Oh, Dio! Dio mio! Poi tirasti un respiro lungo, profondo, e il tuo cuore
scoppiò.
CAPITOLO III
Arrivai diciassette ore dopo. Dinanzi all'obitorio sostava una gran folla muta. Mi
spinsero in uno stanzone fiocamente illuminato da una lampadina che ciondolava
da un filo, il deposito con le celle frigorifere, e subito il lampo di un flash mi
accecò, un ordine secco percosse il silenzio: Via i fotografi! Via tutti! Sbarrate le
finestre! Poi qualcuno dischiuse uno sportello, gettò un'occhiata all'interno, lo
richiuse e grugnì: Ne, afts. Sì, questo. Era l'ultimo sportello in basso a sinistra,


accanto ce n'erano altri due e sopra altri tre. Lucidi, lisci, di metallo. Sembravano
sportelli di una cassaforte. Etìmi, pronta? chiese una voce. Annuii e lo sportello si
spalancò esalando una ventata di ghiaccio. Dentro si scorgeva un fagotto bianco,
posato su una lastra anch'essa di metallo. Siguri, sicura? chiese la stessa voce.
Annuii di nuovo e la lastra scivolò verso di me, divenne un lenzuolo macchiato di
sangue che avvolgeva un corpo. Il tuo corpo. Si distingueva bene la sagoma della
testa, delle mani incrociate sul petto, dei piedi. Sollevarono il lenzuolo e ti vidi.
Correvi. Attraversavi la spiaggia e correvi a larghe falcate di puledro felice, i
pantaloni aderivano ai tuoi fianchi robusti, la maglietta si tendeva sulle tue spalle
forti, e i capelli fluttuavano lievi in nere ondate di seta. La notte avanti c'eravamo
amati per la prima volta in un letto, sposando le nostre due solitudini, e nel
pomeriggio eravamo andati sul mare dove l'estate bruciava una gloria di sole, di
azzurro.
Inondato di sole, di azzurro, strillavi felice: I zoì, i zoì! La vita, la vita! Mi
inginocchiai a guardarti, incredula. Dall'inguine al collo ti avevano aperto per
rubarti il cuore, i polmoni, le viscere, poi ricucito con nodi neri che ti deturpavano
come scarafaggi aggrappati alla pelle, in fila per divorarti. Un taglio
raccapricciante slabbrava il braccio destro dal gomito al polso, un turgore
mostruoso deformava la coscia maciullata dal femore infranto. Il volto invece era
illeso, solo un'ombra cerulea lo impallidiva alla tempia. Ti chiamai con timidezza,
ti toccai con esitazione. Irrigidito nell'immobilità altera e sdegnosa dei morti,
respingevi con superbia ogni parola e ogni gesto d'amore: bisognava vincere la
paura di offenderti per accarezzare la gelida fronte, le gelide guance, gli ispidi
baffi coperti di brina. La vinsi, per scaldarti un po. Ma era lo stesso che voler
scaldare una statua di marmo, di te restava soltanto una statua di marmo con le
forme i lineamenti e il ricordo di ci che eri stato fino a diciassette ore prima, e un
furore impotente mi trafisse, una certezza che aveva il sapore dell'odio: non ti
avevano ucciso per caso, non ti avevano ucciso per sbaglio, ti avevano ucciso
perché tu non disturbassi più. Mi alzai. Qualcuno ti ricoprì con il lenzuolo e dette
una pedata alla lastra che frusciando scivolò di nuovo nel buio. Lo sportello si
chiuse di nuovo su te, con un'altra ventata di ghiaccio, poi un tonfo.
Fuori era notte. Strisciandomi addosso bavate di curiosità, la gente diceva: Non
piange! In via Kolokotroni c'era la tua poesia: La fine verrà nel modo in cui
vogliono coloro che hanno il potere. C'erano le parole di Socrate: E giunta l'ora di


andare. Ciascuno di noi va per la propria strada: io a morire, voi a vivere. Che
cosa sia meglio Iddio solo lo sa. C'era il dolore che finalmente esplode in un urlo
di bestia ferita. C'era la mia fatica di vivere e la mia promessa da mantenere. Lo
scriverai tu per me, promettilo! Prometto. C'era l'attesa del 5 maggio, il giorno
fissato pei funerali. Ci vediamo il cinque maggio, staremo insieme il cinque
maggio. C'era l'agonia del mattino in cui sarei tornata all'obitorio per vestirti,
scambiare una seconda volta gli anelli, affrontare la piovra che ruggisce zi, zi, zi.
E intanto la Montagna rimaneva al suo posto, incrollabile, intanto gli avvoltoi si
preparavano a banchettare sul tuo cadavere sventolando mutande con la parola
Popolo, la parola Libertà, salutiamo il nobile compagno, inchiniamoci al nobile
avversario. E a Corinto Michele Steffas stava recandosi al suo bar preferito per
incontrare gli amici dinanzi a un buon caffè turco e un piatto di pasticcini.
Non era stato facile, dopo la speronata mortale, virare e introdursi nel raccordo
dello spartitraffico ad aiuola per immettersi nell'altra carreggiata di via
Vouliagmeni, da qui fuggire in direzione opposta cioè verso il centro della città.
Non era stato facile perché il raccordo, assai stretto, serviva alle automobili che
venendo da Glyfada volevano invertire il senso di marcia per tornare indietro
lungo la carreggiata del garage con la scritta Texaco. Alle automobili che
procedevano da questa parte, dunque, il raccordo si presentava come una curva
alla rovescia dentro la quale ci si poteva inserire solo contromano, scavalcando la
punta a gomito dell'aiuola. Scavalcandola oppure aggirandola lentamente in
quanto, a imboccarla con gran velocità, uno avrebbe certo rischiato di
capovolgersi. Eppure, e sebbene andasse a centotrenta all'ora, la Peugeot non
s'era capovolta. Manovrando a serpentina, Michele Steffas era riuscito a
introdursi nel raccordo con la destrezza di uno sciatore che scansa i paletti in
una gara di slalom, la precisione di un acrobata che compiuta la capriola
riagguanta l'asta del trapezio per ricominciare daccapo, e sempre a quella velocità
era riuscito a infilarsi tra i due pilastri che alla fine del raccordo strozzavano il
passaggio, poi a virare una seconda volta per prendere via Olga. Slalom doppio,
insomma, capriola doppia.
Roba da circo. Oppure da mercenario uso a simili imprese e sorretto da un
sangue freddo fuori del comune? Lo stesso sangue freddo che egli avrebbe
dimostrato nei giorni e nei mesi seguenti, con la polizia, con la stampa, con tutti.
Attraversati tre incroci, in via Olga, era sceso a controllare i danni subiti dalla


Peugeot, poi aveva raggiunto a piedi via Vouliagmeni e in cima alla salita s'era
fermato a dare un'occhiata, rendersi conto di quel che stava succedendo.
Succedeva quel che doveva succedere, nel gran polverone si scorgevano due che
trascinavano un corpo inanimato e un terzo che gridava: Muore, è morto, muore!
Si scorgeva anche un taxi e finestre che si accendevano, gente che si affacciava al
balcone e chiedeva chi morisse, chi fosse morto. Ci non lo aveva affatto
scomposto e trascorsi due o tre minuti era tornato sui suoi passi, s'era rimesso
alla guida della Peugeot. S'era comportata proprio bene, la sua Peugeot: i danni
subiti non erano gravi, appena qualche ammaccatura al parafango anteriore di
destra e qualche graffio lungo la fiancata. Niente che impedisse di rientrare a
Corinto. (E il viaggio a Egina? E Jorgopulos che lo aspettava al mattino con le due
ragazze? Tutto dimenticato, tutto buttato via?) Alle tre e mezzo del mattino,
Steffas era giunto di nuovo a Corinto. Aveva parcheggiato nel solito posto e poi se
n'era andato a letto, addormentandosi subito. S'era svegliato all'una del
pomeriggio, aveva pranzato, fatto un altro sonnellino, e ora stava recandosi al suo
bar preferito per incontrare gli amici dinanzi a un buon caffè turco e un piatto di
pasticcini. Bisognava farsi vedere, fornire la prova della sua presenza in città.
Giunse al bar verso le sette e sedette a un tavolino dove c'erano già alcuni amici:
il figlio del sindaco, un altro che si chiamava Dimitri Nikolau e, per l'appunto,
Cristos Grispos e Notis Panaiotis, i due studenti che lo avevano ospitato a Firenze
insieme al nazista Takis. Ciao, guarda chi c'è, siete qui per le vacanze di Pasqua.
Sì e tu, Michele, perché te ne stavi nascosto. Macché nascosto, sono arrivato ieri
da Atene con l'autobus, sono qui da ieri. Chiacchierarono anche sul tempo che
s'era rimesso sicché potevano andare al mare, domani, e poi arrivò il fratello di
Grispos: Ehi, voi, avete sentito la radio? No, perché? Hanno ammazzato
Panagulis. Panagulis? Ammazzato?. Ragazzi, hanno ammazzato Panagulis!
Steffas, invece, zitto. Chi l'ha ammazzato, chi? Non si sa. Gli sono andati addosso
e l'hanno scaraventato con l'automobile fuori strada. In due, pare: una Mercedes
bianca e una Jaguar rossa.
perché pare? perché c'è chi dice che la Jaguar non era una Jaguar e che la
Mercedes non era una Mercedes. In ogni caso è finito dentro un garage di via
Vouliagmeni. Morto secco. Sul colpo. O quasi. Il fegato gli si è rotto in diciannove
pezzi, il polmone destro è diventato uno straccio, e il cuore gli è scoppiato come
una bomba. Bang! Steffas continuò a stare zitto, quieto, come se la notizia non lo


interessasse. Due mesi dopo Grispos e Panaiotis m'avrebbero detto di non aver
visto alcuna reazione sul suo volto o nei suoi gesti. Appariva del tutto indifferente,
ecco, normale, semmai un po annoiato. Sbadigliava. Hanno arrestato nessuno?
No, buio completo. Ma è stata una disgrazia o no? Macché disgrazia, l'hanno
steso secco, ti dico. E i giornali che dicono? I giornali non escono oggi. Non è il
primo maggio oggi? Giusto. Ma chi sarà stato? Boh! E con quel boh chiusero
l'argomento, ripresero a discorrere sulla gita al mare: Allora si va al mare,
domani? Certo. Si va a Lutrakis. E chi ci porta? Steffas ci porta, con la Peugeot. A
proposito, Michele, dov'è la Peugeot? Steffas uscì dal suo mutismo e la voce era
quella di sempre: Qui è, dove vuoi che sia? In piazza, al parcheggio. Allora perché
sei venuto a piedi? L'hai rotta? Hai avuto un incidente? Macché incidente, è per
via della targa. Non la tocco da un mese per via della targa. Sai che multa se mi
beccano senza l'immatricolazione.. E chi ci pensa all'immatricolazione nei giorni
di festa? Di qui a Lutrakis.... No, non posso. Dai!. Ho detto che non posso. E va
bene, vi porto io, la macchina ce l'ho anch'io si offrì il figlio del sindaco. Chi
viene? Io sì disse Grispos.
Anch'io disse Nikolau. Io ho già un impegno disse Panaiotis. Tu, Michele, ci vai?
Certo disse Steffas. Allora, ragazzi, ci vediamo domattina alle dieci. Sì, alle dieci.
E così avvenne. Una gita allegra, molto piacevole, mi avrebbe raccontato Grispos.
Sia all'andata che al ritorno Steffas fu di ottimo umore, l'anima della compagnia.
Rise, scherzò, chiacchierò di automobili, di vestiti, di donne, soprattutto di donne.
Non alluse mai alla tua morte. Ne vi allusero gli altri.
Rientrò ad Atene verso le quattro del pomeriggio di domenica 2 maggio, e stando
alle sue dichiarazioni andò al cinematografo, poi a casa. Ma chi vide e cosa fece
dopo non si sa, chi lo spinse o lo consigli o lo obbligò a presentarsi alla polizia
ventiquattr'ore dopo. Soltanto un fatto è sicuro: nessuno, assolutamente
nessuno, sospettava di lui. Si cercava una Mercedes, oltretutto, non una Peugeot.
Ma la voce che non ti avessero ucciso per caso, non ti avessero ucciso per sbaglio,
che tu fossi stato ammazzato di proposito e su ordinazione, stava montando come
un fiume che gonfia, minacciosamente: bisognava bloccarla. E lunedì pomeriggio
Steffas si present alla polizia col suo avvocato, un certo Kaselakis che nel
Sessantatre aveva difeso un certo Nicos Mundis: accusato d'aver ucciso una
giornalista inglese, Anne Chapman, che stava conducendo un'inchiesta sui
legami tra la Giunta e la Cia. Anche in quel caso l'assassino s'era offerto su un


piatto d'argento, anche in quel caso Kaselakis aveva convinto i giudici che non si
trattava di un delitto politico: infatti era riuscito a dimostrare che Nicos Mundis
aveva ucciso Anne Chapman dopo averla violentata, colto da un raptus. E
pazienza se, dopo la sentenza, costui aveva ritratto la confessione ripetendo balle,
balle, lui s'era preso la colpa perché lo avevano pagato e aveva bisogno di soldi, o
qualcosa del genere. Steffas, disse Kaselakis, si presentava come semplice
testimone e per puro amore della verità, cioè perché la si smettesse di alludere a
un delitto politico.
Era stato un banale incidente, il tipico incidente di cui la vittima ha ogni
responsabilità, per poco anche Steffas non ci aveva rimesso la pelle. Se ne andava
tranquillo per via Vouliagmeni, povero Steffas, quando una Fiat verde aveva preso
a sbandare e gli era piombata addosso sorpassandolo da destra. Infatti, povero
Steffas, aveva appena avuto il tempo di sterzare e salvarsi imboccando
contromano il raccordo dello spartitraffico. Dopo aveva udito uno schianto e,
tornando indietro, aveva intravisto un gran polverone, due uomini che
trascinavano un corpo inanimato, ma non aveva pensato davvero d'essersi
lasciato alle spalle un cadavere. Che l'altro fosse morto e che il cadavere fosse
quello di Panagulis lo aveva appreso soltanto lunedì mattina leggendo i giornali.
No, ne prima ne dopo l'incidente c'era stata un'automobile rossa, queste erano le
fantasie di chi aveva interesse a sostenere la tesi del delitto politico, qui di rosso
non c'era che lui, Michele Steffas, già simpatizzante comunista, ora socialista
papandreista, ed era mai possibile che un socialista, un compagno della sinistra,
avesse voluto ammazzare Panagulis? La polizia se ne dimostrò convinta, e invece
di arrestarlo lo mise sotto la sua protezione.
Lasciò perfino che tenesse una conferenza stampa nel corso della quale stupì per
il suo controllo, la sua sicurezza. Non esisteva domanda che riuscisse a
imbarazzarlo, o almeno a scomporlo. Non si scompose nemmeno quando
qualcuno gli ricordò che le leggi della dinamica sono universali e immutabili: se
Panagulis fosse stato l'investitore anziché l'investito, fuori strada ci sarebbe finito
lui, Steffas. Al ragionamento oppose due pupille imperturbabili, fredde, e rispose
che la pensassero pure così: dinamica o non dinamica, lui non aveva nulla da
rimproverarsi. Che ragionassero, perbacco, che usassero le meningi: se avesse
avuto qualcosa da rimproverarsi, non si sarebbe presentato alla polizia, sì o no?
Non batte ciglio nemmeno quando qualcun altro replicò che invece qualcosa da


rimproverarsi ce l'aveva visto che non s'era curato di portar soccorso al
moribondo che s'era lasciato alle spalle. perché non aveva portato soccorso?
perché il ferito era già stato messo in un taxi, non c'era alcun bisogno di me. E a
Corinto, perché era tornato a Corinto invece di seguire quel taxi o restare in città?
perché fui colto da una specie di panico e da un comprensibile desiderio di
tornare a Corinto. Semplice, no? E il giorno dopo doveva andare a Egina? Ovvio
che non avevo più voglia di andare a Egina, che non me ne importava più nulla di
Egina. E l'automobile rossa, perché si preoccupava tanto di smentire la presenza
di un'automobile rossa e senza tener conto che alcuni testimoni l'avevano vista?
perché io non l'ho vista e perché, l'ho già detto, mi irrita questa storia del delitto
politico, del delitto organizzato. Un momento: se la sua innocenza era così totale,
e se lui era un socialista, un socialista papandreista, un compagno della sinistra,
perché si infastidiva tanto a sentir dire che s'era trattato di un delitto politico, di
un delitto organizzato? perché pur di smentirlo, s'era costituito? Domanda logica,
giusta, e pericolosa. Ma anche in questo caso lui se la cavò senza scomporsi, anzi
opponendo un'espressione carica di fastidio. Io non sono qui per essere
processato da voi, e state dimenticando che non mi sono costituito: mi sono
presentato come testimone. Infatti non sono neanche in stato d'arresto. E poi: Io
so sempre quel che dico e che faccio. Perfino quando risultarono quei particolari
sospetti, il suo impiego nell'atelier di Despina Papadopulos, le sue abilità di
pilota, le sue imprese sportive nel Canada, continuò a ripetere: Vedrete che me la
caverò. Io so sempre quel che dico e che faccio.
Lo sapeva. Eccome se lo sapeva. Infatti la magistratura del Potere non tenne
alcun conto della perizia fatta dagli esperti italiani e dalla quale risultava,
inequivocabilmente, che eri stato colpito dalla Peugeot con una manovra di
testacoda, inoltre tamponato da un'altra automobile con due urti che avevano
lasciato tracce di vernice marrone ruggine o rosso scuro. Non tenne alcun conto
del passato di Steffas e del particolare che egli fosse stato nel negozio di macchine
tessili, in via Kolokotroni, anche la mattina di venerdì 30 aprile. Non tenne alcun
conto del fatto che nel luglio del Settantacinque egli si fosse recato col nazista
Takis a Firenze e ci fosse rimasto con l'aria di cercare qualcosa o qualcuno che
non si trovava.
Non tenne alcun conto della deposizione che per undici ore consecutive io resi al
giudice incaricato dell'istruttoria riferendogli ci che avevo udito da Cristos Grispos


e Notis Panaiotis, elencando le minacce e i tormenti che avevi subìto per tre anni,
i tentativi di rapirti o di ucciderti con un'automobile a Creta e a Roma e ad Atene,
le cose che mi avevi detto nelle ultime telefonate, i documenti che avevi catturato
negli ultimi giorni e il cui contenuto, conclusi, mi riservavo di rivelare in
tribunale. Non tenne conto e anzi liquid con notevole fretta la storia di un certo
Giorgio Leonardos, pregiudicato di Salonicco, secondo il quale la notte fra il 16 e
il 17 aprile, in piazza Omonia ad Atene, s'erano incontrati quattro membri del
gruppo fascista Aracni, Ragno, il medesimo di cui m'avevi parlato dopo la lettura
dei documenti e prima di sventolare la gemma delle gemme, il diamante di
Kohinoor. S'erano incontrati e avevano deciso di dare una lezione a Panagulis
perché abbassasse la cresta e chiudesse il becco, disse Leonardos, infatti doveva
essere soltanto una lezione: le cose erano andate oltre per disgrazia. Dicendolo
fornì date e nomi, dettagli precisi, e tra i nomi c'era quello di Basilio Kaselas,
medico, estremista di destra, agente della Cia a Salonicco, poi quello di Antonio
Mikalopulos, altro pregiudicato di Salonicco, già coinvolto nell'assassinio del
deputato comunista Lambrakis, nonche proprietario di una Bmw rossa. Nella sua
testimonianza al giudice istruttore, Leonardos ne disse di cose. Sottoline perfino
che qualche giorno dopo la tua morte Kaselas s'era trasferito a Londra, a quel
tempo rifugio di molti fascisti. Consegn perfino una delle rivoltelle a gas che i
picchiatori dell'Aracni usavano per stordire le loro vittime. Appunto la rivoltella
made in West Germany, numero di matricola 158789. Ma Kaselas e Mikalopulos
gridarono alla calunnia, risposero che Leonardos era un esibizionista, un pazzo,
un noto diffamatore, condannato per calunnia, e lui si impaurì. Ritirò tutto. O gli
fecero ritirare tutto? Eppure alcuni giornalisti avevano ben accertato che non era
poi tanto pazzo, non era poi tanto diffamatore: l'Aracni esisteva davvero, a Londra
Kaselas c'era andato davvero, e passando da Monaco di Baviera dove aveva
incontrato Sdrakas, l'ex ministro fuggito dalla frontiera di Ezvonis con
Kurkulakos. Altri giornalisti avevano anche accertato che Mikalopulos ce l'aveva
davvero una Bmw rossa. Ed erano andati da lui, a Salonicco, gli avevano chiesto
dove si trovasse questa Bmw rossa. E lui aveva risposto d'averla venduta. Allora
gli avevano chiesto a chi l'avesse venduta e lui aveva risposto che be', non l'aveva
proprio venduta: l'aveva regalata. Gli avevano chiesto a chi l'avesse regalata e lui
aveva risposto be', a un istituto di monache. Gli avevano chiesto a quale istituto
di monache e lui aveva risposto che non se ne ricordava: via, maledetti via! No, la


magistratura non ne tenne alcun conto, la magistratura del Potere. Neanche la
cosiddetta sinistra ne tenne alcun conto, questa ineffabile sinistra che non
ascolta mai chi la contesta o la denuncia o la critica, e per rinnovarsi sa partorire
soltanto i pistoleros alla John Wayne, i rivoluzionari del cazzo. E così, con la tesi
dell'incidente automobilistico, soltanto Steffas venne rinviato a giudizio e
condannato. In prima istanza, a tre anni con la condizionale per omicidio colposo.
In appello, a cinquemila dracme di multa per omissione di soccorso. Cinquemila
dracme che egli non durò fatica a pagare visto che nel frattempo era diventato
comproprietario del negozio della Heim Fashion, aveva fatto fortuna. Cinquemila
miserabili dracme.
E così, mentre accadevano altre cose leggiadre, mentre il giudice Giuvelos
diventava l'apostolo del coraggio e della democrazia e della libertà divulgando gli
archivi che t'aveva proibito di pubblicare, naturalmente gli archivi che non
toccavano il drago o i compari del drago, nessun accenno al memoriale da lui
inviato a Ghizikis, nessun accenno alla scheda col numero ventitre; mentre il
drago restava ministro della Difesa, indisturbato e indisturbabile, invulnerabile;
mentre il tuo partito si rifaceva una verginità espellendo Tsatsos, cioè accogliendo
post mortem la tua richiesta; mentre Papandreu adottava il tuo cadavere come si
adotta un orfanello indifeso e lo sbandierava come un cencio in comizi mentre i
tuoi amici e compagni finivano in blocco con lui in cambio d'una bella poltroncina
in Parlamento; mentre i fascisti picchiavano Fazis con furia selvaggia rompendogli
il cranio e la memoria; mentre anch'io venivo minacciata con lettere e telefonate,
prova a scrivere certe cose e vedrai, stampa il tuo libro e vedrai; mentre il popolo
accettava questo, di nuovo, subiva questo, di nuovo, cieco e sordo e zitto, di
nuovo, piegato di nuovo all'obbedienza o alla convenienza o all'impotenza; mentre
nessuno osava dire assassini tutti, a destra a sinistra al centro, lo avete
ammazzato tutti insieme, lerci assassini che vivete sugli alibi dell'Ordine e della
Legge, della Moderazione e dell'Equilibrio, della Giustizia e della Libertà; mentre
la balena del male, Moby Dick, si allontanava indenne e le acque si placavano
morbide, molli, obliose sul gorgo della tua voce affondata, il Potere vinse ancora
una volta. L'eterno Potere che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale
a se stesso, diverso solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito che sarebbe finita a
quel modo e, se mai avesti un dubbio, esso svanì nell'attimo in cui tirasti il
respiro profondo che ti succhiava dall'altra parte del tunnel: nel pozzo dove


vengono puntualmente gettati coloro che vorrebbero cambiare il mondo,
abbattere la Montagna, dare voce e dignità al gregge che bela dentro il suo fiume
di lana. I disubbidienti. I solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate
ma senza le quali la vita non avrebbe alcun senso, e battersi sapendo di perdere
sarebbe pura follia. Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta,
che viene magari quando non si spera più, e venendo lascia nell'aria un
microscopico seme da cui sboccerà un fiore, lo capì anche il gregge che bela
dentro il suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e
ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi
tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote
coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo d'ogni potere presente e
passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua
di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo.


FINE

Nessun commento:

Posta un commento