lunedì 14 maggio 2012

{1a PARTE} - *U N U O M O* - Oriana Fallaci

   
  ORIANA FALLACI


* U N  U O M O *


{1a PARTE}

Ma è così difficile definire una fatica che ci appartiene. E poi si tratta di un libro
così complesso, di un libro pieno di libri. Guarda, potrei dirti che è un romanzo
ideologico: molti fra coloro che l'hanno letto sostengono che è anzitutto un
romanzo ideologico. Ed è vero, senza dubbio è un romanzo ideologico.
Potrei dirti che è un romanzo verità: quasi tutti fra coloro che l'hanno letto lo
definiscono un romanzo verità. Ed è vero, senza dubbio è anche un romanzo
verità. Potrà dirti che è un romanzo sul Potere e l'anti Potere: alcuni lo vedono
come un romanzo sul Potere e l'anti Potere. Ed è vero, è anche un romanzo sul
Potere e l'anti Potere.
Per altri lo vedono come un romanzo classico, costruito come il romanzo inglese
dell'Ottocento; altri come un romanzo moderno costruito con gli elementi della
tragedia greca... Il fatto è che come ogni altra fatica, ogni altro lavoro, quando un
libro è concluso vive di vita propria. E diventa ci che vi vedono gli altri. Non è più
ci che l'autore voleva che fosse.
Domanda: E tu, cosa volevi che fosse?
Un libro sulla solitudine dell'individuo che rifiuta d'essere catalogato,
schematizzato incasellato dalle mode dalle ideologie, dalle società, dal Potere. Un
libro sulla tragedia del poeta che non vuol essere e non è uomo massa, strumento
di coloro che comandano, di coloro che promettono, di coloro che spaventano;
siano essi a destra o a sinistra o al centro o all'estrema destra o all'estrema
sinistra o all'estremo centro. Un libro sull'eroe che si batte da solo per la libertà e
per la verità, senza arrendersi mai, e per questo muore ucciso da tutti: dai
padroni e dai servi, dai violenti e dagli indifferenti.
Oriana Fallaci è fiorentina e risiede a New York. Firenze e New York sono le mie
due patrie dice. I suoi libri sono stati tradotti in trentun paesi. Consegnandole la
laurea ad honorem in letteratura, il rettore del Columbia College of Chicago la
definì uno degli autori più letti ed amati del mondo. Come corrispondente di
guerra Oriana Fallaci ha seguito tutti i conflitti del nostro tempo, dal Vietnam al
Medi oriente, alla guerra del Golfo.

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante,
ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi,
zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si
alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero
proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che
a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte,
aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle
strade adiacenti intasandole, sommergendole con l'implacabilità della lava che nel
suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene
era illusione. Alcuni tentavano, e si chiudevano nelle case, nei negozi, negli uffici,
ovunque sembrasse di trovare un riparo, non udire almeno il ruggito, ma
filtrando attraverso le porte, le finestre, i muri, esso gli giungeva ugualmente agli
orecchi sicché dopo un poco finivano con l'arrendersi al suo sortilegio. Col
pretesto di guardare uscivano, andavano incontro a un tentacolo e ci cadevano
dentro, diventavano anche loro un pugno chiuso, un volto distorto, una bocca
contratta. Zi, zi, zi! E la piovra cresceva, si spandeva in sussulti, a ciascun
sussulto altri mille, altri diecimila, altri centomila. Alle due del pomeriggio erano
cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque
non si contavano più. Non venivano soltanto dalla città, da Atene. Venivano
anche da lontano, dalle campagne dell'Attica e dell'Epiro, dalle isole dell'Egeo dai
villaggi del Peloponneso, della Macedonia, della Tessaglia: coi treni, coi battelli,
con gli autobus, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio
prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l'abito della
domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma.
Quel popolo che fino a ieri t'aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo,
ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi,
dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette,
da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non
siate gregge perdio, non riparatevi sotto l'ombrello delle colpe altrui, lottate,
ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo
prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di
ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti
ascoltavano, ora che eri morto. Dirigendosi verso la piovra portavano il tuo
ritratto, cartelli di minacce e di sfida, bandiere, ghirlande di alloro, corone a

forma di A, di P, di Z, A per Alekos, P per Panagulis, Z per zi, zi, zi. Quintali di
gardenie, garofani, rose.
E faceva un caldo atroce quel mercoledì 5 maggio 1976, il puzzo dei petali cotti
appestava, mi toglieva il respiro quanto la certezza che tutto ciò non sarebbe
durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto
nell'indifferenza, la rabbia nell'ubbidienza, e le acque si sarebbero placate
morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto
ancora una volta. L'eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere
dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione o un
macello che chiamano rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e
basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o
subisce o si adegua.
Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo?
Impietrita dinanzi alla bara col coperchio di cristallo che esibiva la statua di
marmo, il tuo corpo, gli occhi fissi al sorriso amaro e beffardo che ti increspava le
labbra, aspettavo il momento in cui la piovra sarebbe irrotta nella cattedrale per
rovesciarti addosso il suo amore tardivo, e un terrore mi svuotava insieme allo
strazio. I portali erano stati sprangati, puntellati con sbarre di ferro, ma colpi
irosi li scuotevano selvaggiamente e da invisibili brecce i tentacoli si stavano già
insinuando. Si avvinghiavano alle colonne delle arcate, gocciolavano dalle
balaustre del gineceo, si aggrappavano alle grate dell'iconostasi; intorno al
catafalco s'era formato un cratere che di minuto in minuto diventava più angusto:
per arginare la spinta che mi premeva ai fianchi, alla schiena, dovevo
appoggiarmi al coperchio di cristallo. Questo era molto angoscioso perché temevo
di romperlo, caderti sopra e sentire di nuovo il freddo che mi aveva morso le mani
quando all'obitorio ci eravamo scambiati gli anelli, al tuo dito quello che avevi
messo al mio dito e al mio dito quello che avevo messo al tuo dito, senza leggi ne
contratti, un giorno di gioia, ormai tre anni fa, ma non esisteva altro appiglio lì
dentro: anche il cordone che all'inizio separava dal catafalco era stato succhiato
via dalle ondate dei mitomani, dei curiosi, degli avvoltoi smaniosi di sistemarsi in
prima fila per mettersi in mostra, recitare un ruolo nella commedia. I servi del
Potere, anzitutto, i rappresentanti del perbenismo culturale e parlamentare,
giunti facilmente al cratere perché la piovra si scosta sempre quando essi
scendono dalle limousine, prego eccellenza s'accomodi. E guardali mentre se ne

stanno compunti coi loro doppiopetti grigi, le loro camicie immacolate, le loro
unghie curate, la loro vomitevole rispettabilità. Poi i bugiardi che raccontano di
opporsi al Potere, i demagoghi, i mestieranti della politica lercia cioè i leader dei
partiti con la poltroncina, giunti a gomitate non perché la piovra si rifiutasse di
lasciarli passare ma perché li voleva abbracciare. E guardali mentre esibiscono la
loro aria afflitta, si accertano di sotto le ciglia che i fotografi siano pronti a
scattare, si chinano a deporre sulla bara le loro leccate di Giuda, appannare il
cristallo con sbavature di lumaca. Poi coloro che chiamavi rivoluzionari del cazzo,
futuri seguaci dei fanatici, degli assassini che sparano revolverate in nome del
proletariato e della classe operaia aggiungendo abusi agli abusi, infamie alle
infamie, potere essi stessi. E guardali mentre alzano il pugno, gli ipocriti, con le
loro barbette di falsi sovversivi, la loro grinta borghese di burocrati a venire,
padroni a venire. Infine i preti, sintesi d'ogni potere presente e passato e futuro,
di ogni prepotenza, di ogni dittatura. E guardali mentre si pavoneggiano nelle loro
tonache oscure, coi loro simboli insensati, i loro turiboli d'incenso che annebbia
gli occhi e la mente. In mezzo ad essi il Gran Sacerdote, il patriarca della
chiesa ortodossa che ammantato di seta viola, grondante di ori e di collane, di
croci preziose, zaffiri rubini smeraldi, salmodiava Peonia imì tu esù. Eterna sia la
memoria di te, per nessuno lo udiva perché i colpi irosi ai portali si mischiavano
ora agli schianti delle vetrate rotte, ai cigolii delle serrature che non reggevano
all'urto, agli schiamazzi di chi protestava, al cupo frastuono della piazza dove il
ruggito s'era fatto boato e, incollata alle pareti della cattedrale, la piovra
reclamava impaziente che ti portassero fuori.
D'un tratto esplose un tonfo spaventoso, il portale di centro cedette e la piovra
traboccò all'interno schiumando, rotolando i suoi getti di lava. Si levarono urla di
paura, invocazioni di aiuto, e il cratere si strinse in un gorgo che mi scaraventò
sulla bara per seppellirmi con un peso assurdo, perdermi in un buio nel quale si
distingueva appena la sagoma del tuo visino pallido, delle tue braccia incrociate
sul petto, e il luccichio dell'anello. Sotto di me il catafalco oscillava, il coperchio di
cristallo scricchiolava: ancora un po e si sarebbe frantumato come temevo.
Indietro, animali, volete mangiarlo? gridò qualcuno. E poi: Al furgone, presto, al
furgone! Il peso assurdo si alleggerì, da una crepa filtrò uno spiraglio di luce, sei
volontari si tuffarono nel gorgo e sollevarono la bara per metterla in salvo,
condurla via passando da un'uscita laterale, raggiungere il furgone intrappolato

dinanzi alla scalinata. Ma la bestia era ormai incontrollabile e a scorgere quel
cadavere esposto, visibilissimo al di là del fragile schermo trasparente, impazzì.
Quasi che ruggire non le bastasse più e ora volesse mangiarti, si inarcò tutta,
piombò sui portatori che strizzati nella sua morsa non riuscivano ad andare ne
avanti ne indietro e barcollavano, sdrucciolavano, si raccomandavano: Passaggio,
per favore, passaggio! Sulle loro spalle la bara saliva, scendeva, beccheggiava
come una zattera squassata dal mare in tempesta, sbatacchiandoti, a momenti
rovesciandoti, sicché invano io cercavo spazio coi pugni, coi calci, e sconvolta
all'idea che i sei perdessero l'equilibrio, ti abbandonassero alla follia famelica,
gridavo con disperazione: Attento, Alekos, attento! S'era formata anche una
corrente che ci trascinava in senso contrario al furgone, sicché invece di
avvicinarsi esso si allontanava, si allontanava. Passarono secoli prima che la bara
vi approdasse, buttata di sghimbescio per non perdere tempo, e si potesse serrar
lo sportello, opporre una barriera agli artigli che volevano riaprirlo, questo
ingaggiando una lotta furibonda coi piedi che calpestavano, le unghie che
graffiavano; passò un'eternità prima che strisciando sulla fiancata del furgone,
centimetro dopo centimetro, riuscissi a sedermi accanto all'autista paralizzato dal
panico, dal sospetto che ci fosse soltanto il principio. perché ora bisognava
arrivare al cimitero.
Quel viaggio interminabile, con la bara buttata a sghimbescio e il tuo corpo
messo in mostra come un oggetto vetrina, barbaramente, quasi un invito
provocatorio e puttanesco: guardare ma non toccare. Quell'incubo senza fine, nel
furgone che imprigionato dalla lava non procedeva e, se conquistava un metro,
subito lo riperdeva. Avremmo impiegato tre ore a percorrere un tragitto che in
condizioni normali richiedeva dieci minuti: via Mitropoleos, via Othonos, via
Amalia, via Diakou, via Anarafseos. I poliziotti che avrebbero dovuto scortare il
corteo progettato s'erano dispersi subito nel carnaio, feriti spesso o malmenati; i
giovanotti incaricati di provvedere al servizio d'ordine erano stati spazzati via
subito, di molte decine non restavano che cinque o sei naufraghi coperti di lividi e
tesi a far scudo ai finestrini in frantumi. Lo si capisce anche dalle fotografie prese
dall'alto e nelle quali il furgone è una macchiolina indistinta che affoga nel vortice
di una massa compatta, l'occhio del ciclone, la testa della piovra. In nessun modo
si poteva scollarsi da lei: aderiva a tal punto che non si riusciva più a stabilire in
quale strada fossimo, a quale distanza dal cimitero. E, quasi ci non bastasse,

c'era la pioggia dei fiori che scivolando sul parabrezza calavano una cortina di
tenebre, un buio simile al buio che m'aveva sepolto nella cattedrale quando ero
stata scaraventata sul catafalco. A volte la cortina si rarefaceva, regalandomi un
podi luce, e allora vedevo cose che mi smarrivano in interrogativi cui non sapevo
dare risposta: possibile che si fossero svegliati di colpo, spontaneamente, che non
si comportassero più come gregge che va dove vuole chi comanda e chi promette e
chi spaventa? E se fossero stati mandati, di nuovo, intruppati, di nuovo, per il
vantaggio di qualche sciacallo che voleva sfruttar la tua morte? Per vedevo anche
cose che cancellavano il dubbio e mi scaldavano il cuore. Grappoli di persone che
ciondolavano dai lampioni e dagli alberi, che trasbordavano dalle finestre e dai
davanzali, che si allineavano sui tetti, ai bordi delle grondaie, accovacciati come
gli uccelli. Una donna che piangeva, e piangendo mi supplicava: Non piangere!
Un'altra che si disperava, e disperandosi mi strillava: Coraggio! Un giovanotto con
la camicia stracciata che facendosi largo nel formicaio mi porgeva un tuo
quaderno del ginnasio, certo un cimelio prezioso per lui, e diceva: Lo do a te! Una
vecchia che sventolava il fazzoletto e sventolandolo singhiozzava: Addio bambino
mio, addio! Due contadini con la barba bianca e il cappello nero che inginocchiati
sull'asfalto, davanti al furgone, levavano un'icona d'argento e invocavano: Prega
per noi, prega per noi!. Il furgone stava per investirli, la gente li insultava, largo
imbecilli largo, e loro restavano lì sull'asfalto a levare l'icona d'argento.
durò finché una voce sussurrò ci siamo e intorno a noi si aprì una piccola gora di
spazio, l'autista fermò, qualcuno tolse la bara che issata sulle spalle dei portatori
prese ad incedere lentissimamente lungo un corridoio inatteso, un silenzio di
ghiaccio. All'improvviso la piovra non ruggiva più, non sussultava più, non
premeva più. Eppure era lì. Con una manovra a tenaglia alcuni dei suoi tentacoli
avevano preceduto il furgone, a decine di migliaia brulicavano nel cimitero ed
intorno: ma zitti. Dentro coprivano ogni lapide, ogni cippo, colmavano ogni aiuola,
ogni viottolo, si aggrovigliavano a ogni cipresso, a ogni monumento: ma zitti. E in
quel silenzio di ghiaccio, lungo quel corridoio che si apriva muto per lasciarci
passare, muto si rimarginava dietro di noi, camminavano: diretti alla fossa che
non si vedeva, e d'un tratto si vide. Stretta, fonda, un pozzo che si spalancava
sotto le mie scarpe. Barcollai. Qualcuno mi riprese, mi sollevò, mi posò sul
muricciolo della tomba attigua, la sepoltura ebbe inizio. Ma sui bordi del pozzo la
piovra aveva rizzato un baluardo di corpi e, per calarti come dovevi esser calato,

la testa dove andava la croce e i piedi contro il vialetto, bisognava girare la bara. Il
baluardo era per irremovibile, duro quanto il cemento, invano i necrofori si
raccomandavano indietro spostatevi indietro, e così ti calarono nel modo in cui
stavi: la testa contro il vialetto e i piedi dove avrebbero messo la croce. Unico
morto, ch'io sappia, con la croce sui piedi. Poi, quando fosti in fondo al pozzo, da
chissà quale fessura sbucò il Gran Sacerdote col suo manto di seta viola e i suoi
ori, le sue collane di zaffiri, smeraldi, rubini.
Pomposo, ieratico, levò la mazza pastorale per concederti la divina benedizione e
subito ruzzolò a capofitto nel pozzo schiantando il coperchio di cristallo,
piombandoti sul petto.
Qui rimase qualche secondo, paonazzo di vergogna, grottesco, a recuperare i suoi
paramenti, annaspare in cerca di un appiglio per risalire, quindi lo ripescarono e
offeso scomparve dimenticando di concederti la divina benedizione. Su di te
caddero le prime manciate di terra. Caddero con tonfi sordi, soffocati, tuttavia la
piovra li udì. E si scosse in un brivido secco, quasi una scarica elettrica, il
silenzio si infranse squarciandosi in un tumulto apocalittico. E chi urlava non è
morto, Alekos non è morto, chi gridava parole che non distinguevo ma dopo le
distinsi e una era il mio nome, una l'ordine scrivi raccontalo scrivi, e mentre le
zolle cadevano ora a palate, martellate sull'anima, a poco a poco coprendo la
statua di marmo, il sorriso amaro e beffardo, mentre le bandiere ondeggiavano in
flotti di inutile rosso, il ruggito riprese: incessante, assordante, ossessivo,
spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna zi, zi, zi. Vive,
vive, vive.
Lo sopportai finché il pozzo fu colmo e divenne una piramide di ghirlande
appassite, di petali doppiamente asfissianti, poi scappai. Basta con le menzogne,
le kermesse organizzate o spontanee, gli amori temporanei e tardivi, i dolori e le
rabbie abbaiate per un giorno e basta. Ma più scappavo, più lo rifiutavo, più il
maledetto ruggito mi inseguiva con l'eco del ricordo, del dubbio, quindi della
speranza, consolandomi e perseguitandomi come il tic tac di un orologio senza
lancette.
Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. Anche dopo che la piovra t'aveva dimenticato
tornando ad essere gregge che va dove vuole chi comanda e chi promette e chi
spaventa, anche dopo che la tua sconfitta s'era cristallizzata nel perpetuo trionfo
di chi comanda, di chi promette, di chi spaventa, esso continuava: fantasma

attaccato alle pareti del mio cervello, annidato tra le pieghe della mia coscienza,
irresistibile perfino se gli opponevo la logica o il buonsenso o il cinismo. sicché, a
un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se non era vero,
bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.
E fu così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti
al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le quali non
esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo tracciate
insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso gli episodi
che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell'eroe
che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell'uomo
che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai
principi assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e
predica la libertà. La solita tragedia dell'individuo che non si adegua, che non si
rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti.
Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l'orologio
senza lancette segna il cammino della memoria.

Parte prima CAPITOLO I
La notte avevi fatto quel sogno. Un gabbiano volava nell'alba ed era un gabbiano
bellissimo, con le penne d'argento.
Volava solo e deciso sulla città che dormiva, e sembrava che il cielo gli
appartenesse quanto l'idea della vita. D'un tratto aveva virato in discesa, per
tuffarsi a picco nel mare, aveva bucato il mare sollevando una fontana di luce, e
la città s'era svegliata, piena di gioia perché da molto tempo non vedeva una luce.
Nello stesso momento le colline s'erano accese di fuochi, dalle finestre spalancate
la gente aveva gridato la buona notizia, a migliaia erano scesi nelle piazze a far
festa, inneggiare alla libertà ritrovata: Il gabbiano! Ha vinto il gabbiano! Ma tu lo
sapevi che sbagliavano tutti, che il gabbiano aveva perduto.
Dopo il tuffo miriadi di pesci lo avevano aggredito per morderlo agli occhi,
strappargli le ali, era esplosa una lotta tremenda che escludeva ogni via di
salvezza. Invano egli si difendeva con abilità e con coraggio, beccando
all'impazzata, rovesciandosi in salti che spruzzavano immensi ventagli di spuma e
spingevano ondate fino agli scogli: i pesci eran troppi, e lui troppo solo. Le ali
lacerate, il corpo inciso di tagli, la testa straziata, perdeva sempre più sangue,
lottava sempre più debolmente, e alla fine, con un grido di dolore, s'era inabissato
insieme alla luce. Sulle colline i fuochi s'erano spenti, la città era tornata a
dormire, nel buio, come se nulla fosse successo.
Sudavi a pensarci: sognare i pesci era sempre stato per te un presagio di cattivo
augurio, anche la notte del golpe avevi sognato i pesci. Gli squali. Sudavi e capivi
che la sconfitta del gabbiano era un avvertimento, forse avresti dovuto rinviare di
una settimana, di un giorno, controllare di nuovo le mine sotto il ponticello,
accertarti di non aver commesso errori. Ma la sera avanti era incominciata la
conta a rovescio, alle otto del mattino sarebbero scoppiate anche le due bombe al
parco e allo stadio, sui boschi le colline avrebbero preso fuoco come nel sogno, e i
compagni incaricati della missione non erano più rintracciabili. In caso contrario,
del resto, cosa gli avresti detto: che avevi sognato un gabbiano divorato dai pesci
e che i pesci erano per te presagio di cattivo augurio? Avrebbero riso o creduto
che il panico si fosse impossessato di te. Non restava che vestirsi dunque, e
partire. Infilasti le mutandine da bagno, la camicia, i pantaloni. Era agosto e
appena giunto laggiù ti saresti tolto camicia e pantaloni per restare in mutandine
da bagno: chiunque, vedendoti, avrebbe concluso che eri un tipo bizzarro cui

piace nuotare all'alba. Chi va ad ammazzare un tiranno indossando soltanto le
mutandine da bagno? Calzasti le scarpe di corda. Le scarpe le avresti tenute
perché le rocce erano taglienti. Oppure no? No, neanche le scarpe sarebbero state
indispensabili nel tratto di scogliera compreso fra la strada e la riva perché,
subito dopo, ti saresti gettato in acqua per raggiungere la barca a motore.
Prendesti il portafoglio col denaro e i documenti falsi, lo ficcasti dentro il costume
poi cambiasti idea e lo togliesti. Niente documenti: ne veri ne falsi. Se i pesci
avessero agguantato il gabbiano, non avrebbero dovuto attribuirgli nessuna
identità. E se lo avessero ucciso? Se lo avessero ucciso, i giornali avrebbero
semplicemente parlato di un cadavere rinvenuto lungo il litorale di Sunio. Età,
circa trent'anni. Altezza, un metro e settantaquattro. Peso, settanta chili scarsi.
Costituzione, robusta. Capelli, neri. Pelle, molto bianca. Segni particolari,
nessuno eccetto i baffi. Ma molti uomini in Grecia portano i baffi.
Guardasti l'orologio: quasi le sei. Tra poco Nicos ti avrebbe chiamato con un colpo
di clacson e, mentre aspettavi quel colpo di clacson, il ricordo degli ultimi mesi ti
aggredì tormentandoti come un prurito. Il giorno in cui avevi disertato per non
servire il tiranno, di casa in casa eri andato a cercare qualcuno che ti ospitasse
ma non ti ospitava nessuno, non ti aiutava nessuno, di ora in ora il cerchio dei
poliziotti che ti davano la caccia si stringeva fino a fartene sentire il fiato sul collo,
e con la volontà che vacillava ti chiedevi: soffrire, battersi, per chi, perché? Il
giorno in cui avevi capito che l'altrui paura, l'altrui obbedienza, l'altrui
sottomissione t'avrebbe perduto e quindi bisognava lasciare il paese, fuggire in
cerca di nuove case dove chiedere ospitalità, con un passaporto falso t'eri
imbarcato all'aeroporto di Atene e avevi raggiunto Cipro, per essere anche qui
inseguito dai poliziotti, sentire anche qui il loro fiato sul collo, anche qui vacillare,
chiedersi: soffrire, battersi, per chi, perché? Il giorno in cui avevi compreso che
nemmeno lì saresti riuscito a ottenere nulla, il ministro degli Interni Gheorgazis ti
braccava per consegnarti alla Giunta, quindi bisognava scappare ancora e avevi
fame, avevi freddo, la notte dormivi in una capanna abbandonata, il giorno ti
nutrivi rubando la frutta nei campi, ripetendoti soffrire, battersi, per chi, perché?
Il giorno in cui il destino t'aveva condotto dall'unico che potesse salvarti, il
presidente Makarios, e costui t'aveva offerto un lasciapassare per raggiunger
l'Italia dicendo vada dal mio ministro Gheorgazis glielo firmerà, sicché c'eri
andato col cuore in tumulto, eri entrato nel suo ufficio col dubbio che t'avessero

teso una trappola, pronto a gridargli va bene mi arresti: tanto a che serve soffrire,
battersi, gli uomini non sanno che farsene della libertà. E lui, alzando un volto
tenebroso, incorniciato di barba corvina, quasi un cappuccio che nascondeva
tutto fuorché gli occhi taglienti, aveva sorriso:
Uhm, tu. Proprio tu che cerco di acchiappare da mesi. Ti rendi conto dei rischi
che correrei ad aiutarti? Non mi aiuti, allora, mi consegni agli sbirri! Tanto a che
serve... Soffrire, battersi? A vivere, ragazzo mio. Chi si rassegna non vive:
sopravvive. Poi: Cos'hai in mente, ragazzo? Una cosa e basta: un podi libertà. Sai
sparare, mirare giusto? No. Sai fabbricare una bomba? No. Sei pronto a
morire?Sì. Uhm! Morire è più facile che vivere ma ti aiuterò. T'aveva aiutato
davvero. T'aveva insegnato tutto ci che sapevi. Senza di lui non avresti mai
fabbricato le due mine che ora stavano sotto il ponticello, dopo la curva. Cinque
chili di tritolo, un chilo e mezzo di plastico, due chili di zucchero. Zucchero? Sì,
provoca una combustione più rapida. T'eri divertito come in un gioco a seguire le
sue istruzioni: Sarà abbastanza dolce? Mettiamoci un altro cucchiaino. Ma ora
rabbrividivi pensando che non si trattava d'un gioco, si trattava di uccidere un
uomo. Non avresti mai creduto di poter uccidere un uomo, non sapevi uccidere
neanche una bestia. Questa formica, ad esempio. Una formica si stava
arrampicando lungo il tuo braccio. La raccogliesti con dita leggere e la posasti sul
tavolino. Il clacson suonò.
Controllasti l'ora, le sei, e con passo deciso scendesti le scale, raggiungesti Nicos
che aspettava al volante del taxi, sedesti sul sedile posteriore per apparire un
normale passeggero. Nicos era tuo cugino e faceva il tassista. Lo avevi scelto
perché era tuo cugino, quindi potevi fidarti di lui, e perché faceva il tassista. Un
taxi dà meno nell'occhio: quale poliziotto immagina che due vadano a compiere
un attentato col taxi? Eppoi comprare o affittare un'automobile costa, tu i soldi
necessari a comprare o affittare un'automobile non li avevi, per averli avresti
dovuto stare in un partito, piegarti alle sue ideologie, alle sue leggi, ai suoi
opportunismi: se non stai in un partito, se non offri la garanzia di un distintivo,
chi ti guarda, chi ti finanzia? A Roma, dove t'eri rifugiato lasciando Cipro, i
mestieranti della politica t'avevano dato chiacchiere e basta.
Elemosine e basta. Compagno qui, compagno là, viva l'internazionalismo e la
libertà, semmai una stanza per dormire e una bettola per sfamarti ogni tanto, ma
niente di più. A un certo punto un funzionario socialista, uno di quelli che gli si

legge in faccia l'arte di far carriera, fottere il prossimo, e ti tagliavi gli orecchi se
prima o poi non diventava un leader, t'aveva ricevuto. Fissandoti dietro gli
occhiali da miope, grasso come un maiale, t'aveva promesso mari e monti:
compagno qui, compagno là, viva l'internazionalismo e la libertà. Per dall'Italia eri
ripartito con le tasche vuote e nemmeno dopo t'era giunta una dracma. Quanto ai
compatrioti cui sarebbe spettato aiutarti, ad esempio colui che si considerava il
gran capo della sinistra in esilio, li conoscevi bene. Compromettersi con un pazzo
che insieme a un pugno di pazzi vuole uccidere il tiranno? Giammai!
Naturalmente, se l'attentato fosse riuscito, ti sarebbero piombati come cavallette
su un campo di grano, avrebbero recitato il ruolo di complici e protettori, ora
invece non ti offrivano che un cognacchino: bevi, ragazzo, e buona fortuna.
Hai mangiato ieri sera? chiese Nicos. Sì, ieri sera sì. Dove?
In un ristorante. Ti sei fatto vedere in un ristorante? Scrollasti le spalle e, in
silenzio, calcolasti se c'era tempo per passare da Glyfada, rivedere la casa col
giardino d'aranci e limoni. Lì avevi trascorso la tua adolescenza e la tua gioventù,
lì abitavano i tuoi genitori: rientrando ad Atene avevi fatto uno sforzo terribile per
non avvicinarti. Guai a cedere a simili romanticismi, diceva Gheorgazis.
Romanticismi? Forse, ma un uomo è un uomo anche perché cede ai
romanticismi. Passa da Glyfada ordinasti a Nicos. Da Glyfada? Ma è tardi! Fai ci
che ho detto. Nicos ci passò davanti a gran velocità, facesti appena in tempo a
scorgere la finestra della camera dove tuo padre dormiva e il giardino dove una
vecchia vestita di nero annaffiava le rose. Il fatto che tua madre non avesse perso
l'abitudine di svegliarsi all'alba per annaffiare le rose ti intenerì, il pensiero di tuo
padre che dormiva ti strinse il cuore, con uno scatto ti girasti per guardare
ancora ma Nicos stava già imboccando il viale adiacente e presto il taxi fu sulla
strada che costeggia il mare. La strada che il tiranno faceva ogni mattina, dentro
la sua Lincoln blindata, per recarsi dalla residenza di Lagonissi ad Atene. Nelle
ultime settimane l'avevi percorsa decine di volte, in cerca del punto più adatto a
sistemarvi le mine, e la prima scelta era caduta su un arco di roccia: ti sarebbe
piaciuto bombardarlo dall'alto come un fulmine di Giove, una punizione divina. Il
fatto è che non avrebbe funzionato, l'esplosivo agisce dal basso verso l'alto, ed eri
stato costretto a ripiegare sul ponticello che si trovava dopo una curva. Più che
un ponticello, una tana di cemento quadrata, profonda, su cui l'asfalto della
strada passava con uno spessore di soli cinquanta centimetri. La distanza dalla

base della tana all'asfalto della strada era di ottanta centimetri: neanche
l'avessero costruita apposta.
Piazzate lì le mine avrebbero aperto voragini larghe tre o quattro metri, e la forza
dirompente sarebbe stata immensa.
Unico problema, scappare alla luce del sole. Non a caso Gheorgazis diceva che gli
attentati si fanno col buio, niente quanto il buio protegge la fuga. E se ti avessero
visto scappare? Pazienza. Del resto a te non piaceva il buio. Nel buio si muovono i
pipistrelli, le talpe, le spie, non gli uomini in lotta per la libertà.
Arrivasti sul ponticello un quarto alle sette. Nicos aprì svelto il portabagagli per
darti il filo da collegare alle mine e subito ti sfuggì una bestemmia. La matassa
era tutta arruffata, un intrico di nodi. Cos'hai combinato, incosciente, cos'hai
combinato?! Io nulla, io... Ma non c'era tempo ormai per discutere, tanto meno
per rimediare, sicché ti spogliasti, consegnasti a Nicos la camicia i pantaloni le
scarpe, e scalzo, con le mutandine da bagno e basta, corresti verso la tana
stringendoti al petto quell'intrico di nodi.
Ora il ponticello non esiste più. L'hanno riempito di terra perché hanno allargato
la strada e corretto la cuna: tornando laggiù non riconosceresti nemmeno il punto
in cui si trovava.
Per io lo rammento bene, lo vidi quando mi ci portasti prima che scomparisse, e
altrettanto bene rammento ci che mi raccontavi di quella mattina: principio della
tua fiaba, della tua tragedia, di tutto. Il mare era infuriato quella mattina, ondate
violente si infrangevano lungo la costa, e faceva freddo. Oppure avevi freddo per
via del filo arruffato? Non sapevi dartene pace, non capivi come avesse potuto
succedere. Forse Nicos lo aveva scaraventato nel portabagagli con un gesto troppo
brusco, forse aveva dimenticato di legarlo e le scosse del taxi avevano fatto il
disastro. Comunque fossero andate le cose, i duecento metri di rotolo liscio erano
ridotti a un groviglio: appena scioglievi un nodo, se ne formava un altro; appena
scioglievi l'altro, se ne formava un altro ancora... Esasperato, desti uno strappo.
Recuperasti la parte intatta, poi la misurasti e ti sfuggì una seconda bestemmia:
soltanto quaranta metri, un quinto della lunghezza necessaria! Stava a duecento
metri lo scoglio scelto per aprire il contatto e fuggire: come cambiare programma,
ora, come? T'eri deciso per quello scoglio dopo infinite prove e perché di lì avevi
una panoramica perfetta.

C'era un momento, quando la Lincoln nera percorreva il tratto fra la curva e il
ponticello, in cui il cofano restava seminascosto da un cartello stradale e, secondo
i calcoli, proprio in quell'istante avresti dovuto aprire il contatto. Senza contare
che si trattava d'uno scoglio vicino all'acqua, che di lì avresti fatto presto a
tuffarti. Agire da quaranta metri invece significava correre centosessanta metri
prima di raggiungere l'acqua.
Significa anche rifare i calcoli: quale sarebbe stata la visuale da quaranta metri?
Collegasti un'estremità del filo alle mine e poi, tenendo in mano l'estremità
opposta, andasti a controllare dove arrivasse. Maledizione, arrivava a un punto
da cui la strada non si distingueva per via della scarpata a ridosso e, quasi ci non
bastasse, in quel punto saresti stato completamente esposto. Tornasti sui tuoi
passi: con un filo così corto non c'era che sistemarti proprio sotto la strada, a una
decina di metri dal ponticello, col rischio di saltare in aria. Un suicidio.
Eppure non v'erano altre soluzioni e questo offriva il vantaggio di avvistare in
tempo la Lincoln nera. Vantaggio? Quale vantaggio? Per vederla bene dovevi
affacciarti al bordo dell'asfalto e, quasi ci non bastasse, anche lì i calcoli fatti
perdevano validità. Bisognava conteggiare di nuovo, con criteri nuovi, scegliere un
istante diverso per aprire il contatto, e guai a sbagliare di un secondo, una
frazione di secondo: per una frazione di secondo si manca il bersaglio. Al lavoro
dunque. E in fretta, molto in fretta. Di solito la Lincoln nera passava sul
ponticello alle otto ed erano quasi le sette e quarantacinque.
Il tuo cervello prese a funzionare con la rapidità di un computer. Vediamo: lei
andava sempre a cento chilometri l'ora, cento chilometri sono centomila metri,
un'ora è tremilaseicento secondi, centomila diviso tremilaseicento fa circa
ventisette, dunque ogni secondo la Lincoln avanzava di ventisette metri. Ogni
decimo di secondo, due metri e settanta. Ma in che modo calcolare quel decimo di
secondo? A voce, diceva Gheorgazis: kilia ena, kilia dio, kilia tria. Mille uno, mille
due, mille tre. Bene, avresti fatto così. Provasti un paio di volte per stabilire le
pause fra il mille uno e il mille due, il mille due e il mille tre, desti un'ultima
occhiata alle mine, innescasti il filo, e fosti pronto. Le sette e cinquantacinque.
Cinque minuti per rilassarsi, chiedersi... Si chiamava Giorgio Papadopulos l'uomo
che fra cinque minuti avresti ucciso e col quale, forse, saresti saltato in aria.
Chissà che tipo era, visto da vicino, in carne ed ossa. Non lo avevi mai visto da

vicino, in carne ed ossa: solo in fotografia. Nelle fotografie sembrava un ragnetto,
era buffo: quei baffettini insolenti, quegli occhietti spiritati.
Ma i dittatori sono sempre buffi, hanno sempre gli occhietti spiritati. Li
spalancano come se volessero far paura ai bambini: se disubbidisci ti punisco!
Una volta, osservando la sua fotografia, t'eri detto: mi piacerebbe guardarlo in
faccia. Per era stato prima di preparar l'attentato, dopo non te l'eri più detto.
Nelle ultime due settimane, ad esempio, quando ti appostavi su quella strada per
verificare i tempi e il tragitto, controllare l'ora in cui usciva dalla sua villa di
Lagonissi e la velocità a cui procedeva la sua automobile, il numero delle
macchine che formavano il corteo, avresti potuto levartela quella voglia di
guardarlo in faccia. E invece, appena la Lincoln nera si avvicinava, le voltavi le
spalle. Un po perché non ti riconoscessero, è vero, ma più che altro perché ti
turbava l'idea di guardarlo in faccia. Se guardi un nemico in faccia e ti accorgi
che malgrado tutto è un uomo simile a te, dimentichi chi è e cosa rappresenta:
ucciderlo diventa difficile. Meglio illudersi di uccidere un'automobile. Anche
quando fabbricavi le mine, quando studiavi i tempi e le distanze, quando dividevi
centomila per tremilaseicento, pensavi a un'automobile e non a un uomo dentro
un'automobile. Anzi a due uomini perché al volante c'era l'autista. L'autista,
perdio. E lui che tipo era? Una carogna o una creatura innocente, un disgraziato
che deve guadagnarsi il salario? Di sicuro era una carogna: le persone perbene
non fanno l'autista a un tiranno. Oppure sì, lo fanno? Non dovevi pensarci, alla
guerra non ci si pongono certe domande. Alla guerra si spara; e a chi tocca,
tocca. Il nemico alla guerra non è un uomo, è un obiettivo da inquadrare e basta:
se accanto a lui c'è un disgraziato o un bambino, pazienza. Pazienza? Pazienza un
corno: è giusto combattere le ingiustizie con le ingiustizie, il sangue col sangue?
No, non lo è. E a pensarci meglio non era giusto neanche ricorrere all'esempio
della guerra: niente è più stupido, più reazionario, del concetto di guerra e
quando mai t'era piaciuta la guerra? Non volevi neanche fare il militare, di rinvio
in rinvio avevi indossato l'uniforme di soldato a ventott'anni, perfino imbracciare
un fucile ti dava la nausea. E comunque, se pensavi all'autista, sentivi come un
malessere, una vergogna, bisognava che tu facessi uno sforzo per ripetere a te
stesso le cose che dicevi ai compagni: la violenza chiama violenza, l'ira
dell'oppresso contro l'oppressore è legittima, se uno ti prende a schiaffi non gli
porgi l'altra guancia ma gli restituisci lo schiaffo, quest'uomo ha assassinato la

libertà, nell'antica Grecia il tirannicida veniva onorato con monumenti e corone
d'alloro. E perfino la frase che t'eri imparata a memoria: io non sono capace di
uccidere un uomo, ma un tiranno non è un uomo, è un tiranno. All'improvviso ti
suonava falsa, quasi una bugia. Per questo avevi tanto freddo? Sciocchezze: avevi
freddo perché eri nudo e perché faceva freddo.
Ti accovacciasti tra i sassi, le braccia intorno alle gambe per scaldarti un po. La
barca a motore stava arrivando, puntuale, si dirigeva verso l'insenatura stabilita.
Quant'era lontana, per: saresti riuscito a raggiungerla? Stamani l'acqua doveva
esser gelida: sarebbe stato duro tuffarsi nell'acqua gelida, nuotare nell'acqua
gelida. Certo, se tu fossi saltato in aria con l'automobile, o se tu non avessi fatto
in tempo a raggiunger la riva, tuffarti, quel problema non sarebbe esistito. La
vita. Che cosa assurda la vita. Giri un interruttore, stabilisci un contatto tra il
polo negativo e il polo positivo e... Il rumore del corteo che si avvicinava ti giunse
agli orecchi. Balzasti in piedi e mormorasti con tristezza: Coraggio, ci siamo.
Era un vero corteo. Lo apriva la scorta in motocicletta, tre poliziotti a destra e tre
a sinistra, poi lo seguiva la scorta in automobile, due jeep in fila, poi l'ambulanza
del Pronto Soccorso, poi l'autoradio, poi ancora quattro motociclisti, infine lei: la
Lincoln nera. E dietro un'altra jeep, un'altra pattuglia di motociclisti. Aveva
imboccato l'ultimo tratto del rettilineo e avanzava all'andatura di sempre. Presto
sarebbe scomparsa dietro la curva e l'avrebbe superata e sarebbe apparsa di
nuovo. Il rumore crebbe, e allungasti il collo per vedere meglio.
I primi due motociclisti stavano sbucando e già ti venivano incontro, così nitidi
che potevi scorgerne i lineamenti. All'altezza del cartello stradale per diventarono
un'ombra confusa e ti rendesti conto che, dopo quello, non avresti distinto più
nulla sicché saresti stato costretto ad agire sull'intuito e basta, sul calcolo dei
tempi e basta, ricordando che dal cartello alla prima mina c'erano ottanta metri,
che per coprire ottanta metri a cento chilometri all'ora ci vogliono circa tre
secondi. Circa! Il tuo cervello riprese a lavorare con rapidità forsennata e il tuo
corpo si irrigidì nello spasimo: il guaio stava proprio in quel "circa". Se ventisette
metri si percorrono in un secondo, tre secondi sono ottantun metri e non ottanta:
quindi la prima mina sarebbe scoppiata troppo tardi. E così la seconda, visto che
stava un metro dopo cioè a ottantuno metri anziché ottantadue. Conclusione, il
contatto andava posticipato. Di quanto? Semplice: se un decimo di secondo
corrispondeva a due metri e settanta, andava posticipato circa un terzo di decimo

di se condo. Circa! Di nuovo quel "circa"! E tutto ci ammesso che la Lincoln nera
tenesse un'andatura costante! Mioddio. Quanto dura un terzo di decimo di
secondo? Un battito di ciglia? No, meno. Un terzo di decimo di secondo non è
misurabile in termini umani. Un terzo di decimo di secondo è il destino.
Bisogna affidarsi al destino e non perdere tempo. Non guardare il cronometro.
Contare più lentamente. Kilia ena, kilia dio, kilia tria. Mille uno, mille due, mille
tre. Più lentamente?! Ma cosa significa in questo caso più lentamente? Sono
passate le due jeep. E passata l'autoambulanza. E passata l'autoradio.
Sono passati i motociclisti. Ora viene lei. Eccola: nera. Si avvicina. Si avvicina
sempre di più, nera. diventa sempre più grande, sempre più nera. Fra un attimo
sarà al cartello stradale e diventò un'ombra confusa. Speriamo che la mia mano
non tremi. Non trema. Speriamo che la Lincoln non acceleri e non rallenti. Non
accelera, non rallenta. Sta per arrivare. Arriva. E arrivata. Mille uno, mille due,
mille tre, contatto!
Per un istante eterno, lungo un milione di anni, non successe nulla. Poi i tuoi
timpani furono lacerati da uno schianto secco, cattivo, ed esplose un tumulto di
pietre, si levò una nube di polvere grigia. Una nube sola, uno schianto solo. Era
scoppiata una mina sola. Possibile? E neanche un sasso t'aveva colpito.
Possibile? Ti toccasti incredulo. Ma non ci fu tempo per rallegrarsi d'essere
rimasto indenne perché, con immediatezza fulminea, capisti d'esser rimasto
indenne in quanto avevi fallito. Un'automobile blindata che salta in aria fa un
rumore molto più forte, solleva una nube molto più intensa, e non sono soltanto
pietre quelle che schizzano via. Cosa non aveva funzionato dunque? La carica, il
tempo, il modo di contare kilia ena, kilia dio, kilia tria, il destino? Il terzo di
decimo di secondo, il destino. Ma la seconda mina perché non era esplosa? Avevi
collegato male il filo? Non avevi innescato bene il detonatore? O era stato lo
zucchero, il gioco dello zucchero, sarà abbastanza dolce mettiamoci un altro
cucchiaino? Ti ponevi queste domande correndo. Quasi inconsapevolmente, dopo
esserti toccato incredulo, t'eri buttato giù per la scarpata e ora correvi, correvi,
spinto da un unico impulso: giungere al mare, tuffarsi, sparire nell'acqua, vivere.
Vivere! D'un tratto il mare ti fu sotto i piedi, ti fu intorno al corpo che affondava
nell'acqua gelida mentre il pensiero ripeteva è davvero gelida, e a un certo punto
fu così gelida che dovesti risalire a galla.

Questo servì a gettare un'occhiata sulla strada dove i poliziotti correvano con la
rivoltella in mano, e la scena ti preoccupo: subito ti riempisti i polmoni d'aria e
tornasti sott'acqua, a nuotare di nuovo sott'acqua. Nuotavi con sicurezza e vigore,
eri sempre stato un campione, ma il mare era più infuriato di quel che pensavi,
una corrente fortissima ti portava a riva anziché verso la barca: tornasti a galla
una seconda volta, per respirare. Guardasti i poliziotti una seconda volta, per
controllare se venivano a te. No, si precipitavano tutti in direzione della tana sotto
il ponticello, non ti avevano visto, potevi proseguire tranquillo. Peccato questa
corrente, se non fosse stato per la corrente. E per l'affanno. T'aveva colto
l'affanno. Ogni poco dovevi fermarti e riprendere fiato, perdendo tempo prezioso.
Che ondate. Senti che ondate. Un'ondata violenta ti mandò a sbattere contro gli
scogli e ti aggrappasti a una sporgenza, stordito. Quanto tempo passò mentre
stavi lì aggrappato, stordito ed ignaro delle conseguenze? Quali fossero le
conseguenze di quella pausa imprevista ti fu chiaro soltanto l'attimo in cui i tuoi
occhi inquieti cercarono la barca a motore. Gli avevi detto d'attendere cinque
minuti esatti, non uno di più. Glielo avevi detto addirittura con brutalità, perché
capissero bene: E un ordine! Scaduti i cinque minuti se ne sarebbero andati
certamente. Bisognava rimediare, subito. Rimediare uscendo dall'acqua e
dirigendosi a piedi verso l'insenatura dove la barca sostava. Di sicuro ti avrebbero
visto, e aspettato. Ti tirasti fuori dall'acqua, faticosamente. Cominciasti a correre
come prima, piegato in due, sulle rocce che qui erano taglienti, ogni passo una
ferita, un dolore acuto, in compenso ti avvicinavi all'insenatura con notevole
velocità. Ancora cinquanta metri, trenta, e avresti potuto chiamarli: Eccomi!
Arrivo, aspettatemi, arrivo! Poi un tuffo, qualche bracciata, e ti sarebbero venuti
incontro. Trenta metri. Venti. Dieci: Eccomi! Arrivo, aspettatemi, arrivo,
aspettatemi! La barca a motore si mosse. Prese il largo e se ne andò.
Se ne andò, e per tutto il resto della tua vita non saresti guarito mai dal ricordo
ossessionante di quella barca che prendeva il largo senza aspettarti, arrivo
aspettatemi arrivo, dal senso di vuoto che ti svuotò in quel momento. La voglia di
piangere, di gridare vigliacchi schifosi vigliacchi. La disperazione. La domanda
che fare ora, che fare. Alzasti lo sguardo sulla strada dove la scorta aveva
improvvisato un posto di blocco e uomini in uniforme si agitavano strillando:
Occhio alla riva! Attenti a tutto ci che si muove! Che fare? Nascondersi, ovvio.
Nascondersi, subito. Ma dove? Le tue pupille vagarono attorno smarrite, in cerca

di un buco, di un anfratto per rifugiarti. Eccolo! Quella minuscola grotta, quella
specie di nicchia che si apriva fra le rocce della scogliera. Un po troppo angusta,
sì, ma non c'era altro. La raggiungesti, carponi. Ti ci rannicchiasti dentro come
un mollusco nella conchiglia, anzi un feto nella placenta: la fronte sui ginocchi e
le braccia intorno alle gambe. Restandoci fino a buio avresti potuto cavartela,
forse. perché a un certo punto avrebbero sospeso le ricerche e, con un podi
fortuna, ti saresti allontanato raggiungendo la strada. Naturalmente non
sarebbero mancati i problemi, anzitutto il problema d'aggirarsi nudo e scalzo di
notte, ma in vari luoghi del litorale avevi sistemato i compagni con l'incarico di
raccoglierti e... Cosa gli avresti detto incontrandoli? Cosa avresti risposto alle loro
domande, ai loro muti rimproveri? Che era andata male per via del filo corto, del
filo arruffato, per via dei calcoli rifatti affannosamente, per via d'un terzo di
decimo di secondo, per via del destino? Avevi posticipato troppo, ora lo capivi.
Avevi contato troppo lentamente kilia ena, kilia dio, kilia tria: la prima mina era
scoppiata quando la Lincoln aveva superato il ponticello di quasi tre metri. E la
seconda mina? Come avresti giustificato il fatto che la seconda mina non era
scoppiata per niente? Oh, Theos! Theos! Theos mu. Dio, dio mio! Tanto lavoro,
tanto dolore, tanti sacrifici, tanti mesi per nulla. Nulla! Non dovevi pensarci.
Impazzivi a pensarci. Meglio condurre la mente su un pensiero diverso: le bombe
dimostrative, l'incendio sulle colline. Mentre tu compievi l'attentato, una bomba
doveva scoppiare allo stadio e una al parco, poi gli alberi delle colline dovevano
prendere fuoco. Una ghirlanda di fuoco che svegliasse l'intera città. Il gabbiano, il
gabbiano! Le tue disposizioni erano state precise. Ma le avevano eseguite o no?
Quattordici apostoli son pochi per un cristo che da solo pretende di rovesciare
una tirannia, ammettiamolo. E se tu avevi fallito, anche loro avevano diritto di
fallire.
Forse neanche allo stadio, neanche al parco, era scoppiato nulla, e sulle colline
non bruciava nulla. Il nulla dopo il nulla.
Che avrebbe detto Gheorgazis? E i mestieranti della politica che non avevano
tenuto fede alle loro chiacchiere, alle loro promesse? Di sicuro avrebbero
inneggiato alla loro lungimiranza: quel solitario pazzo, quel ribelle presuntuoso
che crede di potersi sostituire ai partiti, alla disciplina dei partiti, alla logica delle
ideologie. Lo avevamo intuito, noi, che non era il caso di prenderlo sul serio.
Basta. Ora c'era un'unica cosa da fare: scamparla. Per che tormento starsene

raggomitolato così, non cedere alla tentazione di allungare un braccio o una
gamba. Sopportare questo formicolio alle giunture. E questo torpore gonfio di
sonno cos'era? Resistervi, rimanere sveglio.
Che fatica per, che fatica. Soprattutto con quest'elicottero.
Era arrivato anche l'elicottero. Volava basso, passando e ripassando sopra di te, e
il rumore martellante delle sue pale ti assopiva come una ninna nanna. Sui tuoi
occhi cala un sipario di piombo.
Quanto avevi dormito? L'orologio non lo diceva: inzuppato d'acqua, non
funzionava più. Non meno d'una o di due ore, per: il sole era alto, lo intravedevi
da una fessura della conchiglia che si apriva sulla tua testa colando una lingua di
cielo, e non faceva più freddo, anzi stavi sudando. Forse per via delle voci che
t'avevano svegliato, voci molto vicine, tanto vicine che distinguevi con chiarezza
quello che dicevano. Dicevano: Frugate roccia per roccia! Era tornato anche
l'elicottero, con un frastuono improvvisamente sinistro, quasi spari di una
mitragliatrice pesante. Sembrava che l'intero esercito greco fosse lì per le
manovre. Una squadra quaggiù! Il sergente a rapporto! .Non in fila indiana! In
ordine sparso! Infine un urlo arrogante, adirato, che ti rintronò nelle tempie:
Cercate palmo a palmo, ripeto! Sì, signor capitano. E la lingua di cielo sopra la
tua testa, la fessura al soffitto della grotta, scomparve sotto un paio di scarpe.
Trattenesti il fiato. Ti stringesti con disperazione dentro la conchiglia e per
qualche minuto ti parve d'esser tornato bambino, quando tua madre ti cercava
per punirti, sicché per evitar le sue botte ti nascondevi sotto il letto, rintanandoti
dalla parte del muro, lì restavi a fissare i suoi piedi, ascoltare i suoi berci, dove s'è
cacciato, dove s'è nascosto, e a labbra chiuse pregavi oddio, fai che non mi veda,
fai che se ne vada. A volte se ne andava davvero, senza averti trovato, ma tu non
ti fidavi e restavi sotto il letto respingendo la fame, la sete, la voglia di fare pipì. A
volte si chinava, invece, e ti vedeva, allungava una mano minacciosa, trionfante,
ti tirava fuori: .T'ho preso, carogna, t'ho preso! Ma perché, stavolta, avrebbe
dovuto chinarsi e vederti? Eri un uomo, ormai, e fortunato: t'eri salvato decine di
volte in quei sedici mesi. perché spaventarsi per un paio di scarpe, per
quell'ufficiale che sostava sopra la tua testa, implacabile? Si levò una voce:
Abbiamo cercato bene, signor capitano. Non c'è nulla, qui, non c'è nessuno.
Allora date un'occhiata in alto e poi passiamo dall'altra parte. Un gran respiro ti
gonfi i polmoni e stringesti i pugni pensando: menomale, ce l'ho fatta. Ma nello

stesso momento in cui pensavi meno male ce l'ho fatta, il capitano si mosse e
inciampò. E cadde giù dalla roccia. Ti cadde proprio davanti. E ti vide.
Non sparare! Non sparare! Puntando la rivoltella con mano tremante gridava così,
e tu non sapevi rispondergli: sparare con che? Poi gridava: Vieni fuori! Vieni fuori!
Ma inutilmente.
Lo stupore, più che la paura e la rabbia, t'aveva paralizzato: non riuscivi a
sgomitolarti, strapparti da quella conchiglia. Lo fecero loro. Con la ferocia dei
pesci che aggredivano il gabbiano del sogno ti piombarono addosso, urtandosi
l'un contro l'altro, pestandosi. Ti tirarono fuori pei piedi, ti misero in piedi, senza
accorgersi che non stavi ritto perché avevi le gambe anchilosate, e tentare di
difendersi come il gabbiano sarebbe stato follia. Erano troppi. Erano una gora di
uniformi che si allargava, si allargava, e pensava soltanto a picchiarti, frugarti.
Uno ti colpì due volte alle tempie e sugli occhi. Uno ti spalancò con entrambe le
mani la bocca per ficcarvi dentro le dita e cercarvi chissà cosa gridando: Sputala,
sputala! Uno ti strappò le mutandine da bagno per vedere se ci nascondevi le
armi. Poi ti misero le braccia sul capo e ti spinsero su per la salita. Ma non
riuscivi a camminare perché sotto i piedi scalzi, già piagati dalla corsa sulle rocce,
ogni sasso diventava un coltello e, se ti fermavi per dar tregua al dolore, ti colpiva
no impazienti col calcio delle pistole o le canne dei mitra.
Arrivare alla strada fu un sollievo che si spense subito in amarezza: dove avrebbe
dovuto esserci una voragine si apriva una bucò di due metri appena, a
dimostrarti che non avevi sbagliato soltanto i calcoli sul decimo di secondo, avevi
sbagliato anche la carica. Ti spinsero dentro un'automobile molto spaziosa, coi
sedili ribaltabili. Presero a interrogarti stando seduti sui sedili ribaltabili. Chi sei?
Chi ti ha pagato? Chi sono gli altri? chi c'era sulla barca a motore? E giù schiaffi,
pugni, calci negli stinchi. Il più feroce era un tipo grosso, vestito in borghese, dai
lineamenti scimmieschi e la pelle deturpata da un alveare di crateri, cavernette,
cicatrici lasciate dal vaiolo o da chissà quale infezione. Picchiava con
pesantissime mani, mani da pugile, e più gli opponevi silenzio più si imbestialiva:
Parla, assassino, parla! Parla o ti faccio a pezzi! Rispondi, criminale, rispondi, o ti
spello a forza di botte! Non fingere sorpresa, assassino, tanto non te la cavi, se
non rispondi ti ammazzo, lo sai chi sono io, lo sai? Non lo sapevi e non te ne
importava. L'unica cosa di cui ti importasse era riuscire a star zitto, non dargli la
minima indicazione, la minima traccia per identificarti: se scopriva il tuo nome i

compagni non avrebbero avuto il tempo di mettersi in salvo. D'un tratto si
avvicinò un poliziotto, un vecchio poliziotto dall'aria mite. Prese a tirarlo per una
manica della giacca: Signor maggiore, mi ascolti signor maggiore, io lo so chi è. Lo
conosco, perché presto servizio a Glyfada, è uno di Glyfada. Si chiama Panagulis
e... Ma l'uomo butterato non lo lasciò finire e, mentre la sua bocca si spalancava
sputandoti addosso una pioggia di saliva: Ah! Sei tu, lurido verme! Dunque non
eri scomparso, non te l'eri squagliata all'estero, tenente Giorgio Panagulis! Eri
qui, sporca carogna, disertore, venduto, stavi ad Atene, vigliacco, e credevi di
farcela? Poi un bruciore insopportabile, una specie di pugnalata nel collo. Ti
aveva spento la sigaretta nel collo. Ti accasciasti con un gemito e il tuo pensiero
si annebbiò.
Negli ultimi anni della tua vita, quando mi raccontavi l'arresto, non ricordavi bene
cosa fosse successo dopo la sigaretta spenta sul collo. La memoria ti restituiva
soltanto immagini sparse, brandelli confusi: il vecchio poliziotto che cerca
d'attrarre l'attenzione dell'uomo butterato per spiegargli che non sei Giorgio ma
suo fratello Alessandro; l'uomo butterato che lo respinge e ormai certo di
conoscere la tua identità rifiuta di ascoltarlo e lo caccia, vattene idiota non
disturbarmi, non vedi che sto lavorando; di nuovo il vecchio poliziotto che si
allontana con un gesto di rassegnazione. Nient'altro. Sulle due ore che avevi
trascorso dentro quell'automobile e sul pestaggio di quelle due ore non sapevi dir
nulla. Per v'era una cosa che ricordavi con esattezza: l'arrivo di Ladàs, allora
ministro degli Interni e braccio destro di Papadopulos. Il muro di uniformi che si
scosta per lasciarlo passare. Il suo faccione tondo, lucido, che si china su di te
mentre le manine grasse ti battono colpetti quasi affettuosi su una spalla. La sua
voce viscida che ti scivola addosso:
Ascoltami, tenente, perché io lo conosco tuo fratello Alessandro. Lo conosco dai
tempi in cui studiava al Politecnico con mio figlio. Un tipo difficile, ammettiamolo,
un anarcoide. Criticava Karamanlis, odiava la casa reale, ce l'aveva con
Evanghelis Averoff, non gli andava bene il comunismo, non gli andava bene il
fascismo, non gli andava bene nulla. Per un tipo intelligente, e se sapevi
prenderlo per il verso del pelo ragionava. E lo sai perché ti dico questo, tenente?
perché se Alessandro fosse qui ti direbbe: racconta tutto a Ladàs, fidati di Ladàs.
Confessalo a Ladàs chi c'è dietro a questo attentato. Ti risparmierai un mucchio
di noie. Te ne ricordavi con esattezza perché mentre Ladàs parlava t'era venuta

una gran voglia di piangere. Non avresti dovuto aver voglia di piangere: il fatto
che ti credessero Giorgio t'offriva un grande vantaggio, guadagnare qualche
giorno o almeno qualche ora, dar tempo ai tuoi compagni di mettersi in salvo. Ma
più ti ripetevi che l'equivoco era un vantaggio, una grande fortuna, più la voglia di
piangere ti raschiava la gola e ti bagnava gli occhi. Devi disertare anche tu,
Giorgio. Ma io sono ufficiale di carriera, Alekos, non posso! Sì che puoi. Devi,
quindi puoi. Non ci riesco, Alekos, non ci riesco! Ci riuscirai. Lo avevi convinto. E
aveva disertato. Guadando il fiume Evros era andato in Turchia, di lì al Libano, di
lì in Israele: senza trovare un paese che lo accettasse, che lo aiutasse. Un
calvario. Poi, nel porto di Haifa, un attimo prima che si imbarcasse per l'Italia, gli
israeliani lo avevano preso. Lo avevano consegnato al capitano di una nave greca:
che lo riportasse ad Atene, che lo consegnasse alla Giunta. Il capitano lo aveva
chiuso a chiave in una cabina e... L'uomo butterato diceva scomparso perché,
quando la nave era giunta al Pireo, la polizia aveva trovato la cabina vuota e l'oblo
aperto Però tu lo sapevi che Giorgio non era scomparso, era morto. Lo sapevi da
un sogno. Proprio la notte in cui la nave viaggiava tra Haifa e il Pireo, avevi fatto
quel sogno. Camminavi con Giorgio lungo un sentiero di montagna, un sentiero
su un precipizio che finiva in mare. A un certo punto la montagna s'era scossa in
un fremito, una valanga s'era abbattuta su Giorgio.
Giorgio! avevi gridato ghermendolo. Giorgio! Ma non eri riuscito a tenerlo. E
Giorgio era caduto giù in mare, tra i pesci.
Ti portarono via a mezzogiorno. Alla tua destra l'uomo butterato, alla tua sinistra
un colonnello che litigava con l'uomo butterato, sui sedili ribaltabili due guardie
col mitra, e altre due accanto all'autista: otto in un'automobile. La pressione dei
corpi ti toglieva il respiro e ti irritava i lividi lasciati dalle percosse, una rivoltella
appoggiata sulle tue costole raddoppiava il tormento. Era la rivoltella dell'uomo
butterato che ripeteva monotono: Te ne accorgerai, tenente, te ne accorgerai!
Oppure: La smetterai di fare il sordomuto, tenente, la smetterai! E dopo ogni
minaccia ti tirava un calcio nelle gambe. Tu continuavi a tacere e fissavi la strada
con la speranza assurda che accadesse qualcosa di imprevedibile. Un incidente,
magari, che ti permettesse di fuggire. Ma non accadeva nulla. L'automobile
viaggiava sicura, preceduta e seguita dai motociclisti, nessuno le prestava
attenzione. Quando rasentava altre macchine e cercavi di incrociare lo sguardo
con chi stava dentro, ti rispondevano occhiate vuote; quando qualche passante si

girava, era per opporre l'indifferenza di chi si chiede: Chi hanno arrestato, un
ladro? Oppure: Hanno acchiappato un delinquente, bene! A un certo punto
una ragazza che camminava sul marciapiede con un giovanotto parve intuire la
verità, con volto angosciato afferrò il polso del giovanotto e puntò l'indice verso di
te. Questo ti dette un meraviglioso conforto, quasi che la ragazza rappresentasse
l'intera città, e l'intera città si accingesse a spalancar le finestre, gridare: L'hanno
arrestato, l'hanno arrestato! Corriamo a difenderlo!Il giovanotto per scosse le
spalle con l'aria di dire: Lascia perdere, non ti immischiare. Il conforto diventò
delusione, ti colse una grande stanchezza: chinasti la testa e i detriti della
sconfitta vennero a galla. Ti sentivi ridicolo perché eri nudo tra gente vestita, ti
sentivi umiliato perché avevi fallito, ti sentivi solo perché eri solo e perché avevi
paura di ciò che ti avrebbero fatto. Un dubbio bucò la tua coscienza: saresti
riuscito a resistere? L'uomo dal volto butterato se ne accorse.
Sposto la rivoltella dal tuo fianco, te l'appoggi alla mascella: Tra poco siamo
arrivati, tenente. E ti giuro che parlerai. Oh, sì, tenente, parlerai. perché ti
cuocerò a puntino. Non lo sai che cosa si dice di me? Che faccio parlare anche le
statue. Non lo hai capito chi sono? Sono il maggiore Teofilojannacos.
Conoscevi quel nome, e ciò che egli affermava era vero: infatti esisteva una
lugubre barzelletta su lui. Un archeologo trova una statua e non capisce di che
epoca è. Dimmelo! esclama alla statua. E l'aiutante dell'archeologo: Dottore, la
porti a Teofilojannacos. Con lui parlerà. Però scoprire che lui era lui fu un aiuto.
Fu come se un vento spazzasse via la paura e il dubbio e la sconfitta e perfino il
senso di ridicolo per la tua nudità, al posto di tutto ci si levasse l'orgoglio d'essere
solo, umiliato, la certezza di non poter essere vinto. Girasti gli occhi sull'alveare di
crateri, cavernette, cicatrici lasciate dal vaiolo o da chissà quale infezione,
scoppiasti in una risata. Ridi, ridi commentò Teofilojannacos. L'automobile stava
passando dinanzi allo stadio olimpico, e ora dinanzi all'albergo Hilton, e ora
dinanzi all'ambasciata americana. Dopo l'ambasciata girò a destra e il tuo cuore
si contrasse. Oltre le acacie sul marciapiede avevi riconosciuto subito la Sezione
Investigativa Speciale della polizia militare, dell'Esa. La centrale delle torture.
Neanche questo edificio ora esiste più. Fu abbattuto per costruire un grattacielo
che poi non costruirono perché troppi dicevano che abitare in quel posto
maledetto avrebbe portato disgrazia: oltre le acacie del marciapiede non scorgi
che piloni smozzicati, qualche traliccio che penzola, e un piazzale deturpato dalle

immondizie. Quando il libeccio soffia dal mare, e le immondizie formano mulinelli
di rabbia, i tralicci sbattono sordi contro i piloni, sembra che dalle rovine si levino
voci di pianto. Eppure la zona è bella, residenziale, con viali verdi e luminosi,
bianche villette fin de siècle dove i ricchi hanno il cuoco e il maggiordomo e la
stiratrice e l'autista, eleganti palazzine liberty dove le sedi diplomatiche
mantengono giardini ben curati e ottoni ben lucidati. Si durò fatica a credere che
qui, proprio qui, fosse situato l'inferno dalle cui finestre uscivano le urla e i
lamenti delle vittime. Non le udivano i ricchi col cuoco e il maggiordomo e la
stiratrice e l'autista? Non le udivano i funzionari dei consolati e delle ambasciate
coi giardini ben curati e gli ottoni ben lucidati, dell'ambasciata americana
specialmente, visto che quella stava proprio sul marciapiede opposto? Oppure le
udivano e le commentavano con una smorfia di noia? My God, ricominciano.
Speriamo che non disturbino il party, stasera. Si durò fatica anche a immaginare
che tipo di edificio fosse, questa centrale dell'Esa. Magari un bel palazzone come
quello della Lubianka a Mosca, come quello della polizia segreta a Madrid, o una
caserma simile a tante altre caserme dei paesi mediterranei: muri vecchi, sale
d'attesa squallide, poltroncine di falso cuoio spellato, posaceneri sozzi, uffici
disadorni col ritratto del tiranno alla parete e il funzionario sudato dietro la
scrivania.
Unghie nere, baffetti presuntuosi, volti ottusi e oleosi, tazzine di caffè portato da
soldatini sigillati nella paura, sissignor comandante, sissignor tenente, e poi le
cantine per gli arrestati, le stanze speciali per gli interrogati. Una era all'ultimo
piano, vicino alla terrazza col motore che entrava in azione per coprire i lamenti e
le urla. E detto nelle pagine che scrivesti un mese prima di morire e che
stracciasti il giorno in cui arrivasti alla terribile pagina ventitré, proibendomi di
raccoglierle, ma io le raccolsi per scoprire delusa che erano soltanto un elenco
minuzioso delle prime ventiquattr'ore là dentro. Oggi invece è quell'elenco che mi
impressiona, l'abbondanza esasperata dei dettagli, il fatto che molti anni dopo tu
non avessi dimenticato nulla, ne un nome ne una frase ne un gesto, quasi che
ogni minimo particolare si fosse inciso nella tua memoria con la forza di un
marchio a fuoco.
Il recinto, racconti in quei fogli, era in stato d'allarme quando l'automobile varcò
la soglia e Teofilojannacos ti disse: Benvenuto, tenente. Sentinelle col mitra
puntato, soldati che si spostavano con scatti nervosi, ordini secchi mischiati a

sussurri, domande: chi era quest'uomo seminudo e scalzo, di quale delitto s'era
reso colpevole? Ti spinsero su per le scale, ti introdussero dentro un ufficio, ti
fecero la fotografia da distribuire ai giornali. Quella dove sembri un bel nuotatore
stanco e tieni le braccia abbandonate giù lungo il corpo, la testa inclinata sulla
spalla sinistra, e il tuo sguardo è intriso d'una mestizia che spacca il cuore. Poi
chiamarono un medico per controllare se il tuo mutismo fosse provocato da choc.
Il medico venne ed era un tipo strano. Aveva una faccia simpatica e arguta, due
occhietti luccicanti di complicità ed ironia, sembrava capitato lì per caso. Con
falsa sorpresa esaminò le bruciature di sigaretta: Chi è stato?! Ti hanno preso per
un posacenere? Con delicatezza quasi eccessiva studi i lividi e i graffi: .Ti fa male
qui? E qui? E qui? Poi ti chiese se ti doleva la tempia arrossata e finse di irritarsi
perché non rispondevi alle sue domande. Era chiaro che gli piacevi, che voleva
aiutarti in qualche modo. Piaceva anche a te sebbene indossasse la loro uniforme
ma non potevi far nulla per dimostrarglielo, potevi solo sperare che restasse
molto. Restava. Infatti, ben presto, Teofilojannacos si spazientì: Allora, dottore,
questo choc c'è o non c'è? Sì, credo che sia traumatizzato da uno spavento ma
dovrei visitarlo con calma nel mio gabinetto, per accertarmene, fargli qualche
esame. Che esame e non esame, dottore, questo è un ufficio di polizia, non un
pronto soccorso!. Ed io sono uno psichiatra, non un veterinario!. Se è uno
psichiatra, non vede che fa il sordomuto, che prende in giro anche lei? No, e
vorrei medicarlo! Ci pensiamo noi a medicarlo, dottore. Può andare. Gli
indicarono la porta e vederlo andare verso la porta, sconfitto, fu come rivedere la
barca che prende il largo senza aspettarti: aspettatemi, arrivo, aspettatemi!
Avresti voluto corrergli dietro, aggrapparti alla sua manica, trattenerlo: portami
via, trova un pretesto per portarmi via! E lui parve sentirlo. Si fermò, si girò, ti
scoccò un'occhiata che diceva: io lo so che fingi, per loro non ne sono certi, prova
a insistere. Il fatto è che fingere serviva sempre di meno, si avvicinava il momento
in cui avresti dovuto affrontarli in modo diverso, dimostrando di non essere ne
sordo ne muto, ed ecco: il momento era giunto, ti portavano in un'altra stanza, e
questa aveva un tavolo e due sedie, sì, per anche un lettino senza materasso, di
ferro. Accanto al lettino c'erano tre sergenti con le braccia conserte e il
manganello alla cintura, un manganello così grosso che sembrava una clava.
Erano molto grossi anche loro, molto robusti. Li guardasti, guardasti il lettino, e
per qualche secondo non ti fu chiaro a cosa servisse un lettino senza materasso,

di ferro, ma poi ti fu chiaro perché i due ti afferrarono, seri, impassibili, e ti ci
stesero sopra, seri, impassibili, senza curarsi del gemito che t'era sfuggito al
contatto con la rete che era rotta e bucava quanto un filo spinato.
Ti mordesti le labbra per controllare l'angoscia: avrebbero incominciato subito o
no? No, subito no: un capitano dall'aria timida stava entrando fra colpetti di tosse
e rossori: Permesso, buongiorno, permesso. Con l'aria di non accorgersi che
dinanzi a lui v'era lo spettacolo assurdo di un uomo seminudo e coperto di
sangue, steso su un lettino senza materasso, si sistemò alla scrivania. Ci posò
una cartella, ci allineò alcune matite, incominci a porre domande che
chiaramente si rifacevano a Giorgio, qual era il tuo nome, in quale anno eri nato,
a quale reggimento appartenevi e, poiché tacevi, rispondeva per te: Oh, sì, c'è
scritto, mi scusi. Classe 1939, ne conosco parecchi del Trentanove, tutti bravi
ragazzi, avevo un amico del Trentanove, eravamo assieme nel campo 534. Lo
fissavi chiedendoti quale fosse il suo ruolo: si trovava lì per riempire un vuoto
oppure perché faceva parte del cerimoniale? Che fosse stato mandato da qualche
dipartimento di psicologia, tu vai lì, fai finta di nulla, lo tratti con gentilezza, ne
conquisti la fiducia, e magari ne vien fuori qualcosa? Una cosa era certa: non
contava nulla e lo avevano spaventato a morte: quando la porta si aprì, balzò in
piedi come se lo avessero punto. O come se entrasse un generale. Ma non era un
generale, erano due tipi in borghese. E lo spinsero da parte, con un movimento
lento del capo gli fecero cenno di andarsene, quindi si piazzarono dinanzi al
lettino, agitarono un fascio di fogli e, scandendo bene la voce: Sono il
vicecommissario Malios dei servizi anticomunismo della questura centrale. Sono
il vicecommissario Babalis del medesimo ufficio.
Una volta, da ragazzo, avevi visto un film terrorizzante. Era un film di
fantascienza e i suoi protagonisti erano uomini robot, fabbricati con una formula
molto particolare, un procedimento per cui non nascevano bambini: nascevano
adulti e vestiti, col cappello in testa e le scarpe, e avevano tutti lo stesso viso, la
stessa corporatura, la stessa maniera di muoversi o di stare fermi. Questi due ti
ricordavano proprio quel film.
A colpo d'occhio infatti sembravano tipi qualsiasi ed innocui: lineamenti incolori,
abito grigio, camicia con cravatta; a esaminarli meglio, invece, incutevano paura.
E il motivo era che, sebbene uno fosse alto e uno basso, uno magro e uno
massiccio, uno coi baffi e uno no, apparivano mostruosamente uguali: quasi

l'ombra sdoppiata della stessa persona. Il loro modo di starsene a gambe
divaricate e ventre in fuori, ad esempio. Era identico. Il loro guardarti come se tu
fossi stato in camera tua o in ospedale: era identico. E poi era identico il tono di
voce che usavano, alternando le battute con sincronia perfetta.
Appena uno finiva una frase, subito l'altro diceva la frase seguente completando il
discorso, per la frase seguente non esprimeva un concetto separato: esprimeva il
proseguimento logico o sintattico della frase detta prima, sicché a guardarli e
ascoltarli pareva d'assistere a una partita a tennis tra due giocatori che non
mancano mai la palla. Toc, toc! Toc, toc! Toc, toc!
Tenente, abbiamo le informazioni che la riguardano. Abbiamo anche il fascicolo di
suo fratello Alessandro. Toc, toc!
Sappiamo tutto di lei e riteniamo che lei sappia tutto di noi.
Infatti le radio estere ci dedicano molta attenzione. Toc, toc!
Ci calunniano, anzi. Dicono che torturiamo. Menzogne. Il nostro sistema non ha
bisogno delle torture.. Toc, toc!
L'interrogato noi lo schiacciamo coi fatti, con le prove messe insieme dalla nostra
pazienza. Quindi finisce sempre disarmato dalla nostra bontà. Toc, toc! Alcuni ci
dicono: vuoto il sacco ma voglio proteggere una certa persona.. E noi lo
comprendiamo, lo accontentiamo. Toc, toc! Uno ci disse: stavo nascosto in casa
del Tale ma non fategli nulla per carità, è un padre di famiglia. .E noi non gli
facemmo nulla: semplicemente andammo da lui e gli demmo qualche consiglio.
Toc, toc! L'amicizia è bella, gli dicemmo, ma per l'amicizia potresti finire la vita in
prigione. Si buttò in ginocchio e giurò che non lo avrebbe fatto mai più. Toc, toc!
Ecco perché i comunisti ci odiano. Per la nostra idoneità professionale, la nostra
preparazione ideologica. Ma non vogliamo stancarla con questi discorsi, tenente.
Vogliamo porle soltanto alcune domande.. Ad esempio chiederle l'indirizzo della
casa in cui era nascosto. Così lei potrà riavere i suoi indumenti e vestirsi.
Non può certo continuare a star nudo. Dove abitava, tenente?.
Toc, toc! Toc, toc! Toc, toc!
Li seguivi spostando le pupille dall'uno all'altro col movimento oscillatorio di un
pendolo, proprio come si fa alle partite di tennis, e poiché non ricordavi chi dei
due fosse Malios e chi Babalis, diventavano sempre di più l'immagine sdoppiata
della stessa persona con la stessa voce ripetuta dall'eco. "Dove abitava, tenente?"
Sì, dove abitava, tenente?" Bisognava fermarli, scaricarli, dividerli. Bisognava

rispondergli, o saresti impazzito. Non ricordo. Non ricorda? No, non ricordo.
Tenente! Sa cosa significa la parola interrogatorio? Con l'interrogatorio, la
memoria torna a tutti, glielo assicuriamo. Ho detto che non ricordo e non c'è
speranza che ricordi.
Forse lei è troppo teso, tenente. Ha bisogno d'un cognac, d'un caffè. Io non ho
bisogno di nulla. Forse la sua posizione è scomoda, vuol sedere su questa sedia?
Io sto bene così.
Via, tenente, si comporta come un bambino. No, non serviva.
Non si scaricavano affatto, non perdevano la palla neanche a rispondergli.
Bisognava provar qualcos'altro. L'insulto, forse.
Provasti: Chiudi il becco, Malios! Chiudi il becco, Babalis! Funzionò. Si
sdoppiarono. gettarono in aria i fascicoli, si misero a gridare con voci diverse e
distinte: Dici chiudi il becco a noi, assassino?! perché non dici sì sono stato io e
me ne vanto, me ne assumo le responsabilità?! perché non ti comporti da uomo?
Che uomo, che uomo, non lo vedi che non è un uomo?! E un vigliacco, trema, ha
paura! Vaffanculo, Malios. Vaffanculo, Babalis. Sei tu che hai paura, eunuco. Lo
sanno tutti che sei castrato come un eunuco, Babalis. Mascalzone! Babalis si
gettò su di te, Malios fece appena in tempo a fermargli il braccio: No, Babalis.
Perdere la calma non serve.
Il tenente sarà ragionevole. Ragionevole? Noi gli parliamo con tanta gentilezza e
lui, un assassino mancato, ci insulta?! Calmati, ripeto. Presto non ci insulterà
più. Non ne avrà neanche il fiato. D'accordo. Ma la porta si aprì e Teofilojannacos
irruppe sbraitando: .L'avete buttata sulle buone maniere, eh? Lasciatelo a me.
Ingenui, non avete capito che con lui ci vuole un sistema speciale? Tu dicevi che
in ogni regime oppressivo, in ogni dittatura, sia essa di destra o di sinistra, di
occidente o di oriente, di ieri, di oggi, di domani, un buon interrogatorio è come
un copione teatrale, con personaggi che entrano ed escono secondo una
sceneggiatura precisa e un regista che li dirige dietro le quinte: l'Inquisitore cui è
stata affidata l'inchiesta. Dicevi che ciascuno di quei personaggi ha un ruolo
diverso ma un unico scopo: indurre la vittima a confessare. Affinché ci riescano,
l'Inquisitore gli lascia carta bianca e aspetta. Tanto ha un'arma formidabile a sua
disposizione, l'arma del tempo, egli sa che col tempo la vittima cede. Per non
perdere, quindi, la vittima deve neutralizzare quell'arma: reagire con una
controffensiva che impedisca il normale svolgimento della commedia. Sciopero

della fame, sciopero della sete, aggressività, cioè violenza opposta alla violenza per
indurli a picchiare più forte e farti svenire: ecco alcuni momenti della
controffensiva. Quando la vittima sviene, stroncata dalle percosse e da altre
sevizie, oppure entra in stato di coma in seguito a un digiuno, l'interrogatorio
viene ovviamente sospeso. Ci le consente di riposarsi e di affrontare la ripresa dei
tormenti in condizioni di freschezza e col vantaggio di conoscere le battute, le
scene, lo stile della regia. Dicevi inoltre che queste cose tu non le sapevi, prima,
ma le avevi intuite appena Malios e Babalis avevano iniziato quel monologo a due.
Proprio ad ascoltarli e osservarli, cioè, t'era venuto il sospetto che essi stessero
recitando le battute di un copione diretto dietro le quinte da un regista abilissimo,
interpretando i personaggi di una commedia il cui scopo era quello di logorare la
tua mente già turbata dal capitano timido e goffo. Allora, e sempre con l'istinto
piuttosto che con la ragione, avevi compreso che dovevi difenderti facendo in
modo d'essere picchiato subito perché, se in seguito alle botte tu fossi svenuto,
non solo il corpo ma anche la mente si sarebbe presa un riposo e dopo non
avresti commesso errori. L'essenziale era cogliere l'occasione giusta. E questa ti
venne offerta da Teofilojannacos nell'attimo in cui egli irruppe berciando l'avete
buttata sulle buone maniere lasciatelo a me, ingenui non avete capito che con lui
ci vuole un sistema speciale? E poi, rivolto a te: Tanto lo sappiamo chi sei,
delinquente! Lo abbiamo scoperto senza difficoltà! Sei il disertore scappato in
Israele, il traditore fuggito dalla nave! Maledetto frocio! Ecco il momento, via! Con
un guizzo di leopardo balzasti dal lettino, con zampate di leopardo gli afferrasti
una mano, gli rovesciasti il volto, ruggisti: Teofilojannacos! I froci vestono
l'uniforme di maggiore! E subito avvenne quel che doveva avvenire, che tu volevi
avvenisse: come sganciati da una molla che fino a quel punto li aveva bloccati,
Malios e Babalis persero il loro controllo, i tre sergenti col manganello la loro
immobilità, tutti insieme ti saltarono addosso liberando Teofilojannacos, e il tuo
attacco divenne un duello contro sei persone più robuste e riposate di te. Due
davanti, due dietro, due ai lati, sotto una grandine di pugni, di manganellate, di
botte, mentre tu scivolavi, cadevi, ti rialzavi, scivolavi di nuovo, ti alzavi di nuovo,
distribuivi pedate, gomitate, testate con la ferocia del leopardo preso nella rete ma
deciso a strappare la rete. Il tavolino si rovesci, una sedia volò in aria sfiorando il
corpo di Babalis che impaurito corse alla porta e chiamò rinforzi, invano dissuaso
da Teofilojannacos che non voleva altri testimoni della sua umiliazione e

protestava macché rinforzi però un sottufficiale col mitra stava già arrivando: e
questo era più di quanto tu avessi sperato. Rompesti la rete, piombasti sul mitra
per impossessartene, lo ghermisti e, sebbene il sottufficiale lo tenesse con dita di
ferro, lo tiravi con tanta disperazione che non sentivi nemmeno le manganellate
sulla testa, sulle spalle, sulle braccia. Udivi soltanto le loro grida, insieme alle
grida il rumore sordo dei colpi vibrati a casaccio, così a casaccio che ora il
manganello si abbatteva sulla fronte di Malios, e Malios si voltava indignato,
tirava al responsabile un calcio che invece toccava Babalis, Babalis si arrabbiava
e reagiva con un manrovescio sulla bocca di Malios, e si apriva la rissa fra loro:
mi hai colpito imbecille cretino. Poi la rissa si estendeva anche agli altri,
insensata, grottesca, tanto più che picchiandosi si esortavano vicendevolmente a
non farlo: fermo, che ti prende, fermo! Piantatela, basta! Non vi accorgete di
prestarvi al suo gioco? Occupatevi di lui piuttosto! Nel frattempo, solo col
sottufficiale, tu continuavi a tirare, tirare, sentivi le sue dita allentarsi, cedere a
poco a poco, ed ecco: stavi per strappargli il mitra, glielo strappavi, lo avevi in
mano! Lo puntasti. E subito il cielo ti cadde sugli occhi. Nero, zeppo di stelle.
Mille artigli ti ghermirono. Mille lacci.
No, non eri svenuto purtroppo. La manganellata t'aveva soltanto stordito.
Sollevasti le palpebre, ti guardasti d'attorno per capire dov'eri e che cosa ti
immobilizzava. Eri di nuovo sul lettino. Ti ci avevano legato stavolta per le
caviglie, pei polsi, e un sergente ti sedeva sul petto, un altro sulle gambe. Chino
su di te, Teofilojannacos ansimava: Ti ridurremo in poltiglia, carogna. In poltiglia!.
Lo fissasti negli occhi. Potergli sputare in faccia. Avere un po di saliva per
sputargli in faccia. E la tua lingua raccolse le poche stille di umidore che vi
restavano, le portò alle labbra, lui capì, si infuri: La clava! Avanzò Babalis, con la
clava. Ora vedrai, mercenario! La clava si abbatte sulle piante dei tuoi piedi. Una
volta, due volte, decine di volte. La falanga. La tortura chiamata falanga. Che
male. Che dolore intollerabile. Non solo un dolore, una corrente elettrica che dai
piedi sale al cervello, dal cervello riscende agli orecchi, poi allo stomaco, al ventre,
ai ginocchi dove lo spasmo si concentra. Mentre una voce ripete metodica: Prendi
questa. E questa. E questa. E questa. E questa. Mentre il pensiero invoca:
Svenire, mioddio svenire. Non gridare, svenire. Ma come si fa a non gridare? Ti
mettesti a gridare. E allora accadde qualcosa di peggio, accadde che
Teofilojannacos ti tappò la bocca perché tu non gridassi: la bocca e il naso. Il

pollice e l'indice stretti sul naso e la palma sulla bocca. No, soffocare no. Non lo
sopporto. Datemi tutte le bastonate del mondo, ma non toglietemi l'aria. Un po
d'aria, solo un po d'aria per carità. Dio, se potessi morderlo. Se potessi schiudere
i denti e mordergli un dito. Per un istante ritirerebbe la mano, per un istante
potrei respirare. Chiamasti a raccolta tutte le energie che ti restavano, le
concentrasti nelle mascelle. Lentamente, molto lentamente schiudesti le mascelle
e gli addentasti il mignolo destro, con forza, finché scricchiolò. Un urlo selvaggio.
Ed era Teofilojannacos che urlava levando la mano sanguinante, il mignolo
spaccato in due. Allora fu il linciaggio.
Venduto, venduto, venduto! Mercenario! Puttana! Venduto!.
Strillavano tutti in coro, un coro di uniformi, e chi ti schiaffeggiava, chi ti
sbatteva la testa contro il lettino, chi ti batteva in ogni parte del corpo sicché non
c'era più una sola parte del corpo che rispondesse ai tuoi impulsi, la rete si
conficcò nelle tue carni, la sofferenza si alternava a un intorpidimento che
paralizzava. Svenire, mioddio. Fammi svenire, fammi riposare, fammi morire per
un po, soltanto un po. E finalmente il buio. Un buio lungo nel quale precipiti
come dentro un abisso liberatore. E il silenzio. Un silenzio che ronza negli orecchi
come un ronzio di vespe, mentre la bocca si riempie di sangue, e le tempie
scoppiano, e la coscienza svanisce nel sollievo agognato di perdere i sensi, morire
per un po.
Quando riapristi gli occhi, non eri legato soltanto ai polsi e alle caviglie. Una
cinghia ti immobilizzava all'altezza dello stomaco, e non sentivi più le gambe ne le
braccia ne il tronco.
Sentivi il viso e basta, quasi t'avessero decapitato e la testa continuasse a vivere
staccata. Ti passasti la lingua sopra le labbra. Ti sembrarono immense e pensasti
che dovevano essere spaventosamente gonfie. Provasti a sollevare le palpebre.
Restarono incollate e pensasti che dovevano essere spaventosamente gonfie
anche quelle. Oltre la cortina delle ciglia appiccicose, figure indistinte respiravano
con pesantezza. Uno rideva: Che sfacchinata! Si fece largo un'ombra che
respirava in modo normale e Teofilojannacos gli disse: Eccolo. E lui? L'ombra ti
venne vicino, si piegò su di te coprendoti come una nuvola, una voce esitante ti
chiese: Mi riconosci? Esalasti un debolissimo no. Bugiardo! Eravate insieme al
corso allievi ufficiali e non lo riconosci? intervenne Teofilojannacos.

L'ombra si chinò ancora. Forse aveva capito che non eri Giorgio ma non se la
sentiva di affermarlo con sicurezza. Allora? incalzò Teofilojannacos. L'ombra
taceva piovendoti addosso stille di sudore. Avanti, è lui o non è lui? insistette
Teofilojannacos. Non saprei. Dev'essere lui per mi sembra cambiato.
Forse perché lo avete ridotto così. Bene, torni domani. L'indomani tornò. E il
giorno seguente e quello seguente ancora.
Ma ogni giorno rispondeva la stessa cosa perché ogni giorno diventavi più
irriconoscibile, ti massacravano sempre di più.
Ufficiali, sergenti, soldati cioè figli del popolo, quel popolo per cui si piange, si
soffre, si lotta, assolvendolo sempre, giustificandolo d'ogni delitto perché non è
colpa sua. Cinque anni dopo, quando ti portai a fare le radiografie per chiarire i
disturbi che ti ostacolavano il respiro, il radiologo sollevò allibito la lastra ed
esclamò: Ma cosa hanno fatto a quest'uomo? Non ha una costola intatta! Non ne
avevi. Te le avevano rotte tutte a colpi di spranga.
Il piede sinistro invece te lo avevano maciullato a colpi di clava, per questo
camminavi come se tu avessi una gamba più corta. Quanto ai polsi, te li avevano
scardinati a forza di tenerti appeso per ore al soffitto, legato a una corda finché le
spalle e le braccia si atrofizzavano, il carpo e il metacarpo si scollavano: quello
destro era reso deforme da una specie di edema calloso che si irritava
mostruosamente al contatto con l'orologio. Non posso nemmeno portar l'orologio!
Sul petto avevi tanti piccoli buchi perché lì eri stato bruciacchiato molte volte con
la sigaretta, la schiena e i fianchi portavano ancora i segni delle frustate inferte
con lo scudiscio d'acciaio. Altre cicatrici erano sulle gambe, sulle natiche, intorno
ai genitali. Ma la più impressionante era quella al costato: la conseguenza d'un
taglio inferto da Teofilojannacos col suo tagliacarte scheggiato, mentre Costantino
Papadopulos, il fratello di Papadopulos, ti puntava la rivoltella alla tempia. Te la
infilo nel cuore, te la infilo nel cuore! La carne era ricresciuta male, in
escrescenze che sembravano un bassorilievo di lacrime bianche e che a toccarle
resistevano come chicchi di riso. Il giorno delle radiografie, il medico ci passava
sopra un dito incredulo e balbettava: .Incredibile! Oddio! Senza contar le torture
che non lasciano tracce, ad esempio quella di svegliarti appena cadevi esausto dal
sonno, oppure quella del soffocamento. Avevano capito che la tolleravi meno di
qualsiasi altra e allora vi ricorrevano sempre. Però, dopo il morso al mignolo di
Teofilojannacos, usavano una coperta: ti chiudevano il naso e ti premevano la

bocca di sopra la coperta. Infine, le sevizie sessuali. Di quali sevizie in particolare,
non me lo dicesti mai: se ti ponevo domande precise, impallidivi e ti chiudevi in
silenzio. Però di una non facevi misteri, dell'ago nell'uretra. Ti denudavano, ti
legavano al lettino, ti palpeggiavano il pene finché si ergeva e, quand'era duro, ci
infilavano un ago di ferro: grande pressapoco quanto un uncinetto. Poi lo
infuocavano con l'accendino e l'effetto era identico a quello di un elettrochoc.
perché tu non morissi, un medico vi assisteva con lo stetoscopio.
Continuarono per quindici giorni, mentre ti grandinavano addosso domande cui
neanche volendo avresti potuto dare risposta perché erano rivolte a Giorgio.
Rispondi, tenente! Chi ti ha aiutato? In quale caserma hai preso l'esplosivo? Chi
avrebbe usufruito del complotto? Come si chiamano i tuoi complici, dove stanno?
Dove si trova tuo fratello Alessandro? Quando l'hai visto l'ultima volta? In quale
casa sei stato nascosto dopo esser fuggito dalla nave, chi ti ha aperto l'oblò? E tu
zitto. Aprivi bocca solo per lamentarti, o gridare. Poi, al quindicesimo giorno,
arrivò un uomo vestito di blu, con la camicia bianca e la cravatta blu. Aveva mani
molto curate, con lucide unghie che sembravano coperte da un velo di smalto, e
questa fu la prima cosa che osservasti in lui perché tra quelle mani stava un
dossier su cui era scritto il nome di Giorgio e la sigla Segreto assoluto. Il volto
glielo guardasti dopo, non riuscivi a staccar le pupille da quel dossier, ed era un
volto che rifletteva le mani: ben sbarbato, ben massaggiato. I lineamenti erano
netti e severi: fronte alta, naso lungo, bocca sottile. Gli occhi erano fermi ed acuti
dietro le lenti spesse. Ti esaminò un attimo, con estremo distacco, quasi tu fossi
un oggetto e non una persona. Si mise a sfogliare le carte, in silenzio. Infine
mosse le labbra e con voce gelida disse: Sono il colonnello Nicolas Hazizikis,
comandante dell'Esa. Parliamo un poco, Alessandro. Ti senti meglio, Alessandro?
O devo chiamarti Alekos? Il vero inquisitore non picchia. Parla, intimidisce,
sorprende. Il vero inquisitore sa che un buon interrogatorio non consiste nelle
torture fisiche ma nelle sevizie psicologiche che seguono le torture fisiche. Sa che
col corpo ridotto a un ammasso di piaghe l'interrogato sarà felice di rifugiarsi in
qualcuno che lo tormenta con le parole e basta. Sa che dopo tante sofferenze
niente come l'annuncio pacato di altre sofferenze piegherà la sua resistenza fisica
e morale. Il vero inquisitore non si mostra mai coi personaggi della commedia che
ha nome Interrogatorio: per rivelarsi aspetta che il sipario sia calato sul primo
atto. Soltanto allora, come un regista che coordina il lavoro della sua troupe, egli

interviene: graduando le domande con pazienza, studiando le risposte con
intelligenza, accettando i silenzi con civiltà. Tanto a lui non importano rivelazioni
straordinarie o immediate. Gli interessano piuttosto piccole notizie con cui
comporre il mosaico che gli consentirà di individuare i punti vulnerabili della sua
vittima, provocare in lei un senso di incertezza e di paura, infine l'abbandono
totale. Per questo, quando l'inquisitore si presenta, non basta rifiutargli risposte.
Bisogna rifiutargli anche il dialogo, ogni forma di dialogo, e tenere il cervello
all'erta. Naturalmente è difficile: le torture fisiche diminuiscono il funzionamento
cerebrale. Però è necessario sforzarsi se si vuole capire dove è giunta l'inchiesta,
quel che hanno scoperto o non hanno scoperto. Occhi e orecchi aperti, dunque. E
memoria, fantasia, perché l'inquisitore non ha fantasia: è un tipo che vede il
potere come un fenomeno esterno, un cumulo di mezzi per conservare lo status
quo senza affaticarsi nella problematica. Non che sia un cretino o un vanitoso
assetato di gloria: spesso non è sollecitato nemmeno da ambizioni personali, si
accontenta d'essere uno sconosciuto appena autorevole e cioè di stare
nell'anticamera del Potere. Non che egli sia necessariamente malvagio o corrotto:
spesso a muoverlo sono un odio sincero per il disordine e un amore sincero
dell'Ordine. Ma il potere totalitario, oppressore, è il suo dio; il modello che egli ha
dell'ordine è la simmetria delle croci in un cimitero. In tale simmetria si incasella,
lui stesso, senza discutere: non può immaginare nulla di nuovo o di diverso. Il
nuovo e il diverso lo spaventano. Devoto quanto un prete a sistemi già collaudati,
divinizza i regolamenti e vi obbedisce nel modo in cui obbedisce ai banali canoni
dell'eleganza: abito blu, camicia bianca, cravatta blu. Il vero inquisitore è un
uomo lugubre. Filosoficamente è il vero fascista, cioè il fascista privo di colore che
serve tutti i fascismi, tutti i totalitarismi, tutti i regimi purché servano a mettere
gli uomini in fila come croci in un cimitero. Lo trovi ovunque vi sia un'ideologia,
un principio assoluto, una dottrina che proibisca all'individuo d'essere se stesso.
Ha uffici in ogni contrada della Terra, capitoli in ogni volume di storia, ieri serviva
i tribunali dell'Inquisizione cattolica e del Terzo Reich, oggi serve la caccia alle
streghe delle tirannie orientali e occidentali, di destra e di sinistra. Egli è eterno,
onnipresente, immortale. E mai umano. Forse si innamora, all'occorrenza piange
e soffre come noi, forse ha un'anima. Ma, se ce l'ha, essa giace dentro una tomba
così profonda che per disseppellirla ci vorrebbe un bulldozer. Se non si capisce
questo, non gli si può tener testa e resistergli diventa semplicemente un atto di

orgoglio personale. Intendiamoci, l'orgoglio personale è legittimo anzi doveroso.
Però, chiuso in se stesso, è un errore politico: tener testa all'interrogatorio non
significa solo dimostrare un eroismo da san Sebastiano o da martiri del Colosseo,
significa anche umiliare l'Inquisitore sul piano professionale e mentale, indurlo a
dubitare di se e del sistema che egli rappresenta, vendicare tutti coloro che
furono schiacciati dalla sua aggraziata ferocia.
E un breve saggio che avresti scritto per il libro molti anni dopo, quando la tua
fiaba stava per concludersi, ed è la razionalizzazione del tuo odio per Hazizikis:
l'unico aguzzino che non avresti mai perdonato. Un odio cupo, doloroso, testardo.
Un odio che era esploso nell'attimo stesso in cui aveva pronunciato il tuo nome,
dimostrando di sapere chi eri. Ti senti meglio, Alessandro? O devo chiamarti
Alekos? E tu eri rimasto a fissarlo incapace di rispondere sì o no. Avresti dato
molto per rispondere sì o no. Ma le parole non uscivano dalla tua bocca, neanche
t'avessero tagliato la lingua. Non era tanto il fatto d'essere stato riconosciuto che
ti ammutoliva, ne la consapevolezza di ciò che questo significava: l'arresto di
Nicos e degli altri, l'implicazione di Gheorgazis, lo scandalo che ne sarebbe sorto
perché, se erano stati capaci di scoprire in pochi giorni la tua identità, non
avrebbero impiegato troppo a sapere chi ti aveva dato gli esplosivi e come erano
giunti ad Atene. Era la sua sicurezza offensiva, la sua condiscendenza sprezzante,
il distacco con cui ti trattava. Teofilojannacos e i suoi aiutanti erano umani nella
loro bestialità: così umani da avere paura di te ed arrabbiarsi. Lui invece non era
arrabbiato e non aveva paura di te: se ne stava seduto dietro la scrivania, con le
sue belle mani e il suo abbigliamento inappuntabile, si toglieva calmo gli occhiali,
li puliva guardando le lenti anziché te, li rimetteva indugiando in un lieve colpo di
tosse, si comportava insomma come se non corresse alcun rischio. Del resto non
aveva voluto nessuno lì a sorvegliarti. Aveva ordinato che ti togliessero le
manette, ti aveva offerto una sedia, ed ora riprendeva a parlare col tono di chi
conversa in un bar, non di chi interroga alla centrale dell'Esa. Taci? Be', chi tace
acconsente. Dunque ti senti bene. Questo mi fa piacere perché qualcuno deve pur
sentirsi bene in famiglia. Tuo padre ha avuto un infarto quando ha saputo, e tua
madre ha rischiato di impazzire. Cosa non ci ha detto quando siamo andati a
perquisirle la casa! Non voleva che le sventrassimo qualche poltrona, si indignava
perché sequestravamo le fotografie del suo album e perché volevamo sapere da

dove veniva un certo pacco di soldi. Urli, strepiti, insulti. Siamo stati costretti ad
arrestarla.
Così tuo padre, capisci. Ti dir, è sempre spiacevole arrestare due vecchi, ma non
avevo scelta. Li teniamo al comando.
Dovremo tenerceli per un po. Qualche mese, diciamo. Eh, sì: stai procurando un
mucchio di guai a un mucchio di gente. Se non esistessero frontiere e immunità
diplomatiche, riempiremmo tutte le nostre celle. Ma a te questo non interessa,
vero? Un suono rauco: No. Be', è tuo diritto. Se non erro, il buon rivoluzionario
non ha sentimenti, o non se li permette.
E pronto a sacrificare suo padre, sua madre, i suoi amici, chiunque. Non gli costa
fatica perché non gliene importa. Non ha cuore. Tu hai cuore? No. Come temevo.
Per hai le labbra secche, vedo che pronunci le parole con difficoltà.
Gradisci un bicchiere d'acqua? Sì. Molto bene. Suonò un campanello, entrò
Babalis tutto deferente e sdoppiato della sua metà: Sì, signor maggiore. Il nostro
amico gradirebbe un bicchiere d'acqua. Ha le labbra secche. Poi si rivolse di
nuovo a te: Dunque dove eravamo rimasti? Ah, sì: al cuore. Tu non sei sposato,
vero? Non hai nemmeno una ragazza fissa. Un'avventura ogni tanto, quando
capita, quando c'è tempo, ma niente legami. Niente amori. Il tuo solo amore è la
politica, scommetto che non sei mai stato innamorato. Ma io capisco anche
questo: il buon rivoluzionario non deve lasciarsi distrarre da tali sciocchezze.
Oppure le mie informazioni sono inesatte, mi sbaglio, e hai una donna? Altro
suono rauco: E tu, Hazizikis? No, neanch'io. Non sono sposato, come te, e non
sono innamorato, come te. Abbiamo qualcosa in comune, noi due, finiremo con
l'intenderci. Ma ecco l'acqua. Babalis era rientrato col bicchiere d'acqua e tutto
accadde prima che essi se ne rendessero conto perché ne l'uno ne l'altro ebbero il
tempo d'accorgersi che non lo portavi alle labbra. Udirono lo schianto, sentirono
addosso il bagnato, e già stavi saltando sulla scrivania di Hazizikis per tagliargli
la gola. Hazizikis fece appena in tempo a scansarti piegandosi da una parte.
Babalis no. Fra te e Babalis non c'erano intoppi e colpirlo fu facile, sia pure di
striscio e come ripiego perché il tuo obiettivo restava Hazizikis: per lui avevi
accettato l'acqua e su lui ti dirigevi di nuovo col bicchiere rotto, tremando d'ira
per l'imperturbabile calma con cui t'aveva scansato. Ma lui non batte ciglio. Non
mutò neanche espressione. Si limitò a suonare il suo campanello per chiedere
rinforzi e a godersi la scena che immediatamente seguì. Tra i rinforzi c'erano i tre

sergenti che il primo giorno stavano accanto al lettino. Ti piombarono subito
addosso per bloccare il braccio che brandiva il bicchiere e fu con loro che
ingaggiasti la battaglia mentre Babalis gridava: Tenetelo forte, reggetelo! Una
lunga battaglia perché, sia pure immobilizzato, tu non mollavi il bicchiere, lo
stringevi come i giocatori di rugby stringono al petto la palla, incurante del vetro
che ti lacerava le dita, e quando riuscirono ad allentarti la mano, il tuo mignolo
destro era staccato quasi a metà, il tendine era reciso. Be', vedo che oggi non
possiamo conversare disse Hazizikis con la solita voce, poi ti lasciò a Babalis che
ti legò le braccia dietro la schiena e proibendo al medico l'anestesia ti fece
ricucire. Ma una settimana dopo riapparve, col suo completo blu, la sua cravatta
blu, la sua camicia bianca, le sue unghie curate, e: Come va il dito? Mi hanno
detto che sei coraggioso, che hai rifiutato l'anestesia. I miei complimenti. A
proposito, non sei tu quello che con un morso ha tagliato in due il mignolo del
maggiore Teofilojannacos? Ora ve ne andate entrambi fasciati e, se non sbaglio, è
proprio il medesimo mignolo. Come dicono i musulmani, occhio per occhio e
mignolo per mignolo. Be', ora parliamo.
Diceva sempre così: Be', ora parliamo. Lo disse per due mesi e mezzo. Infatti per
due mesi e mezzo, ininterrottamente, continuarono a straziarti il corpo e l'anima.
Il corpo a Teofilojannacos, l'anima a Hazizikis. Ma non parlasti mai.
Aprivi bocca solo per offenderli o esasperarli o dire: Sì, sono stato io. Ho fallito e
me ne dispiace. Se non muoio, lo farò di nuovo. Gli altri parlarono. Uno a uno li
avevano arrestati tutti, non passava giorno senza che ti portassero questo o
quello per indurti a cedere, farti capire che la tua resistenza era inutile, e col volto
tumefatto, e lo sguardo ormai privo di volontà, ti dicevano: Basta, Alekos, non
serve più. Noi non ce l'abbiamo fatta, abbiamo detto ogni cosa. E tu, anche legato
al lettino, anche appeso al soffitto, rispondevi: Chi è costui? Cosa vuole?
Non lo conosco. A fine settembre, servendosi di ci che gli altri avevano dichiarato,
Hazizikis e Teofilojannacos prepararono una confessione e ti chiesero di firmarla.
Una firma, solo una firma, e nessuno ti avrebbe più tormentato. Gliela rifiutasti.
Ti fecero la falanga e durante la falanga ti chiesero la firma di nuovo. Gliela
rifiutasti di nuovo. Ti frustarono con la corda di metallo e, dopo averti frustato
con la corda di metallo, tentarono ancora. Gliela rifiutasti ancora. Gliela rifiutasti
sempre. Saresti morto sotto le torture se, una notte, non fosse apparso lui: il
brigadier generale Joannidis, il capo supremo dell'Esa.

Era una notte fredda, quell'ottobre faceva freddo ad Atene, e tu giacevi nudo sul
lettino dove t'avevano legato come sempre per le caviglie e pei polsi. Un filo di
sangue ti colava dalla bocca perché a pugni t'avevano spaccato un altro dente, il
tuo volto era una maschera bianca perché da settimane non dormivi e da giorni
non mangiavi. Respiravi a fatica, un rantolo in fondo alla gola, e malgrado ciò
Teofilojannacos urlava: Tanto, che tu parli o no, diremo che hai parlato! Che tu
firmi o no, diremo che hai firmato! Si spalancò la porta e Joannidis entrò col suo
passo marziale. Petto in fuori, braccia incrociate sulle reni, si fermò accanto al
lettino. Lo riconoscesti subito, sapevi chi era: non soltanto il capo supremo
dell'Esa ma l'uomo più forte della Grecia, tanto forte da esser temuto dallo stesso
Papadopulos. Taciturno, scontroso, burbero con chiunque lo avvicinasse,
incuteva terrore a tutti e, sebbene non facesse nulla per esser notato, anzi
amasse tenersi nell'ombra, tutti conoscevano la sua durezza, la sua
incorruttibilità, la sua ostinazione. Si diceva che, se lo avesse giudicato
necessario, avrebbe fucilato sua madre e distrutto il suo giardino di rose cioè
l'unico amore che si consentisse. Si diceva anche che disprezzasse apertamente il
tiranno, che solo a malincuore e per principio lo avesse aiutato a compiere il
golpe: impossibile del resto senza la sua partecipazione. Otto anni dopo, quando
l'ironia della storia e la commedia della vita lo avrebbero messo al tuo posto cioè
dietro le sbarre, mi sarei accorta con sbalordimento che lo rispettavi come si
rispetta un avversario piuttosto che un nemico e che per questo non riuscivi ad
odiarlo. Era nata quella notte la tua incapacità ad odiarlo? Era nata dalle parole
che aveva pronunciato dinanzi a Teofilojannacos? Il volto fermo, i gelidi occhi
azzurri fissi nei tuoi, Joannidis rimase qualche secondo in silenzio. Poi, con un
gesto, spinse da parte Teofilojannacos, e gli disse: Basta. Non toccatelo più.
Inutile insistere, non parlerà. Capita una volta su centomila che uno non parli. E
questo è il suo caso. Quindi allungò una mano verso di te e, restando intirizzito
nella sua imponente statura, non alterando un muscolo del suo volto cattivo, ti
agguantò un baffo e te lo tirò con lentezza: Io ti fucilerò, Panagulis.. Diciannove
giorni dopo, novembre era giunto coi venti del nord, incominciava il Processo.
CAPITOLO II

L'aula era piccola e puzzava perché nel corridoio adiacente si allineavano i
gabinetti con le fognature intasate. Sulla parete centrale c'era una icona che
raffigurava la Madonna e il Bambino nell'atto di benedire le vittime di quel cattivo
odore.
Sotto l'icona c'era il lungo banco coi giudici della Corte marziale, tutti scelti fra gli
ufficiali devoti al regime, e strozzati nell'uniforme verde bottiglia coi bottoni d'oro
e le mostrine rosse. A sinistra dei giudici c'era un magistrato calvo, dal volto
cicciuto e burroso, che avrebbe potuto far invalidare il processo perché non era
un militare: il rappresentante della Pubblica Accusa, Liappis. A destra c'era la
gabbia degli imputati: quattordici oltre a te. Perpendicolarmente alla gabbia e di
fronte alla Corte stava il tavolo dei difensori nominati all'ultimo momento e senza
le conclusioni dell'istruttoria. Gonfi di freddo e di paura, rannicchiati nelle toghe
nere, sembravano uccellini in bilico su un cavo elettrico. Uno pigolava: Ci
vorrebbe un rinvio, ci vorrebbe un rinvio! Dietro di loro c'era il tavolo dei
giornalisti, ammessi con parsimonia e con mille divieti: niente registratori per chi
rappresentava la radio, niente macchine da presa per chi rappresentava la Tv,
niente macchine fotografiche ammenoché il presidente ne desse un'autorizzazione
speciale. Infine c'era il recinto del pubblico per accedere al quale bisognava subire
una specie di esame: i familiari e gli amici degli imputati non potevano assistere
al processo. Entrasti quando tutti sedevano ai loro posti, in un silenzio di pietra.
Camminavi a testa alta, ammanettato e strizzato fra due poliziotti che ti
stringevano ai gomiti. Con loro raggiungesti la prima fila, proprio accanto al
parapetto della gabbia, e solo a quel punto ti tolsero le manette. Però senza
allentare la morsa ai gomiti. Indossavi una divisa da soldato, troppo larga per te e
scelta apposta per renderti goffo. Due ore prima ti avevano preso a schiaffi perché
non volevi indossarla e pretendevi l'abito borghese come gli altri quattordici. Te
l'avevano infilato sghignazzando e dicendo che ti stava proprio bene, soprattutto
al collo e alle spalle. Il collo ti ci sguazzava dentro, le spalle ci affogavano
addirittura. Eri dimagrito molto in tre mesi, avevi perso venti chili del tuo peso
normale, e lo si capiva anche dal volto consunto, dagli zigomi a fior di pelle.
Una parente che era riuscita a entrar di soppiatto ti cercava invano nella gabbia e
mormorava: Non lo vedo, non c'è, quando viene? Per i tuoi occhi erano due pozze
di vita e sorridevi con tanta fierezza, felice insolenza, che la gente durava fatica a
dedicarti un po di pietà. La gente del resto non ti conosceva, le voci del tuo

calvario non avevano mai oltrepassato i confini dell'Esa. Tutto ciò che la gente
sapeva di te non andava oltre il ritratto di un mercenario pavido e oscuro, d'un
delinquente comune che ha agito per intascar qualche soldo. Le informazioni,
insomma, fornite dalla stampa del regime, dai vili pennivendoli che in regime di
democrazia si presentano come maestri di coraggio e di libertà ma appena piomba
una dittatura ci vanno a letto come puttane, e per servirla calunniano gli stessi
che prima esaltavano, esaltano gli stessi che prima condannavano, sicché via a
descrivere con compiacimento le adunate oceaniche di piazza Venezia, le virtù
sportive del dittatore che a settantaquattr'anni nuota ancora nel fiume Yang Tze,
e quando la paura è passata, la democrazia ritornata, ricominciano daccapo,
impuniti, senza che gli succeda mai nulla visto che c'è bisogno di loro quanto dei
calzolai e dei becchini.
Cosa farebbero senza di loro i nuovi padroni? Come se la caverebbero senza di
loro i santoni del potere che comanda, che promette, che spaventa? Otto anni
dopo, da morto, t'avrebbero esaltato. E avrebbero scritto sui loro giornali at
natos, immortale, at natos. Ora invece ti insultavano. Tanto non c'era mica un
partito a proteggerti, un'ideologia organizzata, una religione riconosciuta.
Lessero il capo d'accusa: tentata sovversione dello Stato, tentato assassinio del
capo di Stato, possesso di esplosivi e di armi, diserzione. Ascoltasti senza battere
ciglio, senza rinunciare al sorriso. Era tutto vero e non ti proponevi di negarlo.
Ma poi dissero che avevi ammesso ogni colpa in un documento firmato col quale
denunciavi i tuoi complici, ed anche i più ciechi videro chi eri. perché ti videro
liberarti dalla morsa dei due poliziotti, balzare in piedi, levare l'indice verso i
giudici e: Bugiardi! La mia firma non è agli atti e voi lo sapete! Qualsiasi
documento che porti la mia firma è un falso di Hazizikis e di Teofilojannacos, e
voi lo sapete, servi della tirannia. Imputato, silenzio! Silenzio a chi? Imputato da
chi? Da voi? Voi che osate accusarmi, voi? Sono io che vi accuso, io che vi
denuncio, io che vi condanno per le vostre menzogne, le vostre sevizie! E cercasti
di aprire la camicia per mostrare almeno le cicatrici al petto, le pugnalate di
Teofilojannacos al costato. Imputato, non ci si spoglia in aula! Ci si spoglia, se è
necessario per fornire le prove! Quali prove?! Le prove delle sevizie che ho subito
durante l'interrogatorio! Pugnalate, bastonate col manganello e con la clava,
frustate con lo scudiscio d'acciaio! Silenzio! Bruciature di sigarette sui genitali!
Falanga sulla pianta dei piedi! Silenzio! Aghi nell'uretra, torture sessuali!

Silenzio! Imputato, silenzio! Soffocamento, calci, schiaffi! Anche prima di entrare
in quest'aula sono stato picchiato! E da novanta giorni, novanta, non mi tolgono
le manette! Neanche per dormire, neanche per urinare! Io chiedo, esigo, che un
medico esamini in quest'aula il mio corpo e accerti la verità di ciò che affermo!
Chiedo che un'inchiesta sia aperta nei riguardi del maggiore Hazizikis e del
maggiore Teofilojannacos per falso. Chiedo che i due e il vicecommissario Babalis,
il vicecommissario Malios, il fratello del vostro presidente, Costas Papadopulos,
gli ufficiali dell'Esa i cui nomi mi riserbo di fare, siano rinviati a giudizio per le
torture.
Chiedo... .
Imputato, queste cose non riguardano il processo!
Se non riguardano il processo, signori della Corte, ho ragione due volte a
chiamarvi servi del regime. Ti condannarono seduta stante a due anni di prigione
per offese alla Corte e alle autorità.
Il processo durò cinque giorni e da un punto di vista legale fu un'autentica farsa.
I testimoni erano gli stessi che avevano fatto le indagini o ti avevano torturato: si
succedevano in fretta, confermando i verbali, e gli avvocati non osavano neanche
contestarli. A tua difesa avevano citato solo due o tre persone che prima di
deporre furono minacciate, sicché sulla pedana dissero tutto ci che voleva
Liappis. Nel timore di scontentare il tiranno, Liappis esasperava il suo ruolo e
ogni suo intervento mirava a screditarti, sostenere che eri un mercenario al
servizio degli stranieri, in particolare di Policarpo Gheorgazis, e inoltre un
bandito, un avventuriero, un attaccabrighe detestato da tutti. Per provarlo
ricorreva alla confessione di cui avevi negato l'autenticità e di cui il tuo difensore
pregava invano di prendere atto. Il tuo difensore non poteva comunicare con te,
gli consentivano di avvicinarti solo qualche minuto durante l'udienza e mentre i
due poliziotti al tuo fianco ascoltavano, commentavano, disturbavano. Presto, poi,
ai due se ne aggiunse un terzo che ti stava alle spalle e non ti lasciava parlare.
Eppure non rinunciavi mai all'atteggiamento che t'eri imposto, e c'era sempre un
momento in cui riuscivi a metterti in piedi per protestare, smascherare,
sbugiardare, accendendo uno stupore quasi ammirato nei giudici: s'era mai visto
un uomo che rischia la pena di morte trasformarsi da accusato in accusatore con
tanta fermezza, con tanta lucidità? Ma era pazzo o suicida, costui, non capiva di
sollecitare la sua condanna? Lo capivi, ovvio, lo sapevi che con quel

comportamento ti giocavi la vita, la buttavi sul tavolo dei giudici come un gettone
sul tavolo della roulette: rouge ou noir, et rien ne va plus. Ma non giocavi alla
cieca, giocavi scientificamente, calcolando con acume e distacco le conseguenze
di ogni gesto, di ogni frase, dosando ogni bravata con uguale dose di raziocinio e
coraggio, impulso ed astuzia: da gran giocatore che al tavolo della roulette non
s'accosta per vincere misere somme. Me lo avresti spiegato anni dopo. D'accordo,
m'avresti spiegato, avevi solo una remotissima probabilità di sopravvivere.
Diciamo l'uno per cento. Al novantanove per cento t'avrebbero fucilato.
Ma proprio per questo dovevi puntare di grosso, seguendo un sistema che
sbalordisse e turbasse, che gettasse nei tuoi accusatori il seme del dubbio: è così
sicuro di se, che abbia ragione? Così ogni giorno diventavi più deciso, più
aggressivo, ti ergevi più fiero sugli altri imputati che invece si umiliavano
negando, giustificando, magari accusandosi fra loro o gettando le colpe su di te. E
la speranza di guadagnare quell'uno per cento cresceva, cresceva.
Ma poi venne il giorno fissato per la tua apologia e la requisitoria di Liappis, e
accadde qualcosa che non avevi previsto: ti innamorasti dell'idea di morire.
continuare il gioco perché? Per vederti infliggere ci che avresti potuto esigere
orgogliosamente, per sostenere il ruolo di vittima? Bisogna sempre rifiutarlo il
ruolo di vittima, non si ottiene mai nulla col ruolo di vittima, ed eccola qui la
grande occasione agognata: dimostrare al mondo chi eri e in che cosa credevi. La
stampa del regime non ne avrebbe tenuto conto, ovvio, ma i giornalisti stranieri
sì. Loro non rischiavano nulla a disubbidire, sicché l'avrebbero raccontata la
verità su quest'uomo che viveva e moriva da uomo, senza piegarsi, senza
spaventarsi, senza rassegnarsi, predicando l'unico bene possibile, l'unico bene
che conta, la libertà. E forse l'avrebbe raccontata anche qualcun altro: nel tuo
paese. Qualche giudice, qualche avvocato, qualche poliziotto pentito. E molti
avrebbero saputo. E una volta morto t'avrebbero amato, magari imitato. E non
saresti stato più solo. Imputato, alzatevi! Il presidente ti chiamò.
Secondo la prassi, l'imputato doveva parlare prima della Pubblica Accusa. I tre
poliziotti allentarono la morsa. Ti alzasti.
Guardasti i giudici in faccia, uno a uno. E la tua voce si levò ferma, sonora.
Bellissima.
Signori della Corte marziale, sarò breve. Non vi annoierò.

Non insister nemmeno sull'interrogatorio infame che ho subito: ciò che ho già
detto su quello mi basta. Prima di esaminare le imputazioni che mi vengono
mosse, preferisco insistere su un altro aspetto della vergognosa istruttoria che mi
riguarda: il vostro tentativo di sostenere l'accusa con false prove, elementi non
veri, testimonianze precostituite o imposte ai testimoni di entrambe le parti.
Questa mia apologia infatti non vuole essere un'autodifesa, e non lo sarà. Vuole
essere piuttosto una requisitoria, e lo sarà: partendo proprio dal falso documento
che mi viene attribuito e che è stato il filo conduttore dell'intero processo.
Documento importante, a mio avviso, perché tipico di tutti i processi che si
svolgono nei paesi dove la legge viene uccisa insieme alla libertà. Non siete soli in
questa ignominia, no. Sicuramente, mentre vi parlo, patrioti di altri paesi senza
legge e senza libertà vengono giudicati da una Corte marziale asservita a un
regime tirannico e condannati sulle basi di false prove, elementi non veri,
testimonianze precostituite o imposte ai testimoni, confessioni simili alla
confessione che io non ho mai reso e mai firmato: come dimostra il fatto che essa
non porta la mia firma bensì quella di due aguzzini che si chiamano Hazizikis e
Teofilojannacos. Aguzzini privi di rispetto per la grammatica, oltretutto. Stanotte
ho potuto leggere quei fogli, infine, e sarebbe difficile dire se ho rabbrividito di più
per le menzogne o per gli errori sfondoni grammaticali che essi contengono. Se li
avessi visti prima, vi assicuro, anche in stato di coma avrei suggerito qualche
correzione. Ahimè, di quali analfabeti dispone questo regime! Si direbbe che
l'ignoranza vada di pari passo con la crudeltà.
Ebbene, signori della Corte marziale, voi sapete benissimo che servirsi di un
documento falso è inaccettabile sia da un lato morale che da un lato legale. E
poiché questo processo era stato costruito su tale documento, io avrei avuto il
diritto di invalidarlo. Non l'ho invalidato perché non volevo indurvi a credere che
avessi paura di affrontare l'accusa. Chiaro che accetto l'accusa. Non l'ho mai
respinta, io. Ne durante l'interrogatorio ne dinanzi a voi. E ora ripeto con orgoglio:
sì, ho sistemato io gli esplosivi, ho fatto saltare io le due mine. Ciò allo scopo di
uccidere colui che chiamate presidente. E mi dolgo soltanto di non esser riuscito
ad ucciderlo. Da tre mesi quella è la mia pena più grande, da tre mesi mi chiedo
con dolore dove ho sbagliato e darei l'anima per tornare indietro, riuscirvi. Quindi
non è l'accusa in se che provoca la mia indignazione: è il fatto che attraverso quei
fogli si tenti di infangarmi dichiarando che sarei stato io a coinvolgere gli altri

imputati, a fare i nomi che sono stati pronunciati in quest'aula. Ad esempio il
nome del ministro cipriota Policarpo Gheorgazis.
L'infamia sta qui, ed anche la sua tipicità. Per rafforzarla i miei accusatori hanno
perfino detto che la mia fedina penale era sporca, che io ero un teddy boy da
ragazzo, un malvivente da adulto, un ladrone e un mercenario. La mia fedina
penale è dinanzi a voi, signori della Corte marziale, e potete controllare su quella
che io non fui mai un teddy boy, ne un malvivente ne un ladrone ne un
mercenario. Fui sempre, e sono, un combattente che lotta per una Grecia
migliore, un domani migliore, una società insomma che creda nell'Uomo. Se io mi
trovo qui è perché credo nell'Uomo. E credere nell'Uomo significa credere nella
sua libertà. Libertà di pensiero, di parola, di critica, di opposizione: tutto ciò che il
golpe fascista di Papadopulos ha eliminato un anno fa. Ed eccoci alla prima
accusa che mi viene mossa.
La prima accusa, anche in ordine di importanza, è tentata sovversione dello
Stato: articolo 509 del Codice Penale. E non è paradossale che a muoverla contro
di me siano proprio coloro che il 21 aprile 1967 infransero l'articolo 509? Chi
dovrebbe stare dunque in questa gabbia? Io o loro? Qualsiasi cittadino con un po
di cervello e un po di coglioni vi risponderebbe: loro. E aggiungerebbe ciò che ora
aggiungo: diventando un fuorilegge, rifiutandomi di riconoscere l'autorità del
tiranno, io ho rispettato e non offeso l'articolo 509. Ma non m'illudo d'esser
compreso da voi su tale punto perché, se il golpe fosse fallito, anche voi sareste in
questa gabbia, signori della Corte: non solo i capi della Giunta. Perciò non dico
altro, su questo, e passo alla seconda accusa: diserzione. E vero: ho disertato.
Qualche giorno dopo il golpe ho abbandonato la mia unità e sono andato
all'estero con un passaporto falso. Avrei dovuto farlo lo stesso giorno del golpe,
non dopo. Ma in quel senso devo essere assolto: il giorno del golpe la situazione
era assai tesa con la Turchia e, se fosse scoppiata la guerra, il mio dovere di greco
sarebbe stato combattere e non disertare.
Proprio perché la guerra non scoppiò mi affrettai a compiere l'altro dovere:
disertare. Signori della Corte, servire l'esercito di una dittatura, sì che sarebbe
stato un tradimento. Scelsi d'essere disertore, dunque, sono fiero della mia scelta,
e detto ciò eccoci all'accusa che a voi preme di più: tentato omicidio del capo di
Stato. Incomincerò affermando che contrariamente alle ciance narrate dai miei
aguzzini, io non amo la violenza.

La odio. Non mi piace nemmeno l'assassinio politico. Quando esso avviene in un
paese dove esiste un libero Parlamento e ai cittadini è data la libertà di
esprimersi, di opporsi, di pensare in maniera diversa, io lo condanno con disgusto
e con ira. Ma quando un governo si impone con la violenza e con la violenza
impedisce ai cittadini di esprimersi, di opporsi, addirittura di pensare, allora
ricorrere alla violenza è una necessità. Anzi un imperativo. Gesù Cristo e Gandhi
ve lo spiegherebbero meglio di me. Non c'è altra via, e che io non vi sia riuscito
non conta. Altri seguiranno. E riusciranno. Preparatevi e tremate.
No, signor presidente, non mi interrompa: la prego. Sto arrivando alla terza
accusa e presto potrà gridare ai quattro venti che la sua uniforme non trema.
Terza accusa: possesso di esplosivi. Che altro posso dire oltre a ciò che vi ho già
detto? Ho spiegato che solo due dei miei coimputati sapevano che mi accingevo a
fare un attentato, ma non sapevano quale attentato. Mi sono assunto la
responsabilità anche delle due bombe scoppiate la stessa mattina al parco e allo
stadio. Ho chiarito che esse avevano soltanto uno scopo dimostrativo, di
ammonimento, che per questo erano state fatte esplodere in modo da non
provocare vittime tra la popolazione. Se i miei coimputati hanno detto cose
diverse nei documenti che hanno firmato, non conta. Si tratta di documenti
estorti con le torture, se io torturassi Hazizikis e Teofilojannacos gli farei dire
perfino che la loro mamma è una prostituta e loro padre un frocio. E suppongo
che a sistemi simili si debba la calunnia che riguarda Policarpo Gheorgazis. Lo
so, Papadopulos darebbe molto perché la calunnia fosse una verità. Joannidis lo
stesso. Così avrebbero il pretesto per invadere Cipro, stroncarne l'indipendenza
come qui hanno stroncato la democrazia. Ma devono rassegnarsi entrambi:
nessun uomo politico straniero è implicato nella lotta che rappresento. Essa
avviene qui in patria, signori, non all'estero: a ragione il mio gruppo si chiama
Resistenza Greca. E se Policarpo Gheorgazis lavorasse per Resistenza Greca, per
me, sarebbe la prima volta che un semplice soldato chiama alle armi un ministro
della Difesa. Ma allora, obietterete, da dove veniva questo esplosivo? Signori della
Corte marziale, non ve lo dirò. Non l'ho confessato sotto le sevizie più atroci, vi
aspettate forse che lo confessi in un'apologia? Quel segreto morirà con me. E con
ci ho finito. Mi resta solo da aggiungere una cosa personale. Se volete, un piccolo
atto di orgoglio personale. I vostri testimoni hanno detto che io sono un uomo
egoista. Ebbene, se lo fossi, se lo fossi stato, sarei rimasto tranquillamente

all'estero. Invece dall'estero sono tornato a rischiare e a lottare. Conoscevo i
pericoli che mi attendevano. Proprio come, ora, conosco la pena che mi
infliggerete. Io lo so, infatti, che mi condannerete a morte. Ma non mi tiro
indietro, signori della Corte marziale.
E anzi accetto fin d'ora questa condanna. perché il canto del cigno di un vero
combattente è il rantolo che egli emette colpito dal plotone di esecuzione di una
tirannia.
Nell'aula cadde un silenzio di marmo. Pietrificati i giudici ti fissavano senza
reagire e ci volle qualche minuto perché il presidente ritrovasse la voce, invitasse
Liappis a tenere la sua requisitoria. Liappis parlò a lungo e senza tener conto di ci
che avevi detto, chiedendo la condanna a morte per te e per un altro imputato,
Elefterios Verivakis, l'ergastolo per Nicos, pene pesantissime per quasi tutti, poi il
processo venne sospeso per una settimana col pretesto che un giudice aveva la
febbre. Non sapevano più cosa fare. Si diceva che dopo la tua apologia i membri
della Corte marziale fossero in disaccordo tra loro, che lo stesso Papadopulos
esitasse a fucilarti perché comprendeva l'impopolarità che gliene sarebbe
derivata, che in seguito a questo si svolgessero riunioni angosciose per convincere
Joannidis notoriamente deciso a non farti grazia della vita. E così giunse la
domenica del 17 novembre 1968, l'udienza finale. Tu eri molto tranquillo, durante
quei sette giorni e quelle sette notti non avevi avuto un ripensamento, t'eri
semmai criticato per non aver detto di più e avevi scritto una poesia che
inneggiava alla morte: Son partite le bianche colombe / il cielo s'è riempito di
corvi / uccelli neri / Selvaggi frullii di terrore / hanno nascosto l'azzurro / gli
ultimi istanti / gettate terra nella fossa / affinché le bianche colombe ritornino /
Terra presto terra / Ma non vogliono soltanto terra le fosse / vogliono ceneri e
sangue / vogliono i morti / gettateci morti / Impastate la terra di sangue /
perché le bianche colombe ritornino / ci vuole molto sangue. Così entrasti
in aula col sorriso di sempre, la sicurezza di sempre, e la tua voce non si incrinò
neanche un poco dopo che il presidente ti chiese se avevi nulla da aggiungere e ti
alzasti per pronunciare le parole che avrebbero liquidato qualsiasi probabilità di
salvezza. Signori della Corte marziale, nella sua requisitoria il procuratore Liappis
ha citato la dea Temide: la dea della giustizia. Ma se dobbiamo ricorrere alla
mitologia, dobbiamo farlo senza gli errori in cui egli cade appena apre bocca. Il
vostro procuratore generale è un tangano ignorante, signori, non sa nemmeno

che esistono due Temidi: quella che, tenendo nella mano destra la bilancia e nella
mano sinistra la spada, guarda la bilancia con occhi sereni; e quella che, tenendo
nella mano sinistra la bilancia e nella mano destra la spada, guarda la spada con
occhi bendati. So che voi guarderete la spada con occhi bendati. Questo è un
processo politico: tutti i delitti che mi sono stati attribuiti, dalla sovversione alla
diserzione, dal possesso di esplosivi all'attentato, fanno parte della stessa accusa
che è politica. Inoltre, signori della Corte marziale, non potete permettervi
tenerezze. Ciascuno di voi s'è giocato la testa il 21 aprile 1967: non condannare
me significherebbe condannare voi stessi, riconoscere le vostre colpe. Lo capisco
così bene che non avanzo un'attenuante capace di indurvi a un verdetto più lieve,
ed anzi ripeto: sono io che invoco la pena di morte sollecitata dal procuratore
generale. Ch'io sia fucilato: servirà a chiarire anche moralmente la mia lotta, la
lotta di chiunque si opponga all'immondo regime che oggi schiaccia la Grecia.
E il verdetto fu: pena di morte per tentata sovversione dello Stato, pena di morte
per diserzione, quindici anni di carcere per tentato omicidio del capo di Stato, tre
anni di carcere per possesso di esplosivi e di armi, oltre ai due anni già inflitti per
offese alla Corte e alle Autorità. Totale, due volte a morte e venti anni di prigione.
A Verivakis invece fu inflitto l'ergastolo. Agli altri, condanne fra i ventiquattro e
quattro anni di carcere. Il generale Fedone Ghizikis, comandante della piazza
d'Atene, firmò subito i fogli necessari a eseguire la sentenza.
Non s'era mosso un muscolo sulla tua faccia. Non avevi neanche cambiato colore.
E dopo, piegando le labbra in una smorfia ironica, avevi chiesto al tuo avvocato:
Come si fa ad essere fucilati due volte? Poi, senza aspettare risposta, avevi
allungato le braccia verso i poliziotti perché ti infilassero di nuovo le manette. Ti
sentivi stranamente sollevato, mi avresti detto anni dopo, quasi contento, e non
perché tu fossi stanco di vivere ma perché eri stanco di soffrire. Di solito si è
gentili con chi va a morire, gli si dà un materasso decente, gli si offre buon cibo e
magari un cognacchino, gli si manda il prete perché ci chiacchieri un po, gli si
permette di scrivere ai familiari e agli amici. E, soprattutto, non lo si picchia più.
Niente più sevizie, niente più tormenti. Ma che non sarebbe stato così lo capisti
appena ti riportarono all'Esa e ti buttarono dentro quella cella priva di finestre e
di branda perché, ad aspettarti lì dentro, c'erano tre ufficiali con lo scudiscio e,
subito, arrivò Teofilojannacos con Malios e Babalis. Non abbiamo rispetto per la

grammatica, eh? Scriviamo con gli sfondoni, eh? Siamo analfabeti, siamo cretini,
eh? Ora vedrai se siamo analfabeti, cretini, perché ti interrogheremo come non ti
abbiamo mai interrogato! E nessuno saprà se sei morto qui dentro o dinanzi al
plotone di esecuzione. Poi lo scudiscio si abbatte sulla tua schiena, sui tuoi
fianchi, sulle tue gambe: volevano sapere se un certo Anghelis aveva partecipato
al complotto per uccidere Papadopulos. Svenisti quasi subito e, quando
riacquistasti i sensi, ti parve di sognare: dinanzi a te stava Hazizikis col suo
completo blu, la sua cravatta ben annodata, la sua faccia ben sbarbata.
Buongiorno, Socrate. O devo chiamarti Demostene? No, il paragone con Socrate
mi sembra più giusto. Era anche lui un uomo sapiente, pronunciò anche lui una
apologia impressionante. Congratulazioni, la tua arte oratoria mi ha quasi
commosso. Chi avrebbe detto che tu ne fossi capace? Be', in fondo è utile che i
grandi come voi vengano sottoposti a giudizio e condannati a bere la cicuta:
altrimenti la storia non verrebbe a sapere che esistettero. Passerò ai posteri
anch'io, nuovo Meleto? Ti venne una voglia di piangere. Vattene, Hazizikis. E per
incominciare, cittadini Ateniesi, discuter le accuse che per menzogna mi furono
rivolte, le calunnie con cui Meleto mi trascinò in questo tribunale... Vedi, sono
uno sgrammaticato ma ho memoria. Potrei citarti anche il discorso
sull'immortalità dell'anima. La voglia di piangere crebbe. Vattene, Hazizikis. Se la
morte fosse la fine di tutto, o Simmia, allora pei malvagi fortuna inaspettata
sarebbe morire, liberarsi del corpo, giacche insieme ad esso si libererebbe anche
l'anima che commise le malvagità.
Vattene, Hazizikis. Non prima di averti posto qualche domandina, o Socrate.
Dovresti conoscermi, ormai: non crederai che sia qui per divertirmi, che mi sia
scomodato per venirti a parlare di filosofia. Ma che fai? Piangi? Chi l'avrebbe mai
detto! Sai piangere! Se piangi, non puoi rispondermi. E devi rispondermi, caro,
perché voglio sapere... Allora ti girasti a mostrargli un volto rigato di lacrime.
Hazizikis! Io non morirò, Hazizikis! E un giorno far piangere te, Hazizikis! perché
un giorno finirai in prigione, Hazizikis! E mentre sarai in prigione ti scoperò la
moglie, Hazizikis! Te la scoperò e te la riscoperò fino a farle urinare sangue, fino a
farle perdere le budella, Hazizikis! E tu non potrai farci nulla fuorché piangere, te
lo giuro. Impossibile, caro. Non sono sposato, lo sai. Dimmi piuttosto se...
Hazizikis! Io ti ammazzo, Hazizikis! E va bene, me ne andrò. Delegherò la mia
domanda a chi non bada per il sottile. Tanto devi morire. E ti lasci nelle mani dei

tre ufficiali che stavolta ti frustarono a sangue per scoprire se nel complotto c'era
un certo Costantopulos.
Le ventiquattrore seguenti, invece, non accadde nulla. La mattina dopo era il 20
novembre e ti imbarcarono su una motovedetta. Ti portarono a Egina dove
aspettasti per tre giorni e tre notti d'essere fucilato.
Avevano preso molte precauzioni a Egina. Avevano scelto un casotto disabitato
nell'ala vecchia del carcere, all'insaputa di tutti, ti avevano fatto entrare da un
ingresso secondario nel più assoluto silenzio, e nel minuscolo cortile avevano
messo venti guardie col mitra, nell'atrio del casotto altre cinque, nel corridoio
altre nove, nella tua cella altre tre. Trentasette uomini armati per un uomo solo e
ammanettato. Sorridesti e chiamasti un sergente perché ti togliesse almeno per
un po le manette. Il sergente rispose che era impossibile: l'ordine più categorico
riguardava proprio le manette. Appena ha i polsi liberi, si scaglia come una belva.
E un criminale molto, molto pericoloso. L'unica concessione si riduceva all'uscio
della cella: poteva restare aperto. Ma in realtà non si trattava di una concessione
bensì d'una misura di sicurezza: se tu avessi aggredito una delle tre guardie,
l'uscio aperto avrebbe permesso a quelle nel corridoio e nell'atrio di accorrere in
fretta. Ma aggredirle come, con che cosa? La cella era più vuota di un guscio
vuoto; non t'avevano dato nemmeno una branda, un materasso, per riposare
dovevi accovacciarti sul pavimento.
Entrò un ufficiale con un foglio in mano. Non c'era tempo da perdere, disse, in
base alla legge marziale e ammenoche non intervenisse il presidente della
Repubblica, la sentenza andava eseguita entro settantadue ore dal momento in
cui era stata pronunciata. Quarantotto ore erano già trascorse, ecco dunque la
domanda di grazia: non avevi che firmarla. Prendesti il foglio, lo leggesti, glielo
restituisti, calmo: No. L'ufficiale spalancò gli occhi: Non... non firmi la domanda
di grazia? Ho capito bene? Hai capito benissimo, papadopulaki, piccolo
Papadopulos. Non la firmo. L'ufficiale insistette: Ascoltami, Panagulis. Forse pensi
che sia inutile, ma ti sbagli. Sono autorizzato a riferirti che il presidente è
disposto a mutare la pena capitale in ergastolo.. Ci credo. Gli piacerebbe
raccontare al mondo che proprio a lui ho chiesto la vita in regalo. Gli farebbe
comodo non fucilarmi. Farebbe più comodo a te, Panagulis. Firma. No. Se non
firmi, non ci sono speranze. Lo so. L'ufficiale rimise il foglio in tasca. Sembrava

sinceramente addolorato. Sembrava anche incerto se andarsene o no, quasi
cercasse le parole per convincerti e non le trovasse. Vuoi...
vuoi pensarci qualche minuto? No. Allora è per domattina alle cinque e mezzo
disse con stizza. E se ne andò scuotendo la testa. In un angolo una delle tre
guardie gemeva: Oh, no! Oh, no!.
Era un ragazzo dal volto quasi imberbe, l'uniforme ancora fresca di magazzino.
Aveva seguito la scena con la bocca spalancata e ora ti guardava come se stesse
per piangere. Gli andasti vicino: Papadopulaki, che c'è? Io.... Volevi anche tu che
firmassi? Sì! Io sì! Non hai udito quel che ho risposto all'ufficiale?.Sì, ma....Niente
ma, papadopulaki. Quando è necessario morire, si muore. Sì, però a me dispiace
lo stesso.
Anche a me disse la seconda guardia. Anche a me disse la terza. E ci ti dette un
gran turbamento: erano secoli che un essere umano non si dimostrava cattivo
con te. In quei secoli c'era stata soltanto la vecchia dell'ospedale militare dove ti
portavano quando entravi in stato di coma per le torture e i digiuni, quella che
puliva i gabinetti e che un giorno, vedendoti legato per le mani e pei piedi, s'era
avvicinata col bussolotto, t'aveva accarezzato con dolcezza la fronte: Povero
Alekos Povera creaturina! Guarda come ti hanno conciato! E sei sempre solo, non
parli mai con nessuno. Stasera vengo qui e mi siedo accanto a te e mi racconti le
cose, eh? Ma un poliziotto l'aveva ghermita, portata via col suo bussolotto, e non
l'avevi rivista più. Ti raschiasti la gola per frenare la commozione: Venite tutti
qua, papadopulaki. Discutiamo un po questa faccenda. E, quando furono intorno
a te, incominciasti a spiegargli perché non dovevano essere tristi, ne inerti,
perché dovevano battersi e fare in modo che la tua morte servisse a qualcosa. Gli
declamasti perfino alcune poesie sulla libertà, e loro ascoltavano rispettosi,
compunti: se una poesia gli piaceva, ne scrivevano i versi sul pacchetto delle
sigarette. Così non ce ne dimentichiamo. Erano tutti e tre molto giovani, soldatini
di leva giunti da villaggi lontani, di te sapevano soltanto che avevi tentato di
ammazzare il tiranno, e la loro ignoranza era così innocente che duravi fatica ad
esprimerti, trovar le parole giuste per essere compreso. In fondo non importa che
mi sia andata male, mi spiego, papadopulaki? Importa che uno ci abbia provato e
che uno dopo ci riprovi, e riesca, perché quando cammini per strada e non dai
noia ad anima viva, e passa il tale e ti prende a schiaffi, tu cosa fai? Gli
restituisco lo schiaffo! Bravo. E se lui ti piglia a botte, sempre senza ragione, tu

cosa fai? Lo piglio a botte anch'io. Bravo. E se lui ti proibisce di esprimere quello
che pensi, e ti mette in prigione perché la pensi in modo diverso, e la legge non ti
difende in quanto non c'è più legge, sopprimere la libertà significa sopprimere
anche la legge, tu che fai? Io, ecco, io... Tu lo ammazzi. Non hai scelta. E una
cosa terribile ammazzare, lo so, ma nelle tirannie diventa un diritto, anzi un
dovere. La libertà è un dovere prima che un diritto. Alla fine un sottufficiale nel
corridoio si infastidì e ti ingiunse di star zitto: Piantala, Panagulis! Cerchi
discepoli in punto di morte? Per un altro prese le tue parti, piantala tu brutto
porco o ti spacco il muso, e venne a offrirti una sigaretta. Il turbamento riprese.
Possibile che all'improvviso fossero tanto gentili con te? Gli esseri umani son ben
bizzarri: finché ti aspetti qualcosa da loro non ti danno nulla, quando non ti
aspetti più nulla ti danno tutto. Tutto? Be', a volte un'ingiuria e una sigaretta
sono tutto.
Verso le cinque del pomeriggio il turno dei tre soldatini finì e quando partirono
sentisti un gran vuoto: chissà che carogne ora ti avrebbero messo. Invece i nuovi
tre erano uguali: uguale la giovinezza, uguale l'innocenza, uguale la mestizia. E il
turbamento di prima diventò una commozione che sfociò in spavalderia: Avanti,
papadopulaki, guadagnatevi il pane! Chi canta qui? Ti indicarono un ragazzotto
grasso, goffo, con le mani di contadino: Lui, lui! E nel coro della chiesa del suo
villaggio, lui! Davvero? Allora cantami il requiem della Messa funebre. No! Quello
no! Cantalo, ho detto! Ti ubbidì e avresti preferito che non lo facesse perché
ascoltarlo dava un crampo allo stomaco. Che egli riposi in pace, o Signore! Che la
sua sepoltura sia degna, o Signore! Terra che torna alla terra! Accogli il tuo servo,
o Signore! Lo interrompesti: Non mi piace il tuo requiem, papadopulaki. Non mi
piacciono le parole servo del Signore. Devi promettermi che quando lo canterai
per me non mi chiamerai servo del Signore. Nessuno è servo di nessuno.
Nemmeno del Signore. Capito? Il ragazzo annuì, confuso. Ma il crampo non
passò. Coraggio, papadopulaki, cantiamo qualcosa di meglio! Chi conosce n
ragazzo che sorride? Io! Io! Io! .Bene, allora! Insieme! "Cosa potrà mai guarire / il
mio cuore spezzato / ho perso il mio ragazzo dal dolce sorriso / non lo vedrò mai
più / maledetta l'ora, maledetto il momento / in cui i nostri nemici hanno ucciso
/ il mio ragazzo dal dolce sorriso..." Cantasti con loro. Ma, di nuovo, il crampo
non passò. Per tutta la sera cantasti, scherzasti, predicasti cercando di non
pensare a quel requiem, di non pensare a quel crampo, ma il crampo non

passava. V'erano momenti, anzi, in cui aumentava. Ed erano quelli in cui ti
ponevi le domande più assurde o ti rifugiavi nelle speranze più insensate: dove
sarebbe stato, come sarebbe stato. T'era parso di udire che sarebbe stato al lato
opposto dell'isola, nel poligono di tiro della Marina, ma ignoravi se questo
poligono si trovasse in un cortile o all'aperto e speravi che fosse all'aperto, che
non piovesse perché una volta avevi visto un film dove fucilavano un partigiano
sotto la pioggia. T'aveva fatto impressione perché il partigiano cadeva nel fango.
Speravi anche che non ti sparassero in faccia, ti chiedevi anche come dire ai
soldati di spararti al cuore e non in faccia, e infine ti chiedevi se avresti sentito
male. Questo era stupido, lo capivi, non c'è paragone tra il male che si sente a
esser torturati e il male che si può sentire a esser fucilati, ci vogliono almeno
cinquanta secondi per avvertire il bruciore di una pallottola dentro la carne e
passati quelli sei morto: lo avevi letto da qualche parte, o forse te l'aveva
raccontato qualcuno che era stato alla guerra.
Per la curiosità rimaneva e dovevi fare uno sforzo per superarla, meditare su cose
più serie, ad esempio su quello che avresti detto prima che il plotone facesse
fuoco. Non bastava dire viva la libertà, bisognava aggiungere qualcosa, oppure
dire una frase che contenesse tutto libertà compresa. Qualcosa, ecco, come il
grido dell'ufficiale italiano che nel '44 i tedeschi avevano fucilato a Cefalonia: Io
sono un uomo! Ti passava il crampo allo stomaco all'idea di gridargli Io sono un
uomo! Ma subito dopo tornava perché ad alimentare quel crampo non era la frase
che avresti gridato o non gridato, il male che avresti sentito o non sentito, la
pioggia che t'avrebbe bagnato o non bagnato: era il fatto di dover morire alla tale
ora del tale giorno. Una cosa è morire sotto le torture o alla guerra o su una mina
che salta, cioè con un margine di imprevisto, una cosa è morire sapendo di dover
morire alla tale ora del tale giorno con la programmaticità di un treno che parte.
Ancora una notte e poi avresti cessato di esistere. Ebbene, malgrado la tua forza e
la tua fede e la tua fierezza non sapevi rassegnarti all'idea di cessare d'esistere.
Non riuscivi neanche a immaginare cosa significasse, porre un tale interrogativo
era peggio che tentar di stabilire se l'universo fosse finito o infinito, se il tempo
fosse tempo e lo spazio fosse spazio, se Dio esistesse o no, e se Dio e il tempo e lo
spazio avessero avuto un inizio o no, se prima dell'inizio ci fosse stato
qualcos'altro o il nulla, e cosa sia il nulla. Il nulla cos'è? Forse è ciò che si è o non
si è più quando abbiamo cessato di esistere, fucilati alla tale ora del tale giorno,

dopo un giorno e una notte trascorsi a recitare la parte del coraggioso pur avendo
un crampo allo stomaco.
Col buio incominciasti ad essere stanco. Lo sforzo di dividerti in due, da un lato
la pena di quelle riflessioni segrete e dall'altro la commedia dell'indifferenza
orgogliosa, ti avevano consumato. Ti pesavano le gambe, le manette, le palpebre.
Avevi un gran sonno. E più ne avevi, meno volevi dormire. Le guardie dicevano:
Riposati, Alekos. perché non riposi? Ma ogni volta che lo dicevano rispondevi con
sgarbo. Non era incredibile che a un uomo sul punto di riposare per sempre si
dicesse riposati perché non riposi? Non era una pazzia addormentarsi avendo
così poco da vivere? Per non cedere al sonno camminavi su e giù, su e giù, evitavi
perfino di stare seduto.
Poi, verso le tre del mattino, la stanchezza ti vinse insieme al bisogno di chiudere
gli occhi. Ti stendesti sul pavimento raccomandando alle guardie di svegliarti
dopo dieci minuti, non più di dieci minuti, e ti addormentasti di colpo. Facesti
quel sogno. Ti sembrava d'essere un seme, e a poco a poco il seme raddoppiava,
triplicava, decuplicava diventando così gonfio e così grosso che il suo guscio non
reggeva più, con un boato scrosciante scoppiava inondando la terra di mille semi,
e ciascuno di questi semi si trasformava svelto in un fiore, poi in un frutto, poi
daccapo in un seme che a sua volta raddoppiava, triplicava, decuplicava, per
scoppiare alla fine inondando la terra con una miriade di semi. E a quel punto
accadeva una cosa stranissima. Accadeva che da un fiore sbocciava una donna, e
da un altro fiore un'altra donna, e da un altro fiore ancora un'altra donna ancora,
e tu volevi possederle tutte ma pensavi oddio come faccio, non ne ho il tempo, fra
poco arriva il plotone di esecuzione e mi porta via, bisogna far presto, sicché
ghermivi quella più vicina, senza guardarla in faccia, senza chiederti se ti
piacesse, senza chiederle se ti accettasse, e la penetravi, famelicamente, con
fretta e con cattiveria, poi la buttavi via e ne prendevi una seconda, allo stesso
modo, la penetravi allo stesso modo, la buttavi via allo stesso modo per
agguantarne una terza, e una quarta, e una quinta, e una sesta, fino a perderne
il conto, ogni colpo di reni una donna, e l'ansia di doverti interrompere perché
qualcuno ti svegliava, ti scrollava le spalle e ti svegliava. Chi? Guardasti tra le
ciglia. Era il soldatino goffo che cantava nel coro della chiesa: Sono le cinque,
Alekos. Hai dormito due ore.

Balzasti in piedi. Scrutasti le guardie una a una, con collera sorda. Due ore! Li
avevi pregati di svegliarti dopo dieci minuti e t'avevano lasciato dormire due ore!
Una parte di te avrebbe voluto picchiarli, singhiozzare e picchiarli gridando
sciagurati, incoscienti, ladri; una parte invece capiva che t'avevano disubbidito
per affetto e bontà, lascialo dormire poverino, ma ha detto dieci minuti, lascialo
dormire lo stesso, e con sforzo ti dominasti, con tristezza bisbigliasti: Stronzi. Mi
avete rubato due ore di vita. Poi dicesti che volevi sciacquarti la faccia, fare i tuoi
bisogni, e ti accompagnarono nel corridoio dove c'era una cannella e un cesso
rudimentale. Dinanzi a tutti, impacciato dalle manette, facesti i tuoi bisogni, ti
lavasti, e furono le cinque e venti. Quindi tornasti in cella, chiedesti un caffè, lo
bevesti, e furono le cinque e venticinque. Altri cinque minuti da vivere dunque. E
cosa pensa, negli ultimi cinque minuti, un uomo che verrà fucilato? Molti anni
dopo, quando ti posi questa domanda, rispondesti che esprimerlo era
difficilissimo, infatti avevi faticato parecchio per rendere quelle sensazioni in una
poesia, però v'erano tre scrittori che avevano reso l'idea con concetti in cui t'eri
riconosciuto: Dostojevskij nell'idiota, Camus nello straniero, Kazantzakis nella
vita di Cristo. Degli ultimi due me ne avevi fatto un riassunto, del primo no
perché c'eravamo smarriti in una discussione.
Io sostenevo che ne L'idiota non c'è nulla del genere, tu replicavi che mi sbagliavo,
che da giovane Dostojevskij era stato condannato a morte per un delitto politico e
graziato venti minuti prima d'esser legato al palo, a raccontare la storia nel libro
era il principe Miskin, il fatto è che non ricordavi il capitolo con l'episodio. Per
dimostrarmelo t'eri anche messo a cercarlo, avevi sfogliato i due volumi de L
'idiota per ore, ma invano, e alla fine avevi detto: Forse mi sbaglio. Non ti
sbagliavi: lo avrei saputo dopo la tua morte. Fu dopo la tua morte, infatti, che
trovai il brano inutilmente cercato quel giorno.
Chissà quando, avevi messo tra le pagine un pezzetto di carta, così il libro si aprì
a quelle pagine appena lo presi in mano, ed ecco le parole che avevi sottolineato,
gli ultimi cinque minuti nei quali ti riconoscevi. Gli restavano dunque da vivere
cinque minuti, non più. Diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un
tempo interminabile, un'immensa ricchezza. Gli pareva che in quei cinque minuti
avrebbe potuto vivere tante vite, ma per ora non doveva pensare all'ultimo
istante, sicché prese varie risoluzioni. Calcolò il tempo occorrente per dare l'addio
ai compagni e per questo fissò un paio di minuti, fissò altri due minuti per

pensare ancora a se stesso, il resto per guardarsi intorno un'ultima volta... Poi
queste: Diceva che per lui niente era mai stato penoso come l'incessante pensiero:
potessi non morire! Potessi far tornare indietro la vita! Tutto sarebbe mio.
Trasformerei ciascun minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto
di ogni istante, non ne sprecherei più nessuno. Diceva che questo pensiero s'era
mutato infine in una tale rabbia che aveva ormai il desiderio d'essere fucilato al
più presto. Avevi segnato anche la domanda di Alessandra Jepancin: Che ne fece
poi di quella ricchezza? Visse tenendo conto di ogni minuto? E la risposta del
principe Miskin: Oh no. Me lo diceva lui stesso, se lo interrogavo al riguardo. Non
visse affatto a quel modo e perdette molti minuti. Però, accanto alle parole del
principe Miskin, avevi messo un grosso punto interrogativo.
I tuoi ultimi cinque minuti durarono tre ore e poi trenta ore. Alle cinque e mezzo
eri pronto, ma il plotone non venne.
Chiedesti a un sergente perché, e il sergente rispose che evidentemente sarebbe
venuto alle sei. Ti regalasti quella mezz'ora e alle sei eri pronto di nuovo. Ma il
plotone non venne neanche alle sei. Chiedesti di nuovo al sergente perché, e il
sergente rispose: verrà alle sei e mezzo. Ti regalasti un'altra mezz'ora, alle sei e
mezzo eri pronto di nuovo. Ma di nuovo il plotone non venne. Lo stesso alle sette,
alle sette e mezzo, alle otto. Di mezz'ora in mezz'ora ti preparavi a morire, e invece
non morivi. Una volta, due volte, tre volte, quattro volte, sei volte, ogni volta un
sollievo e un tormento, una speranza e una delusione, mentre l'ansia cresceva e
diventava smania, impazienza, fretta suicida. Alle otto e mezzo gridasti:
Che si aspetta, dunque? E quando nel cortile echeggi uno scalpiccìo inconsueto,
sulla soglia apparve il capitano, tirasti un respiro soddisfatto: Eccomi. Ci volle del
tempo perché tu capissi quel che balbettava tra sorpreso e irritato: oggi era la
festa di Maria Vergine e Madre, in Grecia non si fucila nessuno per la festa di
Maria Vergine e Madre, l'esecuzione era stata rinviata all'indomani 22 novembre,
non te lo avevano detto?
No. Perbacco che equivoco odioso, che errore crudele, forse qualche tipo maligno
s'era fatto beffe di te? Gli voltasti le spalle, in silenzio, restasti in silenzio l'intera
mattina e non saresti mai riuscito a spiegarmi cosa prova un uomo che scopre
d'avere dinanzi altre ventiquattr'ore di vita. Non mezz'ora ma ventiquattr'ore,
millequattrocentoquaranta minuti, un giorno e una notte per pensare, respirare,
esistere. Se te lo chiedevo restavi perplesso a inseguire un ricordo che forse ti

sfuggiva e che forse non c'era, quasi che la seconda agonia lo avesse spazzato con
sdegno, e finivi sempre col ripeter la frase che avevi pronunciato la sera del
nostro incontro: Ricominci l'attesa dell'alba e tutto fu come il giorno prima, come
la notte prima.. Riprese lo stillicidio straziante: le cinque, le cinque e mezzo; le
sei, le sei e mezzo; le sette, le sette e mezzo; le otto, le otto e mezzo; le nove. Alle
nove tornò l'ufficiale che t'aveva portato il foglio con la domanda di grazia e
annunciato l'esecuzione per la mattina seguente. Con identici gesti sventolava
l'identico foglio, con identica voce incitava: Firma, su, firma.
Gli strappasti il foglio di mano, ne facesti una pallina, gliela gettasti in faccia, ti
gettasti su lui agguantandolo per il bavero dell'uniforme. Vigliacco, malvagio,
vigliacco, lo sapevi che ieri non mi avrebbero fucilato! Io ti strozzo, vigliacco! Te lo
sottrassero a forza, scappo via strillando ingrato, lo aveva fatto perché tu
firmassi, ingrato. Non meriti nulla, ingrato, non mi vedrai più. Subito dopo
risuonò un ordine secco, una guardia impallidì e tu pensasti ci siamo, stavolta ci
siamo davvero.
Invece non accadde nulla, di nuovo, e di nuovo ti mettesti ad aspettare. Le nove e
mezzo, le dieci; le dieci e mezzo, le undici. Alle undici eri molto irrequieto, il
desiderio che non tardassero oltre era diventato un bisogno, una febbre.
Imprecavi fra i denti, chiedevi un orologio, cercavi spiegazioni. Che mancasse
Liappis? Toccava a Liappis assistere all'esecuzione in nome della legge. Che il
mare fosse agitato? Col mare agitato, i battelli non viaggiano e magari neanche le
motovedette della Marina. Chiamasti una guardia: Il mare com'è? La guardia si
affacciò al corridoio, ripete la domanda al sergente: Il mare com'è? Buono,
stamani era buono. perché? Così. Che Liappis venisse in elicottero e che questo
non potesse atterrare a causa del vento? Richiamasti la guardia: Il vento com'è?
La guardia si affacciò ancora al corridoio per domandarlo al sergente: Il vento
com'è? Che vento? Nessun vento perché?. Così. Ti mordesti le labbra: Non
capisco. Proprio non capisco. Il sospetto che Papadopulos avesse deciso di
lasciarti vivo non ti sfiorò mai. Non immaginasti mai che, mentre ti consumavi
nell'attesa disumana, in tutto il mondo si stessero battendo per te: cortei per le
strade, comizi, dimostrazioni dinanzi alle sedi delle ambasciate, scontri con la
polizia, telefonate convulse dei capi di Stato, telegrammi a migliaia, diplomatici
che facevano la spola fra Roma e Atene, Parigi e Atene, Londra e Atene, Bonn e
Atene, Stoccolma e Atene, Belgrado e Atene, Washington e Atene, e perfino

messaggi del Papa, di Lyndon Johnson, di U Thant, con la preghiera di
risparmiarti. Ma come avresti potuto immaginarlo? Non t'avevano permesso
neanche di salutare tuo padre, tua madre, scambiare una parola col tuo
avvocato. Dopo la sentenza, le sole persone che avevi avvicinato erano state
Teofilojannacos, Haizikis, Malios, Babalis, e quei soldatini che ne sapevano meno
di te: il mondo per te incominciava e finiva dentro quella cella dove ti credevi
ignorato come l'ultima alga del mare.
Nel pomeriggio il plotone arrivò. Muoviti, Panagulis. Abbracciasti le guardie una a
una, gli chiedesti scusa per essere stato nervoso, le ringraziasti per averti fatto
compagnia. Le guardie piangevano. C'era anche il ragazzo dal volto imberbe, e il
soldatino grasso che cantava nel coro della chiesa, loro due singhiozzavano senza
ritegno e al primo tirasti un buffetto sul naso, il secondo lo agguantasti per il
mento: Coraggio, papadopulaki. Lui si soffi il naso: Posso chiederti una cosa,
Alekos?. Certo, papadopulaki. perché ci chiamavi sempre papadopulaki, cosa
vuol dire? Un sorriso: A volte vuol dire papadopulaccio e a volte servo di
Papadopulos. Dipende da come lo dico. Ma io non sono un papadopulaccio, un
servo di Papadopulos! Bravo! Allora grida con me: abbasso Papadopulos! Abbasso
il fascismo! Viva la libertà! Abbasso Papadopulos! Abbasso il fascismo! Viva la
libertà! Tutti insieme! Gridate tutti insieme: viva la libertà! Viva la libertà!. Bravi!
Ora chi di voi vuol farmi un favore? Io... Io... Io... Bene. All'Esa c'è un certo
maggiore Hazizikis. Telefonategli per dirgli che non dimentichi di offrire un gallo
per me ad Esculapio. Come?. Lui capirà. E seguisti il plotone. Fuori stavano due
automobili, un camion, una jeep. Salisti sulla jeep dopo aver dato una
lunghissima occhiata al cielo: era una giornata azzurra, col cielo terso come vetro
pulito. Il corteo partì. Ma ti accorgesti subito che non era diretto al poligono di
tiro perché conoscevi Egina, sapevi che la strada per il poligono di tiro andava in
direzione opposta, salendo su per la montagna, e il corteo imboccava il vialetto
che scende giù al porto. Dove mi portate?. Ad Atene. Ti fuciliamo ad Atene. Ti
imbarcarono sulla medesima motovedetta con cui eri venuto. Ti chiusero in una
cabina fissando le catene delle manette a un anello. Al Pireo ti infilarono svelti
dentro un'automobile. Dove mi portate? A Gudì. Ti fuciliamo nel campo militare
di Gudì. Ma non ti portarono a Gudì, ti portarono all'Esa. Qui c'era un
comandante che non conoscevi. Aveva gli occhiali neri e l'alito cattivo. Soffiandoti
in faccia l'alito cattivo ti disse: I giornali scrivono che sei già stato fucilato,

Panagulis. Ora sì che possiamo divertirci quanto ci piace. Passasti tutta la notte
nella certezza di vederli arrivare per legarti al lettino delle torture.
Ma non arrivarono e, all'alba, quando ti spinsero verso l'automobile del giorno
prima, eri così esausto che non ti reggevi in piedi. Camminavi con gli occhi
semichiusi e non ti interessava più nulla, speravi soltanto che facessero presto e
che ti fucilassero in un luogo vicino, non a Gudì. Ti invase una gran contentezza
a notare che il viale alberato non era il viale di Gudì: menomale, avevano scelto
una caserma di città. Ma quale? .Dove mi portate? chiedesti di nuovo.
All'esecuzione ti portiamo, idiota. Dove vuoi che ti portiamo? Gli scherzi sono
finiti.
Invece ti portarono a Boiati.
CAPITOLO III
La fiaba dell'eroe non si esaurisce col gran gesto che lo rivela al mondo. Sia nelle
leggende che nella vita, il gran gesto non costituisce che l'inizio dell'avventura,
l'avvio della missione. Ad esso segue il periodo delle grandi prove, poi il ritorno al
villaggio o alla normalità, poi la sfida finale dietro cui si nasconde l'insidia della
morte sempre evitata. Il periodo delle grandi prove è il più lungo, forse il più
difficile. E lo è perché, durante quello, l'eroe si trova completamente abbandonato
a se stesso, irresistibilmente esposto alla tentazione di arrendersi, e tutto
congiura contro di lui: l'oblio degli altri, la solitudine esasperata, il rinnovarsi
monotono delle sofferenze. Ma guai se egli non supera quel secondo esame, guai
se non resiste, se cede: il gran gesto che lo rivelò diventa inutile e la missione
fallisce. Ebbene, il tuo periodo delle grandi prove si chiama Boiati. Fu in
quell'inferno dove sprecasti gli anni migliori dell'esistenza che il tuo eroismo si
confermò, la tua fiaba si consolidò. E tu lo sapevi. Per questo, come un malato
che narra sempre la sua malattia o un veterano di guerra che narra sempre la
sua guerra, all'una o all'altra si rifà di qualsiasi cosa si parli, non ti stancavi mai
di tornare con la memoria a Boiati. Anche da ultimo, quando il ricordo della
bomba e del processo e di Egina s'era appannato, la tua fiaba arricchita di
imprese molto più audaci, certo più importanti, il capitolo di Boiati restava in te
con l'angustia di un morbo inguaribile, l'orgoglio di una vittoria impossibile, quasi
che il tempo trascorso laggiù ti fosse costato più delle sevizie e delle ore passate
ad aspettare la fucilazione. Di Boiati parlavi ossessivamente con tutti, pur di farlo

non ti curavi nemmeno di ripetere le medesime cose a chi le aveva già udite o a
chi non le poteva apprezzare: la regalavi a chiunque la storia del tuo viaggio
all'inferno. E quanto ti piaceva stupire, inorridire, divertire laddove il tuo senso
dell'umorismo trovava il comico nella tragedia. L'unica cosa che non raccontavi
mai era la rassegnazione che t'aveva spento prima d'arrivarci, quella speranza che
ti fucilassero presto, che ti fucilassero subito: un uomo non può ripetere ciò che
avevi fatto quando avevi chiesto alle guardie di telefonare ad Hazizikis perché
offrisse un gallo a Esculapio.
Boiati dista da Atene una trentina di chilometri e la strada che va a Boiati si
riconosce con facilità perché è indicata da molti cartelli. Ma tu non vedevi i
cartelli, fissavi incurante l'asfalto, e d'un tratto il viale si aprì in un paesaggio di
colline grigie, sulla collina di fronte un edificio simile al carcere di Egina, col muro
di cinta e le torrette e le mitragliatrici alle torrette, sul cancello la scritta: Prigione
Militare di Boiati.
L'automobile entrò, raggiunse uno spiazzato su cui si allineavano sei porticine
dipinte di verde. Ti fecero scendere, ti spinsero verso l'ultima porticina a sinistra
borbottando qualcosa cui non desti importanza, poi ti scaraventarono dentro con
tale violenza che scivolasti sul pavimento battendo la nuca. Il colpo ti stordì,
passò qualche minuto prima che tu potessi guardare intorno a raccoglier le idee.
Dov'eri? In una cella, ovvio. Al solito, vuota quanto un guscio vuoto: niente
branda, niente materasso, e neanche una coperta. Unico oggetto, in quel vuoto, il
bugliolo. Però non troppo piccola: diciamo nove passi per sette. E le guardie? Non
c'erano. Strano, il regolamento impone che un condannato a morte non resti solo.
Ma cosa aveva detto, mentre cadevi, il tipo con gli occhiali neri e l'alito cattivo?
Eccoti a casa aveva detto. E dopo? Se ti va bene, resti qui finché crepi aveva
detto. Cosa intendeva? Che non ti avrebbero giustiziato nemmeno stavolta?
Impossibile, ammenoché la pena non fosse stata sospesa.
Sospesa per un giorno, una settimana, un mese? Era un'ipotesi che non dava
gioia: è così difficile riabituarsi all'idea di vivere quando ci si è ormai rassegnati
all'idea di morire. Ti trascinasti fino al muro, per appoggiarvi la schiena. Ti
accovacciasti così, con la schiena al muro, le gambe distese sul pavimento, e
tornasti a guardare. Presso la porta c'era uno scarafaggio e avanzava lentamente
verso di te. continuò ad avanzare finché giunse a mezzo metro dalle tue scarpe,

quindi si fermò: grasso e nero, disgustoso. Agitasti i piedi: Via, vattene via! Poi lo
richiamasti, pentito. Su, vieni, su! Lo scarafaggio parve udire.
Compì una giravolta e avanzò ancora, per arrestarsi vicino al tuo tacco destro.
Coraggio, avanti! lo incitasti. Lo scarafaggio si mosse di un centimetro o due,
evitò il tacco, continuò la sua marcia a fianco dei pantaloni, e all'altezza dei
ginocchi si fermò di nuovo: perplesso. Ti chinasti a osservarlo. Aveva lunghe
zampe pelose e due antenne ritte come due baffi ma la cosa più stupefacente
erano le ali. La corazza lucida e dura celava bellissime ali. Dunque perfino uno
scarafaggio poteva volare! Gli porgesti le braccia: Vola! No, non volava. Salta,
almeno! Salta! Con molta esitazione, lui si arrampicò sulla catena delle manette,
poi sulle manette, poi sul dorso della mano destra, giunse alla base delle tue dita
dove parve vacillare in un dubbio: quale sentiero intraprendere, quale dito? Infine
si decise per il pollice dove, inaspettatamente, perse l'equilibrio e precipitò a
capofitto per terra. Ti sfuggì una risata. Ascoltarla ti dette una specie di felicità:
chi avrebbe detto che tu fossi ancora capace di ridere? E soltanto per uno
scarafaggio ruzzolato da un pollice! Gli accarezzasti il dorso, con delicatezza. Ti
chiedesti quanto vive uno scarafaggio, quanto sarebbe durata la sua compagnia
se non ti avessero fucilato presto. Ti chiedesti anche se uno scarafaggio si può
ammaestrare. Da bambino avevi tentato di ammaestrare uno scarabeo e c'eri
quasi riuscito. La felicità crebbe. Che fortuna avere accanto qualcuno con cui
giocare, parlare, senza essere giudicati o rimproverati, che provvidenza! A uno
scarafaggio si può dire qualsiasi cosa ci venga alla mente, perfino che il coraggio è
fatto di paura, che in questi mesi avevi avuto spesso paura, che soprattutto ne
avevi avuta quando era giunto il plotone di esecuzione. Loro non se n'erano
accorti, ma obbligarti a quella calma e quella spavalderia era stata una fatica
terribile: sulla motovedetta non ne potevi più. Anche un'ora fa non ne potevi più.
E mezz'ora fa, e un minuto fa. Quasi che vivere non ti piacesse più. D'un tratto
invece, grazie a una piccola orrenda creatura per la quale in altri momenti avresti
provato solo ripugnanza ti accorgevi che vivere ti sarebbe piaciuto, che in fondo si
può vivere anche in una cella di nove passi per sette. Basta avere una branda, un
tavolino, una sedia, un cesso con lo sciacquone e uno scarafaggio. E magari un
po di libri, un po di carta, qualche matita. Se non ti avessero fucilato! Avresti
potuto studiare, leggere, scrivere poesie: non eri l'unica persona al mondo
costretta a stare in prigione e, in certi casi, stare in prigione è una forma di lotta.

Le tirannie si misurano dal numero dei detenuti politici, non sei d'accordo, Dalì?
Lo avresti chiamato Salvador Dalì per via delle antenne che sembravano baffi, e
usando questo nome ti rivolgesti a lui fin quando la chiave girò nella toppa e sei
guardie entrarono col rancio. Dalì se ne stava buono buono, con le antenne
abbassate. Forse s'era annoiato coi tuoi discorsi e dormiva.
Attenti a Dalì, papadopulaki! Attenti a chi? domandò il soldato che reggeva il
vassoio. A Dalì, al mio amico. Quale amico? Lui. E indicasti lo scarafaggio. Ah!
fece il soldato piegando la bocca in una smorfia di ribrezzo. E, con un colpo secco
dello scarpone, lo schiacci. Sul pavimento rimase una poltiglia biancastra.
Tu dicevi che, più della poltiglia biancastra, ti aveva sconvolto lo schianto della
corazza sotto lo scarpone. E, insieme allo schianto, il suono stridulo che t'era
parso di udire: quasi che, morendo, lo scarafaggio avesse lanciato un grido di
dolore. Dicevi che t'eri sentito come se avessero spappolato una creatura con due
braccia e due gambe, non uno scarafaggio, e che l'idea d'averlo perduto t'aveva
fatto salire il sangue alla testa perché, di colpo, t'aveva restituito alla
consapevolezza della tua solitudine, all'immagine della cella vuota, arredata con
un bugliolo e basta. Dicevi che queste cose insieme t'avevano acceso d'un ira
bestiale e ridato energia. Assassino! e, con quell'urlo assurdo, ti scagliasti contro
il soldato sbattendogli in faccia le manette. Il vassoio col rancio schizzò nel muro,
il soldato cadde all'indietro. Allora ti scagliasti contro gli altri cinque, a uno
sferrando pedate nel ventre, a uno gomitate nello stomaco, a uno pugni sul naso,
e fu peggio che gettare un fiammifero acceso in un bosco d'estate: nel giro di
pochi secondi li avevi tutti addosso, eri ridotto a una maschera rossa di sangue.
Venne anche il direttore del carcere, e per lo sdegno non riusciva ad articolar le
parole. Ma chi gli avevano mandato, stavolta, chi? Roba da pazzi, ripeteva
instancabile, roba da pazzi, lui in tanti anni di carriera ne aveva viste parecchie,
però mai un energumeno che se la prendesse con una povera guardia mandata a
portargli il rancio, e qual era stata la colpa della guardia, aver pestato uno
scarafaggio cioè avergli usato una cortesia, dunque avevano ragione quelli
dell'Esa a dire che eri una belva, che andavi trattato con estrema durezza, il
sistema con cui i domatori trattano gli animali feroci allo zoo, lui era contrario a
cose simili ma si accorgeva di non avere scelta, ti avrebbe inflitto ogni tipo di
punizione, per incominciare non ti avrebbe dato la branda che malgrado le
disposizioni ti voleva dare, e non ti avrebbe consegnato la posta, non ti avrebbe

concesso ne giornali ne libri ne carta ne penna, proprio come gli avevano detto,
rigore assoluto, nemmeno la passeggiata quotidiana all'aperto, nemmeno le visite
dei familiari. E manette ventiquattr'ore su ventiquattr'ore perché, se riuscivi a
ferire la gente con le mani legate, cosa non avresti combinato con le mani libere?
Lo ascoltasti fingendo indifferenza ma in realtà misurando ogni frase con estrema
attenzione: perbacco, se costui annunciava provvedimenti disciplinari, significava
che non ti avrebbero fucilato. E questa era l'unica cosa che per ora contasse,
domani qualche santo ti avrebbe aiutato. Domani è un altro giorno.
Domani non è un altro giorno quando l'esistenza non ha nulla di umano. Da un
mese stavi lì dentro e v'erano momenti in cui non vedevi la differenza tra l'essere
vivo e l'essere morto, sapevi d'essere vivo solo perché respiravi. Anzitutto, quella
cella. Era umida, fredda perché non ti concedevano nemmeno una stufa, e
appestata da un fetore insopportabile perché il bugliolo veniva vuotato soltanto
una volta ogni due giorni. Entrando le guardie trattenevano il respiro, oppure si
premevano il fazzoletto sul naso e sulla bocca diventando paonazze e, fatto dietro
front, correvano fuori a vomitare. Tu c'eri abituato a quel puzzo però, appena la
porta si apriva immettendo un soffio d'aria pura, avvertivi il contrasto e a volte eri
colto da nausea, non potevi più inghiottire un boccone. L'assenza della branda
aumentava il tormento. Sebbene all'Esa e ad Egina fosse stato lo stesso, non ti
rassegnavi all'idea di dormire per terra come un cane rognoso, inoltre il
pavimento era ghiaccio, le mattonelle coperte di muffa, questo non t'aiutava certo
a guarire l'eterno raffreddore, la tosse.
E ti mancava un guanciale. Datemi almeno un guanciale, avevi urlato. Ma
Patsourakos, questo era il nome del direttore, faceva il sordo temendo che i suoi
superiori lo accusassero di tenerezza. Come guanciale usavi la giacca arrotolata e,
senza giacca, gelavi. Per non gelare interrompevi il sonno, ti alzavi e ti mettevi a
camminare su e giù col risultato che dopo un poco le gambe si indurivano, dovevi
stenderti di nuovo per terra o sederti con la schiena al muro: a battere i denti ed
aspettare il sole. Non che tu lo vedessi, il sole: alla finestra, chissà perché,
avevano messo un cartone. Tuttavia ne sentivi il tepore, e l'attesa di quel tepore
era più impaziente che l'attesa del cibo. Non te ne importava molto del cibo
perché quel vassoio sul pavimento ti faceva schifo e perché con le manette non
riuscivi a mangiare. Le manette! Il tormento grosso erano le manette: avevi
ancora le manette. Il primo giorno avevi creduto che ci rinunciassero. Perdio, non

mi terranno mica in carcere con le manette, a nessun detenuto si impongono le
manette, dev'essere una dimenticanza, sì, hanno dimenticato di levarmi le
manette, e, quand'era tornata la guardia per vuotare il bugliolo avevi allungato le
braccia. Papadopulaki, le manette. Vi siete dimenticati delle manette. Ma la
guardia non aveva risposto e, trascorsa una settimana, Patsourakos t'aveva
spiegato che l'ordine più preciso riguardava proprio le manette. E dal 13 agosto
che ho le manette! Io non c'entro, Panagulis. Mi hanno detto di fare così e devo
fare così. Te le toglievano soltanto venti minuti ogni ventiquattr'ore perché tu
facessi i tuoi bisogni, e i venti minuti non corrispondevano mai allo stimolo.
Calarti i calzoni, dopo, diventava una ginnastica complicatissima, la catena che
univa i due anelli infatti misurava trenta centimetri. Quanto agli anelli, erano così
stretti che ti avevano piagato i polsi e dalle ferite colava sempre sangue misto a
pus.
Eppure non erano queste cose ad esasperarti. Era la solitudine, l'isolamento. Non
avevi la minima idea di ci che accadesse oltre il muro di cinta e nella stessa
prigione, non sapevi nemmeno quanti detenuti essa contenesse e chi fossero
quelli nelle celle adiacenti. Le sole persone su cui posavi gli occhi erano le guardie
che venivano a portare il cibo o a vuotare il bugliolo e, sia che tu le salutassi, sia
che tu le insultassi, non aprivano bocca con te. Gli era stato proibito e, per udire
il suono di una voce diversa dalla tua, dovevi rincorrere l'eco di un alterco o di
una canzone. Quel silenzio ostinato ti spaccava i nervi e a volte ti faceva
rimpiangere l'interrogatorio ed Egina.
La morte si affronta, ti dicevi, le torture si subiscono, il silenzio no. Lì per lì
sembra che non sia un danno, che anzi serva a pensare meglio e di più, presto
però ti accorgi che in esso pensi meno e peggio perché il cervello, lavorando sulla
memoria e basta, si impoverisce. Un uomo che non parla a nessuno e a cui
nessuno parla è come un pozzo che nessuna sorgente alimenta: a poco a poco
l'acqua che vi stagna imputridisce ed evapora. Ogni tanto parlavi a una macchia
sul muro. Può essere una gran compagnia una macchia sul muro, perché si
muove, i suoi contorni non sono mai gli stessi, si spostano di continuo e ora ti
regalano un oggetto, ora un profilo, ora un volto, ora un corpo, magari il volto di
un amico, il corpo di una donna desiderata. E ci parli come con uno scarafaggio.
Però c'è una bella differenza, ammettiamolo, fra una macchia nel muro e uno
scarafaggio; quando facevi il paragone soffrivi. Ti mancava talmente Dalì lo

scarafaggio. Ti mancava al punto di indurti a dubitare della tua salute psichica:
un uomo può piangere la morte di un cane, di un gatto, non la morte di uno
scarafaggio. E quanto t'eri illuso di vederne apparire un altro! Per giorni lo avevi
addirittura cercato dicendoti che dove c'è uno scarafaggio ce n'è un altro, nessun
animale vive da solo, ma non avevi trovato nulla fuorché certe palline ovoidali che
sembravano escrementi di topo. Inutile aggiungere che ci ti aveva eccitato
moltissimo, che ti sarebbe piaciuto moltissimo avere un topo: lo avresti preferito a
uno scarafaggio. I topi sono intelligenti, bellini, facili ad ammaestrare. Ma anche
questa speranza era presto svanita: non si trattava degli escrementi di un topo, si
trattava degli escrementi di un ragno. Senza il ragno. No, non c'era proprio nulla
di vivo in quella cella. C'era il silenzio e basta. Naturalmente, se ti avessero dato
un libro o un giornale, il fatto di leggere t'avrebbe aiutato a tenere in esercizio il
cervello, dialogare almeno con le parole scritte: ma la proibizione continuava e ci
nutriva il silenzio, la monotonia, la noia. La noia! Quando sei chiuso fra quattro
pareti con un bugliolo puzzolente e nient'altro, anche il non far nulla è un
supplizio, un minuto diventa cent'anni, si perde la nozione del tempo.
Non sapevi più calcolare il tempo. Non avevi orologio, non te l'avevano restituito
dopo l'arresto, e v'erano momenti in cui non capivi nemmeno se fosse mattina o
pomeriggio. Ti chiedevi sempre: che ora sarà? All'Esa non te lo chiedevi mai, non
te ne importava nulla di sentirti dire che erano le nove del mattino o le cinque di
sera, neanche al processo te lo chiedevi mai. E neanche ad Egina se non era
notte... A Boiati invece la curiosità di conoscere l'ora ti consumava in modo quasi
spasmodico, e mica te la dicevano i porci. Che ora è? Silenzio.
Rispondimi! Che ora è?!? Silenzio. Neanche gli avessero tagliato la lingua. La cosa
peggiore comunque era un'altra: era aver perso anche il conto dei giorni, delle
settimane, dei mesi.
La prima settimana al calare del buio incidevi un segno sulla porta, ma all'ottavo
segno t'eri ammalato, non avevi inciso più nulla, e: Che giorno è? Che mese è?
Silenzio. Invano ti arrabbiavi, gridavi. Dimmelo, perdio, che ti costa?!? Silenzio.
Quando t'eri messo in testa che fossero trascorsi almeno tre mesi, per puro caso
scopristi che ne era passato uno e basta.
Fu il giorno in cui ti fecero uscire per la prima volta. Esci, Panagulis. Fuori! Che
c'è? Che succede? Una visita. Di chi?.Vedrai. Semiaccecato dalla luce del sole e
barcollando per la debolezza, raggiungesti il parlatorio. E se fosse stata tua

madre? Non la vedevi da quasi due anni, dal giorno in cui avevi disertato. Era
davvero tua madre. Eccola lì col suo cappotto della domenica, il suo cappellino a
turbante, la sua aria di contadina vestita a festa. Ma perché non ti salutava?
perché guardava dall'altra parte? Ti avvicinasti alla grata per chiamarla, ma la
commozione ti chiudeva la gola e le labbra non si muovevano. Tossisti. Lei si girò,
ti osservò un attimo con noncuranza, tornò a guardare dall'altra parte. Dopo
qualche secondo si rivolse alle guardie, adirata: Insomma, viene o non viene? E
venuto, non lo vede? Le sue pupille ti sfiorarono ancora e ti scavalcarono, in cerca
di qualcuno che doveva esserci e non c'era: quello scheletro bianco con le occhiaie
livide e le manette ai polsi esilissimi non ti assomigliava neanche nei lineamenti.
No, dov'è? Tirasti fuori un filo di voce: Sono qui. E subito un grido scosse la
stanza: Assassini! Cosa gli avete fatto assassini! Non avresti mai creduto che tua
madre fosse capace di piangere: non avevi mai colto una lacrima sulle sue ciglia.
Per ora piangeva e ci volle un bel po perché si calmasse e parlasse e ti ricordasse
quant'è bello ascoltare la voce altrui. Sì, certo, aveva tante cose da dirti: anche lei
era stata arrestata e insieme a tuo padre, lo sapevi? Li avevano rilasciati il 24
novembre e lui non stava bene, quei centotre giorni di angherie lo avevano come
smarrito, ma non dovevi preoccuparti, ora stava meglio. Del resto ignorava che tu
fossi in prigione.
Ignorava perfino che tu avessi subito il processo, lei glielo teneva nascosto.
Quanto alla pena di morte, era stata sospesa. Sì, restava valida tre anni ma era
opinione comune che, a dispetto di Joannidis, Papadopulos non ti avrebbe
fucilato: in Europa si parlava troppo di te, eri diventato un simbolo, il tuo nome
era sulla bocca di tutti. Ben per questo le avevano finalmente permesso di venire
a visitarti e, stamani, Patsourakos le aveva consentito anche di portarti il cibo.
Tanto più che dopodomani... La interrompesti: Che giorno è? Non sai che giorno
è?! Il 23 dicembre! Dopodomani è Natale! Natale?! Vuoi dire che sono qui da un
mese soltanto?. Sì, certo, sì.
Fu dopo quella scoperta, quel trauma, che ti ribellasti: no, non poteva continuare
così. Un uomo non può vivere senza avere nemmeno la nozione del tempo. Altro
che palline di topo o di ragno: bisognava scappare. E, intanto, esigere un
trattamento umano. Volevi una branda, perdio, e un orologio, e un cesso decente,
e i giornali ogni mattina. E poi volevi che ti parlassero. Quale sentenza stabiliva
che tu dovessi stare sempre solo, senza un orologio per misurare il tempo, senza

un calendario per sapere che giorno fosse, senza nessuno che rispondesse alle
tue domande o ti rivolgesse mezza parola? Con quale diritto Joannidis si
vendicava su te perché non eri morto e sepolto? Avresti fatto uno sciopero della
fame, lo avresti portato avanti fino a raggiungere lo stato di coma e, se
Patsourakos non avesse ceduto, la cosa sarebbe finita a Papadopulos che, pur di
non scandalizzare l'opinione pubblica europea, avrebbe esaudito le tue richieste.
Certo, inaugurare uno sciopero della fame avendo dinanzi tutto quel mangiare era
quasi follia. Ammirasti ci che tua madre aveva portato. Ah, il coniglio doveva
essere una vera delizia, esisteva un piatto che ti piaceva più del coniglio? Forse i
fegatelli. Perbacco! C'erano anche i fegatelli! Con le foglie d'alloro! Che altro?
Stufato! Se tu avessi dovuto scegliere tra il coniglio, i fegatelli, e lo stufato ti
saresti sentito più imbarazzato di Paride che deve dare la mela alla dea più
attraente: da quanti millenni non mangiavi così? E ce n'era per giorni, sarebbero
bastati tre giorni per smaltirne una parte? Oggi i fegatelli che si sciupano
facilmente, domani lo stufato sennò poi sa di rancido, e per Natale il coniglio! Sì,
la mela di Paride andava al coniglio: rosolato a puntino, odoroso di salvia. Dopo,
via col digiuno! Per due giorni ti rimpinzasti talmente che a Natale non potevi
inghiottire neanche un caffè. Era duro non godersi il Natale mangiando il coniglio
ma il giorno seguente sarebbe stato tuo, e glielo dicesti: Pazienza, bello mio,
pazienza! Rinvieremo lo sciopero della fame di ventiquattr'ore, oggi non ce la fò
proprio, scusami!. Poi, contento, accennasti qualche passo di danza muovendoti
tra la porta e la parete di fronte, la parete di fronte e la porta. Alla quarta virata ti
fermasti, accigliato.
Strano, c'era qualcosa di diverso sulla porta: contrariamente al solito, non
passava luce dal buco dello spioncino. perché? Ti avvicinasti, ci appoggiasti la
fronte, e subito facesti un balzo all'indietro: al di là dello spioncino, un occhio ti
guardava.
Maledizione! Dunque t'aveva visto discutere col coniglio arrosto, ballare,
comportarti da sciocco! Che imbarazzo, che vergogna. Chi era? Cosa importava
chi era, chiunque fosse, andava punito. Sollevasti le braccia ammanettate,
infilasti l'indice destro nel buco, ti rispose un urlo di dolore, poi un coro di voci
concitate. Presto, all'infermeria! Gli ha fatto male, lo ha quasi accecato! Macché
quasi, lo ha proprio accecato! Quella bestia, quella belva! Diamogli una lezione a
quella belva! E un'altra voce: No, no, ci vedo! Non mi ha accecato, ci vedo, lo

giuro! E stata una disgrazia! Non lo ha fatto apposta, vi dico, lasciatelo stare, è
Natale! Ma inutilmente. La porta della cella si spalancò e, furibondi, decisi a
vendicare l'affronto, irruppero in sette. Bestia, bestiaccia, belva, te lo diamo noi il
Natale! Sembrava che avessero ritrovato di colpo le corde vocali, che il silenzio di
un mese si fosse squarciato all'improvviso per assordarti. E presto non gridarono
e basta: picchiarono. Tutti insieme, tutti e sette. Impacciato dalle manette, non
potevi neanche tentar di difenderti, e presto fosti un mucchietto di graffi e di lividi
sul pavimento, tra il coniglio pestato e gli escrementi del bugliolo rovesciato.
Buon Natale, buon Natale.
Eppure, paradossalmente, quel pestaggio natalizio facilitò le cose. Rese quasi
tollerabile il tuo primo sciopero della fame a Boiati. Nello sciopero della fame,
infatti, è l'inizio che riesce difficile. I primi tre giorni. Passati quelli, interviene
una gran debolezza e il desiderio di cibo scompare. Così, se incominci il digiuno
dopo un bel pestaggio che rimbecillisce, non ti accorgi nemmeno che il tuo
stomaco è vuoto, tutto desideri fuorché mangiare, e questo è ciò che facesti dal
momento in cui i sette ti lasciarono solo: per settantadue ore rifiutasti anche
l'acqua. Passate quelle accettasti una tazzina di caffè, poi ricominciasti daccapo
finché cadesti in un languore così profondo da perdere anche la coscienza, e fu in
quello stato che ti ritrovò il medico dell'Esa: lo stesso che il giorno dell'arresto
aveva tentato di aiutarti. Eri mezzo morto quel giorno perché erano quasi due
settimane che non toccavi cibo. D'un tratto sentisti un ago bucarti il braccio e
una vampata di caldo accese il tuo sangue, insieme a un senso di benessere.
Sollevasti le palpebre e sopra di te c'era lui, con la sua faccia arguta, i suoi
occhietti luccicanti di complicità e d'ironia. Iassu, Alekos.
Ciao. Chi sei? Mi conosci. Un dottore. Mi chiamo Danarukas. Cosa vuoi? Aiutarti.
Come il tuo collega che assiste alle torture?. Io non assisto alle torture. Bugiardo.
Ti rispose ficcandoti in bocca una scheggia di cioccolato: Dimmi perché non
mangi. perché voglio un calendario. Un orologio e un calendario. E perché voglio
che mi parlino! Troppo poco, e poi? Voglio che mi tolgano le manette. Ancora
poco, e poi? Voglio che mi diano una branda. Sempre poco, poi? Un cesso
decente. E poi? I giornali. E qualche libro. E la penna. E la carta.. Così va meglio.
Se chiedi una cosa sola, non te la daranno mai. Se ne chiedi molte, te ne daranno
una. O due.

Riferirò Intanto nascondi questo cioccolato. Ti servirà la prossima volta.. Se ne
andò con la lista delle richieste e l'indomani arrivò la branda. Due giorni dopo
arrivò un soldato dal volto mite e simpatico: Buongiorno, Alekos.
Il giorno di Natale gli avevano affidato la guardia esterna della tua cella, senza
dirgli chi eri. Gli avevano spiegato soltanto che eri un criminale molto, molto
pericoloso, che quindi non bisognava rivolgerti neanche la parola, e questo aveva
fatto nascere in lui un'immensa curiosità: s'era messo a osservarti dal buco della
porta per vedere com'è fatto un criminale molto, molto pericoloso, e subito s'era
beccato il dito nell'occhio. Lo esaminasti ostile: Chi sei? Sono quello che tu gli
hai infilato il dito nell'occhio. Così impari a fare la spia. Io non sono una spia.
Tutte le spie dicono io non sono una spia. Il soldatino sorrise e, senza rispondere,
andò verso il bugliolo per liberartene. E se fosse stato sincero? Bisognava
provocarlo, per accertarsene. Ti mettesti a provocarlo: Vedo che ti piace
raccattare la merda, papadopulaki. No, ma la tua la raccatto volentieri, Alekos.
perché ti ammiro. Però! Sembrava sincero.
Aspettasti che tornasse col bugliolo pulito e ricominciasti a tormentarlo.
Sganciami i calzoni, papadopulaki. Voglio urinare. Sorrise di nuovo, con mitezza.
Sistemò il bugliolo pulito e poi, serio, ti sganci i calzoni. Ora aiutami a urinare.
No, Alekos, questo no. Non sta bene. Ti toglier le manette e lo farai da solo. Ah! ti
hanno dato il permesso di togliermi le manette, papadopulaki? No, non me lo
hanno dato, ma è da tempo che ho voglia di farlo. Non ci credo. Non crederci. Ti
addolcisti un po: perché non mi hai parlato prima? Perché non ti conoscevo. O
perché non ne avevi il coraggio, perché ti avevano detto che parlarmi è proibito?
Che era proibito lo sapevo, eppure i giorni scorsi, quando deliravi, ti parlavo
sempre. Allora, queste manette, vuoi che te le tolga o no? Tu toglile e io scappo.
Se scappi ti riprendono e al mio posto ne viene uno che non è un amico. Gli
porgesti i polsi. Ti tolse le manette. E se ora ti rubassi le chiavi e la rivoltella?.
Non lo farai. perché? perché sarebbe una stupidaggine. Vuoi urinare, sì o no?
Sconcertato, urinasti e intanto lo studiavi con la coda dell'occhio: no, non
mentiva. Lo sentivi con tutto il tuo istinto che non mentiva e, dopo una lieve
esitazione, gli porgesti di nuovo i polsi perché ti rimettesse le manette. Al polso
destro, il più infettato, la piaga aveva consumato la carne fino all'osso. E questo?
Bisogna medicarti, Alekos, fasciarti! Infila le manette, papadopulaki, e smettila
con la commedia.. Sei ingiusto. E io non infilerò le manette su una ferita simile.

Vado subito a cercare una medicina e una fascia..No. Vado lo stesso. Andò e
tornò dopo un'ora, con una pomata e una fascia. Ce ne hai messo di tempo,
papadopulaki.
Sei stato a fare rapporto sui tuoi progressi? No, mi sono gingillato per lasciarti le
mani libere un po più a lungo. Poi ti medicò, ti fasciò, ti rimise le manette con
un'espressione che ti convinse più d'ogni parola. Grazie, papadopulaki. Non mi
chiamo papadopulaki. Mi chiamo Morakis. Caporale Morakis.
Impiegasti quasi un mese a convincerti che non mentiva, e durante quel mese
fosti spesso crudele come sapevi esserlo ogni volta che volevi accertarti d'una
verità. Più una persona ti piaceva, infatti, più avevi paura d'essere imbrogliato o
di lasciarti andare, e la facevi soffrire. Alla fine, per, la sua bontà ti convinse.
T'era così devoto. V'erano momenti in cui ti chiedevi come avresti fatto senza di
lui: era lui che, oltre a vuotarti il bugliolo anche tre volte al giorno, ti portava i
quotidiani, le matite, la carta da scrivere che Patsourakos esitava a darti. Non che
Patsourakos infierisse, per qualche tempo t'aveva addirittura permesso di vedere
tua madre nella cappella anziché nel parlatorio con la grata. Tuttavia un giorno le
guardie t'avevano sorpreso a passarle un bigliettino e, per non esser coinvolto agli
occhi di Joannidis, egli t'aveva tolto i giornali, le matite, la carta, insomma tutto
ci che t'eri conquistato con lo sciopero della fame interrotto da Danarukas.
T'aveva lasciato la branda e basta. Inoltre Morakis ti toglieva le manette, ogni
volta rischiando d'esser sorpreso, e fu questo a convincerti che potevi proprio
fidarti di lui, confessargli che volevi scappare.
Non ne parve sorpreso: Lo so, però è molto difficile. No, basta un'uniforme. Ce
l'hai? Ho quella per la libera uscita. Ti misurasti, lo misurasti: era più basso di te
e anche più stretto di spalle ma, tutto sommato, avevate la stessa corporatura. Va
bene, mi darai l'uniforme della libera uscita e tu terrai quella che hai indosso.
Io?!? Tu verrai con me, naturalmente. Ma io.... Via quella faccia. Avrai tutto il
tempo di abituarti all'idea.
Tanto, prima, devo rimettermi in forze. Sono ancora così debole che non potrei
arrivare al cancello. E quando pensi di...
Non lo so. Non c'è fretta. Ora portami una cena abbondante. Te la portò e
mangiasti d'appetito. Mangiasti così tutti i giorni: eri diventato talmente quieto
che Patsourakos ti concesse anche il tavolo, la sedia, la passeggiata all'aperto.
L'unica cosa che non fece fu liberarti delle manette: all'Esa gli avevano negato

l'autorizzazione: Ci siamo messi a fare il buon samaritano, signor direttore?
Manette o no, comunque, miglioravi con rapidità: a primavera le piaghe ai polsi
s'erano quasi cicatrizza te, parte del tuo peso era recuperato, e capitava perfino di
sentirti cantare in tono festoso la lugubre poesia che avevi scritto la settimana in
cui era stato sospeso il processo: Sono partite le bianche colombe! Il cielo s'è
riempito di corvi! Uccelli neri! Ti piaceva cantarla perché, essendo stonato, sapevi
di irritare le guardie due volte. Chiudi il becco, Panagulis! Poi, maggio era giunto
col suo tepore, accadde quel dramma.
Una mattina ti tolsero le manette, ti portarono un secchio d'acqua calda, ti fecero
il bagno, i capelli, la barba, ti offrirono una camicia pulita e un paio di pantaloni
stirati, e ti dissero che potevi andare in cortile a sgranchirti le gambe quanto ti
sarebbe piaciuto. La cosa ti sorprese ma non ti insospettì: evidentemente avevano
deciso di arrendersi, e perché respingere una boccata di sollievo? Uscisti dalla
cella. Nel cortile non c'era nessuno. Ti appoggiasti al muro, offristi il volto al sole
e un pallone ti rimbalzò tra i piedi. Aguzzasti gli occhi per vedere chi l'aveva
lanciato, ma il sole abbagliava e di nuovo non vedesti nessuno. Che fosse
Morakis? Rinviasti pigramente il pallone. Il pallone tornò. Sì, doveva esser
Morakis, nascosto chissà dove e in vena di scherzi. Con maggior entusiasmo
tirasti un altro calcio. Il pallone andò a sbattere nel muro di fronte, che lo
respinse: per la terza volta te lo trovasti fra i piedi. Ah, Morakis! Voleva sfidarti,
eh? Ebbene, lo avresti accontentato. Erano secoli che non giocavi a palla ma
glielo avresti fatto vedere che, anche senza fiato, potevi tenergli testa. Op! Op! Op!
Rilanciasti una volta, due volte, tre volte, finché ti venne l'affanno e ti fermasti
ansimando: Sono stanco, Morakis! Ma non ti rispose nessuno. Morakis! Di nuovo
silenzio. Possibile che non fosse Morakis? E, mentre ti chiedevi così, avvertisti la
sensazione sgradevole d'essere osservato.
Eppure il cortile era vuoto. Vuoto? No, ora che ti stavi abituando al sole, scorgevi
un sergente là in fondo. E gesticolava: Dài, Alekos, dài! Non lo conoscevi. Chi era?
Dài, Alekos, dài, gioca! Arrossendo gli voltasti le spalle e rientrasti nella tua cella.
Poi ti mettesti ad aspettare Morakis e quando arrivò, il giorno dopo, ti bastò
guardare il modo con cui ti porgeva i giornali per capire tutto. Tutti portavano la
tua fotografia scattata mentre giovavi a pallone, tutti dicevano quanto fossero
infami le calunnie delle radio straniere secondo cui ti tenevano ammanettato da
nove mesi e dormivi per terra come un cane e non vedevi mai il sole, eri un

sepolto vivo: cronisti greci e corrispondenti di ogni paese avevano potuto
controllare che, al contrario, eri in buona salute, ben lavato, ben vestito, senza
manette, che uscivi dalla cella quando volevi, che eri così poco assetato di luce da
rientrarvi prima d'esserne sollecitato. Morakis grondava tristezza: Era la mia
mattinata di libertà... Se ci fossi stato io non sarebbe successo... Ti avrei
avvertito... L'ho saputo soltanto ieri sera e... Dimmi dov'erano. Nel parlatorio. Li
avevano nascosti nel parlatorio. Ti guardavano dalle finestre. Rimanesti zitto per
qualche minuto, poi scoppiasti in pianto e dicesti a Morakis di prepararsi: entro
una settimana volevi fuggire.
Era la notte di venerdì 5 giugno 1969 e la prigione dormiva.
Venne Morakis, con l'uniforme dentro la borsa, e subito la indossasti. Poi mettesti
nella borsa i vestiti, arrangiasti le coperte in modo da simulare una sagoma
umana, trarre in inganno chi avrebbe guardato dallo spioncino, e ordinasti:
Partenza! Sembrava che tu stessi per fare una scampagnata. Morakis invece
appariva nervoso: la consapevolezza di trasformarsi in un disertore e nel
responsabile della fuga più temuta dal regime gli faceva tremare le mani. Chiudila
tu, io non ci riesco disse indicando la porta della tua cella e consegnandoti il
mazzo di chiavi. La chiudesti con dita ferme, vi avviaste nel buio senza sapere
come avreste risolto la prima difficoltà: oltrepassare il cancello della prigione. E se
la sentinella ti avesse riconosciuto? Se ti avesse chiesto i documenti? La
sentinella era semisommersa nel sonno. Parla tu disse Morakis. Ti facesti avanti
e: Sveglia, marmittone! Poi gli buttasti il mazzo delle chiavi: Apri il cancello,
marmittone! Veramente, signor caporale... Sull'attenti quando parli a un tuo
superiore! Sì, signor caporale. E questa giacca sbottonata cos'è? Un modo nuovo
di portare l'uniforme? Signor no, signor caporale. Mi scusi, signor caporale.
Fammi controllare che tutto sia in ordine, qui. Sì, signor caporale. Controlli pure,
signor caporale. Dietro di te Morakis si lamentava a fior di labbra: Oh, no! Che
bisogno c'è? Oh, no! Ma tu non lo ascoltavi neanche e, rapito dalla commedia,
continuavi a sostenerla sfacciatamente. Guarda qui che roba! E questo il modo di
custodire le chiavi? Vergognati! Con una simile incuria chiunque potrebbe
scappare, maledizione! Chiunque! Va bene, per oggi ti scuso.
Domani per ti voglio a rapporto, capito? Signorsì, signor caporale. Apri il cancello.
Subito, signor caporale. E se torniamo indietro non gridare il chivalà o altre
sciocchezze, capito? Signorsì, signor caporale. Aprì il cancello, foste nel campo

militare di cui la prigione faceva parte, e ora bisognava affrontare la seconda
difficoltà: uscire dal campo. Ma come? Presentarsi all'altra sentinella e ripetere la
stessa commedia era impensabile, arrampicarsi sul muro di cinta e saltarlo era
rischiosissimo: i fari delle torrette lo illuminavano ogni cinquanta secondi.
Eppure non c'era altra scelta. Vi rannicchiaste nel punto più lontano dalle
baracche, in attesa del momento giusto, e, appena esso venne: Via! Morakis salì
svelto sulle tue spalle, si aggrappò al muro, fu in cima, ti porse le braccia, ti tirò
su: Attento al filo spinato! Al filo spinato o al fascio di luce che inesorabilmente
avanzava e fra un attimo vi avrebbe illuminato? Buttiamoci! Si udì un duplice
strappo: i pantaloni di entrambi s'erano lacerati, ed anche la giacca. Il salto per
era andato bene, niente storte e niente ammaccature, potevate lanciarvi giù per la
collina e raggiungere la strada; l'unico intoppo era un pastore col gregge e col
cane, proprio a metà tragitto. Ci vedrà il cane? Speriamo di no. Coraggio! Morakis
fu il primo. Piegato in due correva come una lepre, tu invece dovevi fermarti ogni
poco per prendere fiato, e il cane t'aveva visto. Abbaiava, abbaiava. continuò ad
abbaiare finché sporco di terra, ansimante, toccasti la strada. Ed ora c'era da
raggiungere Atene.
Di solito chi evade da un carcere lo fa con la complicità di qualcuno all'esterno,
ad esempio di una persona che lo aspetta con l'automobile e gli fa proseguire la
fuga. Ma la tua diffidenza, unita al gusto del gioco impossibile, aveva scartato
questa soluzione e proibito a Morakis di cercare aiuto. Nessuno doveva sapere
che saresti scappato con lui, tutto doveva essere affidato alla sorte e alla tua
iniziativa, sicché sulla strada non c'era anima viva. E ora? chiese Morakis. Ora si
prende l'autobus. L'autobus?!? Sì, l'autobus: come si conviene a due caporali in
libera uscita. L'autobus stava arrivando, salisti insieme a Morakis, e non ci volle
molto a capire che era stato un errore: con l'uniforme così strappata e malconcia,
tutto sembravate fuorché due caporali in libera uscita. Il bigliettaio vi guardava
perplesso: Una rissa? Eh, sì. Un farabutto s'era permesso di insultare l'esercito.
Andate in città? No, scendiamo alla prossima fermata. Scendeste. Morakis
appariva sempre più inquieto. E ora? Ora si prende un taxi. Passò anche il taxi.
Vi raccolse per qualche chilometro perché serviva soltanto la zona di Boiati. Dopo
rieccovi a piedi, protetti dal buio e nient'altro. E ora? Ora tolgo l'uniforme. Ti
nascondesti dietro un albero, prendesti gli abiti che avevi messo nella borsa di

Morakis, ti cambiasti con un respiro di sollievo: in tal modo si sarebbero perse le
tracce di due caporali in divisa. E ora?.
Ora cerchiamo un secondo taxi, e poi un terzo, fino ad Atene. Il terzo taxi vi portò
in città a mezzanotte, e fu a questo punto che venne a galla la fragilità
sconcertante d'un piano affidato alla sorte: nascondersi dove? durante i
preparativi Morakis t'aveva chiesto più volte: Dopo dove andrai? Io posso
rifugiarmi presso una ragazza, un parente, ma tu? La tua famiglia è sorvegliata, i
tuoi compagni sono in prigione. Come te la caverai?. E tu gli avevi sempre
risposto: Non preoccuparti, mille case son pronte a ospitarmi. Le case di chi? Di
coloro che si svegliano sempre quando il rischio è passato, la libertà è ritrovata,
dei chiacchieroni insomma, dei vili che appena messi alla prova si liquefanno
come candele al fuoco? Alcuni non t'aprirono neanche la porta. Chi è? Sono io,
Alekos, sono scappato, fammi entrare. Via, stai scherzando, via! Altri schiusero
col catenaccio e al solo scorgerti furono colti dal panico: Non posso, è troppo
pericoloso, non posso! Perfino una ragazza che diceva di amarti ti cacciò come un
mendicante coperto di lebbra: Vattene, svelto! Non vorrai mica che finisca all'Esa
per te? Alle tre del mattino stavate ancora vagando da un quartiere all'altro, e
Morakis si disperava: Che facciamo? Dove ti lascio? Tu eri esausto, tanto
camminare t'aveva stroncato le gambe e le trascinavi mormorando: Non sono più
abituato, devo riposarmi, devo riposarmi. Alla fine notasti un edificio in
demolizione: E se riposassimo qui? D'accordo.
rispose Morakis. Vi addormentaste subito, stesi l'uno accanto all'altro come
bambini, e all'alba foste svegliati da un bercio: Froci! Non si viene a far le
porcherie nei cantieri, brutti froci, capito? Polizia, polizia!. Ci fu appena il tempo
di alzarsi e correre via, inseguiti da un gruppo di operai minacciosi. Girato
l'angolo, ti fermasti: Bisogna dividerci, presto! Non posso lasciarti solo, Alekos,
non posso! Sì che puoi! Vattene, ho detto, vattene! Ma tu dove andrai, dove? Non
lo so, non ci pensare, scappa! Gli operai si stavano avvicinando: Polizia,
arrestateli, polizia! Morakis scantonò. Non ci fu nemmeno il tempo di salutarlo,
dirgli grazie, arrivederci.
E così eccoti solo nella città che si sveglia. Eccoti esposto alla luce del sole, con
quel volto che sei mesi prima è stato fotografato per ogni giornale, quei baffi che ti
rendono riconoscibile perfino in un paese di uomini con i baffi: se almeno ti fosse

venuta l'idea di tagliarli! Indossa un paio di pantaloni scuri, una maglietta
celeste, e porta i baffi avrebbero detto nei fonogrammi. Senza dubbio a quest'ora,
le sette del mattino, avevano già scoperto la fuga e i fonogrammi erano già stati
trasmessi: prendere un taxi, quindi, neanche a parlarne. Prendere un autobus,
peggio. Proseguire per le strade frequentate o deserte, lo stesso. La faccenda
andava risolta subito, in questo quartiere. Che quartiere era? Ah, sì: Kipseli. Chi
abitava a Kipseli? Patitsas! Demetrio Patitsas! Possibile che non ti fosse venuto in
mente ieri sera? Demetrio era un lontano parente, un cugino di secondo grado, e
aveva avuto rapporti con la Resistenza: Teofilojannacos te ne aveva ben chiesto
conferma, durante l'interrogatorio, a colpi di falanga. Chi è questo Demetrio che
forniva i passaporti falsi, chi è? E anche in questo caso non era uscita una parola
dalla tua bocca: non foss'altro che per gratitudine, Demetrio ti avrebbe ospitato
una notte.
Ma il suo indirizzo qual era? Ah sì: via Patmos 51. Dunque vediamo: da che parte
si passa per andare in via Patmos? Di qui: si gira a destra poi a sinistra, poi
ancora a destra... Via Patmos! Com'è lunga per, non finisce mai: quello è il
numero centoquarantanove, ce ne vuole per arrivare al cinquantuno.
Centoquarantanove, centoquarantasette, centoquarantacinque... Novantanove,
novantasette, novantacinque... Sempre a testa bassa, con la paura che uno si
volti e dica: Ma quello non è Panagulis?. Cinquantasette, cinquantacinque,
cinquantatre... Cinquantuno! Finalmente arrivasti al cinquantuno, suonasti il
suo campanello. Penultimo in alto a sinistra. Dal citofono rispose una voce
assonnata: Chi è? Sono io. Io chi? Apri, Demetrio! Non perdere tempo, per carità!
Un rumore secco e il portone si aprì. Il portiere non c'era. Un'incertezza breve,
l'ascensore o le scale, e poi su per le scale, ansimando.
Mioddio quante scale per un uomo che non sale le scale da undici mesi e ha le
gambe già rotte! Otto rampe prima di giungere al quarto piano dove un visuccio
terrorizzato ti fissa incapace di mandarti via. Ma non perdesti tempo a
raccomandarti, stavolta. Con un balzo fosti in casa e ti chiudesti la porta alle
spalle: Sono evaso, Demetrio. Devi tenermi almeno una notte.. Evaso?! Spiegati....
Dopo. Ora dammi un rasoio, devo togliermi i baffi..
Senza baffi eri quasi irriconoscibile. Ti osservasti compiaciuto allo specchio e poi
ti mettesti a ispezionare la casa.

Un'occhiata bastava a capire che il caso t'aveva condotto in un rifugio eccellente:
via Patmos si trovava in una specie di casbah, e l'appartamento di Patitsas in un
edificio identico agli altri. Inoltre disponeva di una doppia terrazza da cui, in caso
di necessità, si poteva saltare sul tetto adiacente e dileguarsi.
Ma non ce ne sarebbe stato bisogno: chi avrebbe mai potuto scoprire che eri
nascosto lì? Nessuno t'aveva visto entrare, nessuno t'aveva visto salire, e dalle
finestre di fronte non si poteva seguire ciò che avveniva qui dentro perché erano
molto più basse. Contasti le stanze: soggiorno, bagno, cucina, e una camera con
la porta chiusa. Lì che c'è? Un amico. Non vivi solo?!. No, ma non allarmarti. E
un amico vero, un compagno.. Come si chiama, che fa? Si chiama Perdicaris, è
studente.. Voglio parlarci. Patitsas aprì la porta. Sotto i ritratti dei fratelli
Kennedy e un cartellone che riproduceva la piazza Rossa con le cattedrali a guglia
e il Cremlino, un giovanotto dormiva. Frenasti un sorriso ed entrasti. Lo
svegliasti, lo affrontasti deciso. Sono Panagulis. E sono scappato da Boiati.
Niente passi falsi, inteso? Superato un attimo di stupore, saltò dal letto e ti
rispose con baci, abbracci, giuramenti di fedeltà.
Alekos tu non sai quanto ti ammiro, Alekos, darei la vita per te. E Patitsas,
indicando le fotografie dei fratelli Kennedy, la piazza Rossa con le cattedrali a
guglia e il Cremlino: Te lo dicevo, io? Stai tranquillo! Sei tra compagni, perbacco,
non potevi capitare meglio, perché non sei venuto subito qui? Ora riposati,
mangia, raccontaci come hai fatto, demonio! Andò avanti così, tra assicurazioni e
lusinghe, fino al momento in cui la radio dette la notizia. La fuga era stata
scoperta alle otto del mattino, disse la radio, quando le guardie avevano dovuto
forzare la porta della cella perché non si trovavano le chiavi affidate al caporale
Morakis. Insieme a Panagulis era scomparso anche Morakis, ora ricercato come
complice e disertore. Scoppiò subito una discussione: bisognava che tu lasciassi
il paese, ovvio, ma in che modo? Sarebbe stato meglio partire via terra o via
mare? Patitsas diceva via mare, con un mercantile straniero o uno yacht;
Perdicaris diceva via terra, attraverso la frontiera con l'Albania o la Jugoslavia; tu
dicevi che l'aereo era meglio, senza baffi e con gli occhiali non ti avrebbe
riconosciuto nessuno, purché tu avessi un passaporto. Ma a questo avrebbe
pensato Demetrio. Vero, Demetrio? Certo. Domani. Ma l'indomani il discorso fu
rinviato. Sai è domenica, la domenica tutti vanno al mare, la domenica non si

combina nulla. Inoltre essi avevano un appuntamento con due ragazze e, se non
fossero andati, avrebbero sollevato sospetti. Ciao, ci vediamo all'ora di cena.
All'ora di cena non eran tornati. E neanche a mezzanotte, neanche a tarda notte,
neanche lunedì mattina, neanche lunedì pomeriggio: perché? Bagnato d'angoscia
contavi i minuti e ogni minuto era un'ipotesi nera. Che li avessero arrestati? Ma
no, in tal caso la polizia sarebbe già venuta a cercarti. Che avessero avuto un
incidente di macchina? Ma no, in tal caso qualcuno si sarebbe fatto vivo. Che
stessero per... Suvvia, a questo non volevi nemmeno pensare: chiaro che eran
rimasti a dormire con le due ragazze e che... Chiaro un corno! Non lo sapevano
che eri solo, preoccupato, nervoso, e col problema di non perdere tempo, di
espatriare? Eri anche senza cibo. Nel frigorifero avevano lasciato due uova, un
pomodoro, e il formaggio avanzato sabato sera. Le uova e il formaggio li avevi
mangiati immediatamente, il pomodoro lo avevi mangiato dopo, sicché non ti
restava che una crosta di pane, e neppure di quello tenevano conto?
Ammenoche... No, Demetrio era una persona fidata, Perdicaris un bravo ragazzo,
di sicuro stavano cercando un passaporto e per questo motivo non si facevano
vivi. Ti dicevi così. Per il dubbio restava, ti intossicava come un veleno, e in preda
ad esso ti agitavi, ti buttavi sul letto, ti alzavi, accendevi la radio, la spengevi:
soffocando di rabbia, impotenza, incertezza. Andarsene o no? D'accordo,
andarsene sarebbe stato un gesto ai limiti della follia, eppure non era il caso di
restare lì. Supponiamo che, malgrado l'accoglienza, fossero stati colti dalla paura.
Per paura si commette ogni infamia, e ti sembrava di vederli coi loro visucci
foruncolosi, i loro capelli unti, i loro volgari blue jeans, ti sembrava di ascoltarli:
Proprio a noi doveva capitare? Io in galera per lui non ci vado! Neanch'io! E se ci
rivolgessimo alla polizia? Più semplice non tornare a casa, affamarlo: prima o poi
se la squaglierà. Sì, era stato uno sbaglio rifugiarsi in via Patmos, ora te ne
rendevi conto. Uno sbaglio e una perdita di tempo prezioso. Col buio te ne saresti
andato. Aspettasti il buio e, proprio nell'attimo in cui stavi per andartene, la porta
si spalanc: Eccoci qui! Ah, le donne! Che puttane, le donne! Gira e rigira, è
sempre colpa delle donne. Ci avevano sequestrato.
Dicevamo: almeno potessimo telefonargli! Per ci siamo occupati di te, tutto il
tempo. Siamo stati anche al porto. E t'abbiamo trovato la nave. E un mercantile
che lascia il Pireo mercoledì, diretto in Italia.

Negli anni che vivemmo insieme e ti rivelarono a me, notai che v'era un
argomento di cui parlavi poco e malvolentieri: i giorni che avevi trascorso in casa
di Patitsas e di Perdicaris.
Appena cercavo di saperne di più, impallidivi e dicevi: Lascia perdere. Una volta
per rinunciasti alla tua reticenza e, narrandomi ciò che ho raccontato finora, mi
dicesti che a udire le voci dei due, eccoci qui che puttane le donne, ti s'era
contratto lo stomaco. A guardarli in faccia, poi, t'aveva avvolto un'inquietudine
strana. Qualcosa in loro non ti convinceva: erano troppo allegri, troppo cordiali,
chiacchieravano troppo e si contraddicevano. Per esempio, erano stati con le
ragazze o s'erano occupati di te? Le due cose non legavano bene. E il mercantile,
che mercantile era? Come lo avevano trovato, con chi avevano trattato, quali
pretesti avevano usato? diventasti duro: Cianciate meno e spiegatevi meglio.
Certo, Alekos, certo, ma di che ti innervosisci, sii paziente, sii calmo, abbiamo
tutta la notte dinanzi e dobbiamo pur mangiare, dobbiamo. Non hai fame?
Guarda che buone cose abbiamo portato: melanzane, capretto, involtini. Prima le
notizie e poi gli involtini. Ah, ma allora non ti fidi di noi! Ti abbiamo lasciato solo
troppo eh? Ti sei innervosito, chissà che ti sei messo in testa. E vero, dovevamo
tornare ierisera. Ma quelle due puttane... Io stamani volevo fare un salto da te,
ma era così tardi, sarei giunto tardi in ufficio. Ti rivolgesti a Perdicaris: Anche tu
saresti giunto tardi in ufficio? Anche tu vai in ufficio?. No, avevo lezione
all'università. Anche a mezzogiorno avevi lezione all'università? Anche nel
pomeriggio? Via, Alekos, sei ingiusto. Sono andato al porto, nel pomeriggio. E ho
cercato il comandante... Come si chiama questo comandante? Onestamente non
me ne ricordo, Alekos. Un nome straniero, difficile. Era giapponese o svedese,
Demetrio? Svedese, mi sembra. E la nave? Svedese, no? Lo afferrasti per il collo:
Non ci provare, ragazzo.. Se non fosse accorso Patitsas, lo avresti strozzato.
Calma diceva Patitsas calma, hai i nervi a pezzi, io ti capisco. Ma prendertela con
lui, poveretto! perché non te la prendi con me? Ce l'ho mandato io al porto. Non ti
fidi di me? Sono tuo parente, tuo amico. Da bambini si giocava insieme, l'hai
dimenticato? Lo spingesti da parte: Io me ne vado. Sei pazzo? Vuoi farti
ammazzare? E l'altro: No, Alekos, no. Ci hai frainteso! Intanto ti cercavano le
mani, ti accarezzavano, piagnucolavano. Alla fine capitolasti: E va bene,
mangiamo questi involtini, queste melanzane. Mangiasti e bevesti. C'era vino in
abbondanza, bianco come piaceva a te, resinato, e da quasi un anno non toccavi

il vino. La rabbia di prima divenne presto allegria, e l'allegria stordimento. Ora,
ragazzi, parliamo di questa nave che parte mercoledì. Dopo, Alekos, dopo.
Abbiamo bevuto troppo, facciamoci un sonnellino. Sì, sì, un altro bicchiere e poi
un sonnellino, Alekos! Sbadigliando finisti nella camera di Perdicaris e, sotto il
ritratto dei fratelli Kennedy, il cartellone della piazza Rossa con le cattedrali a
guglia e il Cremlino, compagni siamo compagni, ti addormentasti in un sonno
angoscioso. Coi pesci. Eri con Morakis, sul lungomare dell'attentato, ma lui stava
a metà scarpata e tu su uno scoglio vicino all'acqua. Morakis gridava: Quattro
occhi vedono più di due, perché ci siamo divisi? Poi un'ondata buttava sullo
scoglio due pesci. Volevi agguantarli ma erano vivi e così scivolosi che al solo
sfiorarli schizzavano via, velocissimi, e se ne prendevi uno ti scappava l'altro,
sicché ti gettavi sull'altro e perdevi quello di prima, soffrendo perché capivi che
prenderne uno solo non serviva: bisogna catturare la coppia. Morakis, chiamavi,
Morakis, vieni ad aiutarmi! Ma Morakis non ti udiva, e cadevi giù dallo scoglio, e
al momento di affogare t'accorgevi che Morakis era caduto prima di te.
Patitsas ti scosse: Che c'è? Non stai bene? perché?. Ti agitavi, ti lamentavi..
Sognavo un brutto sogno. Accadrà qualcosa.
Non accadrà nulla, Alekos. Dormi tranquillo..
La mattina dopo era martedì e Patitsas uscì molto presto, quand'eri ancora
insonnolito. Ah, non abbiamo parlato della nave ierisera! Tutto quel vino!
Parleremo a mezzogiorno. Sarò a casa verso mezzogiorno. Ciao, scusami, scappo.
Non ci fu nemmeno il tempo di rispondergli no parliamone immediatamente
perdio. Ciò rinnovò il malessere che il vino aveva dissolto ma ti obbligasti a
superarlo e un paio d'ore dopo, alzandoti, ti sentivi quasi fiducioso. Fischiettando
facesti il caffè, lo bevesti, accendesti la radio e, subito, il malessere riprese. Lo
speaker stava dicendo che non s'erano trovate tracce ne di te ne di Morakis e il
governo offriva mezzo milione di dracme a chiunque fornisse indizi utili alla
cattura. Accidenti, mezzo milione di dracme era una bella cifra, più che
sufficiente per far gola a qualcuno. Dovevi stare attento, evitare rumori quando
Patitsas e Perdicaris non erano in casa, tener la luce spenta, la radio bassa, o i
vicini avrebbero potuto insospettirsi. Mezzo milione di dracme. Uhm, mezzo
milione di dracme. Lo sapevano, loro due, che valevi mezzo milione di dracme?
Svegliasti Perdicaris che nella stanza accanto dormiva un sonno ubriaco:

Ehi, lo sai che valgo mezzo milione di dracme? Se ne parla almeno da ieri.
masticò Perdicaris, poi si girò dall'altra parte e riprese a russare. Da ieri?! Come
da ieri? E perché non te l'avevano detto? E a loro chi l'aveva detto? La radio no
certamente. Non avevi perso un solo notiziario e questa era la prima volta che si
alludeva a una taglia. I giornali forse? No, i giornali non escono di lunedì. Se fosse
stato davvero sui giornali, la notizia sarebbe risalita a domenica e... Tornasti da
Perdicaris: Ehi, tu! Chi ti aveva detto della taglia? Oh, non so, non ricordo, ho
bevuto troppo, lasciami dormire, che importanza ha? Sembrava sincero, gli
credesti. Oddio, basta con la diffidenza, i sospetti: avevi perso il tuo ottimismo?
Non conoscevi più la pazienza? Ti saresti steso sul letto e avresti atteso Demetrio.
Torno a mezzogiorno, aveva detto. A mezzogiorno in punto la chiave girò nella
toppa. Ti sollevasti su un gomito: Demetrio? Ti rispose un trambusto, poi un
rumore di una sedia rovesciata, e la casa fu invasa da una ventina di poliziotti in
borghese che spianavano la rivoltella: Mani in alto, o spariamo!.
Ecco le fotografie che scattarono mentre ti esibivano ai giornalisti, nel pomeriggio,
prima di condurti al campo militare di Gudì. I tuoi occhi guardano per terra, la
tua bocca è sigillata in un'amarezza straziante, le tue mani pendono inerti dai
ferri che stringono i polsi: sembri il simbolo stesso della sconfitta e
dell'umiliazione. Un'umiliazione che non nasceva tanto dal fatto d'essere stato
ripreso quanto da ci che il ministro dell'Ordine Pubblico aveva dichiarato alla
stampa. Lo hanno tradito membri della sua organizzazione, per riscuotere la
taglia. Sono due, si chiamano Patitsas e Perdicaris. A te, per, il commissario
aveva detto molto di più. Credevi d'avere schiavi ubbidienti e devoti, eh? Da
domenica noi sapevamo che stavi in via Patmos 51! Non siamo entrati prima
perché speravamo che tu uscissi: avevamo promesso al tuo cuginetto di non
prenderti in casa. Lui era venuto qui e: "Tanto è nervoso, uscirà. Non gli ho
lasciato neanche un po da mangiare!" Due giorni abbiamo aspettato, sorvegliando
tutte le tue mosse. Poi ci siamo stancati e glielo abbiamo urlato al tuo cuginetto e
al suo amico: a che gioco giochiamo, quello è capace di starsene lì per mesi,
abituato com'è alla galera! E lui: "Farò in modo che esca, lo condurrò al porto".
Abbiamo perso la pazienza. Ci siamo fatti dare le chiavi di casa. Però mezzo
milione di dracme non gli sono bastate, ha preteso anche un impiego alla Olimpic
Airlines. Glielo abbiamo procurato. Siamo gentiluomini, noi, persone che
mantengono la parola, non imbroglioni come i tuoi amici. Più tardi, poi, t'aveva

detto che anche Morakis era stato catturato. Lo stavano già interrogando con
molta, molta decisione. E confessava, confessava.
CAPITOLO IV
Come sia possibile che un uomo condannato a morte e catturato dopo
un'evasione miracolosa riesca a superare lo scoramento e ideare subito un'altra
fuga, è qualcosa che si capiva soltanto a conoscerti. E comunque questo è ciò che
avvenne quando, un mese e mezzo dopo, ti riportarono da Gudì a Boiati.
Patsourakos non era più direttore a quel tempo, lo smacco gli aveva fatto perdere
il posto, e ad aspettarti dinanzi alla porta della tua cella stava un omaccione sui
cinquant'anni con una gran testa calva e un gran naso a becco. Buongiorno,
Alekos, bentornato. Bentornato! Lo osservasti di sotto le ciglia. Occhi porcini,
ottusi e insieme maligni. Bocca cicciuta, debole e insieme cattiva. Mani pesanti,
tremule, mani che potevano implorare o picchiare con la stessa facilità. Chi sei?.
Sono Nicola Zakarakis, Alekos, il nuovo direttore.
Che vuoi?.
Parlarti, Alekos, spiegarti come la penso.
E come la pensi, Zakarakis? Dimmi.
Io penso, ecco, penso che tu sia un prode, Alekos, che tu abbia coglioni. E poiché
penso che tu sia un prode, che tu abbia coglioni, mi sono subito inteso col signor
brigadier generale Joannidis. Gli ho detto: signor brigadier generale, quel che è
stato è stato, mettiamoci una pietra sopra, non parliamone più: dimentichiamo gli
errori commessi da questo ragazzo, dimostriamogli che siamo umani, non
diamogli pretesti per comportarsi da birbone, così alla fine si pentirà, si
ravvederà. E il signor brigadier generale: lei che suggerisce, signor Zakarakis?
Suggerisco di regalargli indulgenza, ho risposto, conversare con lui, levargli le
manette. Sì, leviamogli quelle manette, le porta da quasi un anno, permettiamoci
un gesto di buona volontà! Naturalmente il signor brigadier generale non era
entusiasta, però ha capitolato. Signor Zakarakis, ha detto, il direttore è lei, chi
conta è lei. Lei ha carta bianca, scelga i sistemi che vuole. Oddio. Cretino e
tuttavia furbo, minaccioso e tuttavia conciliante: conoscevi quel tipo. Il tipo che si
inchina a qualsiasi potere, qualsiasi autorità, qualsiasi prepotenza. Viva

Papadopulos, viva Stalin, viva Hitler, viva Mao Tze Tung, viva Nixon, viva il Papa,
viva chi capita: pur di non avere grane. Il tipo, inoltre, che se la piglia con chi è
più disgraziato di lui perché solo in tal modo può riscattare la sua pochezza e
vendicarsi degli abusi a sua volta subiti. Nascono da lui le dittature, si rafforzano
con lui i totalitarismi. Non a caso, di solito, è un ottimo esemplare di carceriere.
Bisognava mettere subito le carte in tavola, ricordargli chi eri, respingerlo e
provocarlo per avviare la nuova battaglia. Lo interrompesti: Hai finito, Zakarakis?
No, Alekos, stavo per aggiungere che... Non ce n'è bisogno, Zakarakis. Lo so che
cosa sei venuto a fare. Sei venuto a dirmi che sono bello e ti piaccio, che vuoi
essere scopato da me. Vecchia storia, lo sanno tutti che i servi della Giunta son
froci. Ma io non ho voglia di scoparti, Zakarakis. Ne oggi, ne mai. Non posso
fartelo questo favore, sei troppo brutto, troppo grasso. Sei schifoso. .Eh? Cosa?
Come?! Ho detto che non ti scopo, Zakarakis perché sei brutto, grasso e schifoso.
Non potrei neanche calarti i calzoni per dare un'occhiata al tuo culaccio.
Delinquente! Venduto ai comunisti! Mercenario! E se ne andò gesticolando.
Qualche ora dopo riapparve, ostinato. Eh! Mi dispiace per la scenata. Colpa mia,
Alekos, non avevo capito che scherzavi.
Eppure me l'avevano detto che ti piace scherzare, che sei un tipo ameno. Non
avrei dovuto dimenticarlo. Eh, per essere scusato ti ho portato questo. Tieni. I
tuoi occhi si accesero: ti stava porgendo un koboloi. Da almeno un anno sognavi
un koboloi, giocare con quella specie di rosario era una mania che ti apparteneva
e che nell'ozio dell'isolamento diventava una necessità, però guai ad accettarlo.
Sarebbe stato lo stesso che assolverlo, dirgli ti capisco Zakarakis anche tu hai
famiglia, anche tu sei un figlio del popolo, facciamo la pace. E ti avrebbe
consegnato senza speranza al suo gioco. Bisognava tener duro, dimostrargli che
non potevi esser piegato ne con le buone ne con le cattive, che eravate nemici e
che tali dovevate restare. Soffocasti dunque l'impulso di allungare le dita verso
quel preziosissimo dono e, fingendo disinteresse: Non lo voglio.. Via, su, prendilo.
Te lo d volentieri. Ho detto che non lo voglio. Io da te voglio una cosa sola,
Zakarakis: un cesso con lo sciacquone. Un cesso con lo sciacquone?! perché?
perché col bugliolo io non ci sto. Puzza. E antigienico.
Ma tutte le celle hanno il bugliolo, qui! Nessuna ha il cesso con lo sciacquone!. La
mia lo avrà. Via, sii ragionevole. E accetta il mio regalo. Io non accetto regali dai
fascisti. Io dai fascisti accetto solo il cesso con lo sciacquone perché mi spetta..

Zakarakis vibrò Sapeva che prima o poi avresti pronunciato la parola fascismo e
s'era preparato una risposta sulla parola fascismo. Eh! Tu sei giovane, Alekos
mio. Non capisci le cose. Anch'io alla tua età parlavo di fascismo! Non dirmi che
ne parlavi male, Zakarakis. Sì, invece. Non avevo cervello. E poi Mussolini ci
aveva aggredito, non mi sentivo cordiale nei suoi riguardi. Rammento una sera, a
Rimini. Sai, nel Quaranta ero prigioniero di guerra a Rimini, a volte discutevo con
gli italiani, e quella sera dicevo che Mussolini era un delinquente, una rovina
dell'umanità... Bravo Zakarakis! Bravo! E loro mi rispondevano che Mussolini
aveva creato una nazione, dato ordine e calma a tutto il Paese... E tu ci credevi,
vero? No, invece. Te l'ho detto che ero ingenuo come oggi lo sei tu.
Non ci credevo per niente, e protestavo. Strillavo: non vedete quante sventure
state sopportando a causa sua? E loro: no, delle nostre sventure hanno colpa gli
inglesi, gli ebrei, e i comunisti. Ma io, senti cosa gli replicavo io. perché so
cavarmela, io, non immagini che razza di diplomatico sia: avrei potuto fare
l'ambasciatore. Gli replicavo: gli ebrei non piacciono neanche a me, per in Grecia
che ci siete venuti a fare? A cercare gli ebrei? Taglia, Zakarakis, taglia. Ma no, sii
gentile, aspetta! perché loro, lo sai cosa mi rispondevano loro? Mi rispondevano:
ci siamo venuti per l'Albania che sennò voi greci la rubavate per chiamarla Epiro
del nord. Questo era vero, Zakarakis. Ah, ma allora non vuoi proprio ascoltare.
perché è stato a quel punto che io gli ho detto: sì, l'Albania è nostra ma il
fascismo è delitto. E loro sai cosa hanno concluso, loro? Hanno concluso che il
delitto era di chi combatteva il fascismo inquantoche combattendo il fascismo si
dà una mano al comunismo! Avevano ragione, ragazzo mio. Ragione da vendere,
ora lo so. E aggiungo: in buona fede, tu commetti lo
stesso delitto. Lo credi davvero, Zakarakis? Se lo credo? Ne sono certo,
matematicamente certo, ragazzo mio. Chiunque sia antifascista lavora per il
comunismo e l'Unione Sovietica.
Uhm! Ti fingesti perplesso e poi gli regalasti uno di quei sorrisi cui nessuno
sapeva resistere: Interessante. Perbacco, interessante. Posso rivolgerti una
domanda, Zakarakis? Sono qui, ragazzo mio. A tua disposizione. Tu parli italiano,
Zakarakis? Io no. So il greco e basta. Figurati che non ho mai voluto imparare
l'inglese, ne il francese ne il tedesco. Sono un nazionalista, io. Capisco. E a
Rimini, gli italiani, parlano greco? Neanche un vocabolo. E allora come facevi a
chiacchierarci tanto, idiota, tu che non sai nemmeno il greco e ti esprimi peggio di

un analfabeta? Dimenticò le promesse fatte a se stesso e a Joannidis. Ti bastonò
finché cadesti svenuto. Ma tu non te la prendesti: era ciò che volevi. perché così
avevi il pretesto legittimo per imporgli uno dei tuoi scioperi della fame e ottenere il
cesso con lo sciacquone, strumento indispensabile alla prossima fuga.
Non avendo mai visto uno sciopero della fame, Zakarakis ignorava la faccenda dei
primi tre giorni, il particolare che soltanto in quelli si senta un bisogno disperato
di cibo, che passati quelli intervenga un dolce torpore da cui ogni stimolo della
fame è escluso. Commise quindi l'errore di venire da te quando digiunavi da ben
tre settimane, per sopravvivere non accettavi che un po d'acqua e non avevi più
guance, le tue gambe erano ridotte allo spessore di un polso, e dalla bocca ti
usciva un fetore così insopportabile che si durava fatica a starti vicino. Al solo
vederti, dunque, si spaventò e decise di informare il ministero della Giustizia:
Muore, muore! Se muore, lei finisce agli arresti, non possiamo permetterci uno
scandalo internazionale risposero al ministero della Giustizia. Agli arresti?! Per
tutti i numi, bisognava proprio indurti a mettere in bocca qualcosa! Zakarakis
andò in cucina, esaminò la cena che gli avevano preparato, scoprì con strazio che
si trattava del suo piatto preferito, lenticchie, te le portò. Kalimera, buongiorno,
ecco qua! Un filo di voce: Che vuoi, Zakarakis? Che c'è? Roba mia, cucinata per
me! E io la dò a te. Lenticchie. Lenticchie? Vattene, Zakarakis. Su, assaggiale,
perlomeno assaggiale, sono buone, sai, fanno bene! Vattene, ho detto Non ti
piacciono, forse? Preferisci una bistecchina? Una minestrina, un brodino? Un
brodino sì, ti sarebbe piaciuto, cosa avresti dato per un brodino! No, Zakarakis.
Niente brodino, niente minestrina, niente bistecchina. Voglio un cesso con lo
sciacquone e basta. Ma te l'ho spiegato, nessuno ha il cesso con lo sciacquone qui
dentro! Tu ce l'hai. Io sono il direttore! E io sono io. Voglio il cesso con lo
sciacquone. Non posso dartelo! Sì che puoi. Non hai che comprarlo e farlo
installare.
No. No e no! Allora muoio. Così in questa cella ci finisci tu, per omicidio colposo.
Anzi per assassinio, vedrai. Verranno giornalisti da tutto il mondo, ti accuseranno
d'avermi ammazzato tenendomi senza mangiare e bastonandomi, e ogni paese
dichiarerà le sanzioni alla Grecia che per colpa tua non potrà entrare nel Mercato
Comune.
Che dici?

Questo dico. E Papadopulos non te la perdonerà, neanche Joannidis. Ora
lasciami, voglio morire in pace. In cielo troverò un cesso con lo sciacquone..
Zakarakis se ne andò quasi piangendo. La notte non dormì e nei giorni seguenti
veniva sempre a tastarti il polso o toccarti la fronte, emettendo sospiri di
angoscia. Peggioravi a vista d'occhio e non facevi nulla per nasconderlo.
Appena lui si avvicinava, muovevi le labbra e: Muoio... muoio. Da ultimo capitolò:
Alekos, mi senti? Sì... Se per caso io ti dessi il cesso con lo sciacquone, tu lo
accetteresti un brodino? Non capisco... ripeti... Se ti dò il cesso con lo sciacquone,
me lo bevi un brodino? No. Prima il cesso con lo sciacquone e poi il brodino. E va
beneee! Avrai il cesso con lo sciacquoneee!. Subito. Subitooo! Mezz'ora più tardi,
la cella veniva invasa dagli operai con le mestole e le piccozze. E tu accettavi il
brodino, riprendevi a mangiare.
L'idea del cesso con lo sciacquone o meglio l'idea della fuga basata sul cesso con
lo sciacquone risaliva a molti mesi addietro, però aveva preso corpo a Gudì
quando avevi compreso che prima o poi saresti tornato nella solita cella di Boiati.
Per evadere infatti era una cella piena di virtù. Non solo si trovava a piano terreno
e confinava con un viottolo poco frequentato ma i suoi muri erano talmente
fradici di umidità che sembravano messi lì per esser sfondati. Bastava disporre
d'uno strumento adatto allo scavo, di un oggetto per nascondere il buco mentre si
allargava, e di un sistema per liberarsi via via delle macerie. Ebbene, quest'ultimo
non poteva essere che un cesso con lo sciacquone, ed ora che si accingevano ad
installarlo ti sentivi come se l'impresa fosse già compiuta a metà.
Potevi addirittura scherzare con Zakarakis: Ehi, papadopulaki, dov'è quel piatto
di lenticchie? Oggi non le ho. Posso offrirti un pezzetto di pollo. Vada per il pollo!
Intanto riflettevi sul modo di risolvere gli altri due problemi. Anzitutto, con quale
arnese procedere allo scavo? Non avevi neanche una forchetta, per mangiare ti
davano un cucchiaio e... Perbacco, il cucchiaio! Cos'altro pretendevi: un piccone,
una perforatrice? Nascondesti il cucchiaio sotto la branda e, quando la guardia lo
cercò, alzasti le spalle: Che ne so io del tuo fottuto cucchiaio? L'avranno portato
via. Poi graffiasti il muro per fare la prova. Sì, funzionava, l'intonaco molle veniva
via facilmente e i mattoni si sbriciolavano più di quanto tu avessi creduto.
Ricomponesti tutto con una grossa mollica di pane e affrontasti il problema di
coprire il buco. Ci voleva una tendina. Ma in che modo giustificare la richiesta di
una tendina, a quale stratagemma ricorrere per ottenerla? Non certo a un altro

sciopero della fame, lo sciopero era un'arma da non sprecare con eccessiva
frequenza. Forse a un ricatto. Ecco, avresti aspettato che Zakarakis venisse a
mietere ringraziamenti e gli avresti posto un ricatto. Venne. Sei contento? Ti piace
il tuo cesso con lo sciacquone? Sì. Manca solo la tendina. Che tendina? La
tendina del pudore. Ora che ho il cesso con lo sciacquone, non vorrai mica che
continui a fare i miei bisogni davanti a chi mi guarda dallo spioncino? E chi ti
guarda dallo spioncino quando fai i tuoi bisogni? Tutti. Anche te. Io?!?..Sì,
Zakarakis. Non fare il furbo. Ti ho visto. Disgraziato! Carogna! Se mi insulti,
racconto ogni cosa. Racconti cosa, ricattatore?! Io non sono ricattatore, sono
pudico. E colpa mia se sono pudico, se arrossisco per nulla? E poi una tendina
darebbe allegria, non ho nemmeno un tavolo, una sedia... Ho capito, vuoi
arredare un po la tua stanza. E io voglio dimostrarti la mia magnanimità: ti
metterò un tavolo e una sedia. E una tendina.. Macché tendina! Dove la trovo la
tendina?! No, il ricatto non funzionava. Non funzionavano neanche le preghiere.
Zakarakis, per favore: la tendina. La tendina non ce l'ho.. .Basta un cencio
qualsiasi e due chiodi per tenerlo. No. perché no? perché sono io che decido,
capisci? Sono io il direttore, capisci? Se ti dessi sempre retta, finiresti col dirigerla
tu questa prigione! Io ne ho abbastanza delle tue pretese! Ti ho dato un tavolo, ti
ho dato una sedia, e la tendina non te la dò! Non te la dò! Se me la dai, ti
restituisco il tavolo, ti restituisco la sedia. No, è una questione di principio. E poi
sei pazzo. Pazzo? Ecco la soluzione. Gli avresti fatto credere d'essere pazzo e alla
fine ti avrebbe accontentato. La sera aspettasti che andasse a dormire, poi
portasti il tavolo sotto la finestra, ci mettesti sopra la sedia, ti arrampicasti alle
sbarre e: Zakarakis! Dormi, Zakarakis? Non dovresti dormire, Zakarakis! Dovresti
cucire la mia tendina! La voglia azzurra! Con le gale! Oppure: Zakarakis! L'hai
cucita la mia tendinaaa? Ce le hai messe le galeee? Così per tre, quattro, cinque
notti, mentre gli altri detenuti protestavano: Direttore, gli dia la tendina! Qui non
si dorme! La sesta notte Zakarakis irruppe con le sue guardie e ti bastonò. Per,
dopo averti bastonato, ti mise la tendina. Azzurra, con le gale. E potesti
incominciare gli scavi.
Lavoravi giorno e notte, instancabile, usando le mani dove il cucchiaio si piegava:
le tue dita eran tutte graffiate, tagliate.
Non sentivi nemmeno il dolore, guardare quel buco che si allargava fino a
raggiungere il diametro di quarantacinque centimetri era una gioia

anestetizzante. E cantavi, fischiettavi, ridevi. Soprattutto quando buttavi i
calcinacci nel cesso e tiravi lo sciacquone: incurante di destare sospetti. Del resto
non ti allarmasti nemmeno quando Zakarakis venne da te con la fronte
aggrottata: Di un po, sei malato? Hai la dissenteria? Io no, perché? Tiri sempre lo
sciacquone. Lo tiro perché mi diverte. E proibito? No, non è proibito. Ma nei suoi
occhietti porcini balenò un lampo di intelligenza.
E giunse il giorno in cui lo spessore del muro rimasto fu di due o tre centimetri:
pochi colpi secchi e lo avresti abbattuto.
Non c'era che attendere la notte, dunque, e con un gran sospiro ti stendesti sulla
branda a fantasticare: una volta nel viottolo, sarebbe stato meglio dirigersi a
destra o a sinistra? A sinistra c'erano i quartieri di Zakarakis, a destra le cucine.
Meglio a destra. Sì, ma con le sentinelle come te la saresti cavata? Be', il
problema delle sentinelle era superabile, lo avevi visto nella fuga con Morakis. E
così l'ostacolo del muro di cinta che stavolta avresti dovuto saltare da solo. Non
t'abbandonava mai la fortuna, in fondo lo stesso Zakarakis era stato una fortuna.
Povero Zakarakis. Lui t'aveva offerto il koboloi, le lenticchie, t'aveva dato il cesso
con lo sciacquone, la tendina con le gale, e tu lo avevi provocato fino a farlo uscire
di senno, t'eri approfittato perfino della sua stupidaggine. Ma avevi proprio
ragione a dire che sono i tipi come lui a provocare e sostenere le tirannie? A
pensarci meglio, sono i primi a subirle: in fondo anche lui era un detenuto.
Sempre chiuso in quel carcere a farsi maledire ed offendere, sempre alla merce
degli Joannidis e dei ministri della Giustizia, sempre in preda alla paura, la paura
di chi comanda, la paura di chi comanderà. Ti sarebbe piaciuto dirgli che in fondo
non ce l'avevi con lui, che in fondo consideravi un detenuto anche lui. Ti sarebbe
piaciuto anche recuperarlo, spiegargli che bastonando te e la gente come te
bastonava se stesso, ci che avrebbe potuto essere: un uomo libero, disubbidiente,
invece di un servo. Peccato che ne mancasse il tempo. Pensavi a queste cose
quando Zakarakis entrò nella cella. Sembrava molto stanco e parlava con
cortesia. Alekos, devo chiederti un favore. Dimmi, Zakarakis...
Non mi sento bene stasera, ho bisogno di riposo. Non cantare stanotte, non
divertirti con lo sciacquone. Va bene, Zakarakis. Davvero? Me lo giuri? Te lo
giuro, Zakarakis. perché tu ce l'hai con me, si capisce, sono il tuo carceriere e...
Io non ce l'ho con te, Zakarakis, io ce l'ho con la gente che tu servi.

Sei un detenuto anche tu, Zakarakis, come lo era Patsourakos, come lo sono tutti
i carcerieri delle prigioni con o senza dittatura. Quando questo Paese avrà
ritrovato la libertà, capirai cosa intendo e perché ora mi comporto così. Voi siete
vittime dell'ignoranza e della viltà, non avete colpa. La colpa è di chi comanda, la
crudeltà è in chi comanda. Tu non sei crudele, Zakarakis. Sei soltanto scemo.
Zakarakis ebbe lo strano sorriso del mattino in cui ti aveva chiesto se tu avessi la
dissenteria.
Stavolta te ne accorgesti e, con una fitta dolorosa, te ne allarmasti. Ma era troppo
tardi per le cautele o i ripensamenti, la notte avanzava, e respingendo
l'inquietudine aspettasti che suonasse la ritirata e calasse il silenzio.
Le undici. Due pugni decisi, una gomitata, e la buccia di muro cadde. Ti
affacciasti dal buco: il viottolo appariva deserto. Tendesti gli orecchi a un
eventuale rumore: non udisti alcun rumore. Via libera, dunque! E, trattenendo il
respiro, infilasti la testa nel buco, poi un braccio e una spalla. Ti spingesti fuori.
Al momento di far passare anche l'altra spalla restasti incastrato. Avevi calcolato
male la larghezza? No, era per via degli indumenti: la giacca di pelle, la camicia di
lana, la maglia. Nudo saresti passato bene. Ti spogliasti completamente, facesti
un pacco della roba, la buttasti dall'altra parte. Atterrò con un leggerissimo tonfo,
c'era un salto di mezzo metro appena. Perfetto! Infilasti di nuovo la testa col
braccio e la spalla, portasti all'esterno anche l'altro braccio e l'altra spalla,
scivolasti in avanti fino alla vita. Ora bastava comprimere l'addome: così.
Puntellarsi: così. Strisciare ancora: così. E... Una sghignazzata ti ferì i timpani,
seguita da una voce beffarda. Fa freddo, Alekos. Cosa fai lì mezzo nudo? Hai
perso il tuo pudore? Era Zakarakis, con una ventina di soldati schierati lungo il
viottolo. Zakarakis rideva, rideva. Anche i soldati ridevano.
Ridevano tanto che le canne dei loro fucili dondolavano come rami di un albero
scosso dal vento.
E tu credevi che fossi scemo, eh? Sei soltanto scemo Zakarakis. Scemo, cieco, e
sordo, eh? Credevi che non avessi capito cos'era tutto quel graffiare, quel tirare lo
sciacquone, quel nasconderti dietro la tendina, eh? Presuntuoso! Illuso! Lo sai
perché ti lasciavo fare? perché non mi rompevi più le scatole, delinquente! perché
volevo coglierti con le mani nel sacco, divertirmi! Sì, divertirmi! E giù botte: sul
volto, sul petto, sui genitali. sicché io non conto nulla, eh? Sono un povero fesso,
sono un detenuto come te! Imbecille, sono il direttore, io! Sono il capo! Il capo! E

un capo intelligente: avevo calcolato perfino quanto ci avresti messo, carogna! Lo
sapevo benissimo che ci avresti provato stanotte! Lo sapevano tutti, tutti!
L'avevano vista tutti la crepa nel muro! Non te lo immaginavi che all'esterno si
fosse formata una crepa, eh? E giù botte: sul volto, sul petto, sui genitali. Ma non
erano le botte a dolere, era l'umiliazione, il suono di quelle parole, il ricordo della
sghignazzata che t'aveva ferito i timpani quando, metà corpo fuori e metà dentro,
avevi alzato gli occhi sui soldati schierati lungo il viottolo e su lui che ripeteva
beffardo fa freddo Alekos cosa fai mezzo nudo. T'eri sentito avvampare le guance
di vergogna paonazza, avresti voluto morire. Oh, Thes! Thes mu! Oh, dio, dio mio!
Esser picchiato sì, essere torturato, sbranato: non reso ridicolo. Non è giusto, non
è umano. Ti illudevi che fossi andato davvero a dormire, eh? Che me ne stessi
bello caldo a letto meditando sulle tue ciance, eh? Lo sai da quante ore stavo lì ad
aspettarti con le mie guardie?! Tre ore, tre! Le palpebre gonfie si sollevarono su
uno sguardo sprezzante, le labbra tumefatte si mossero a fatica: Me la pagherai,
Zakarakis. Non so come, ma te la far pagare, Zakarakis. Ti far venire
l'esaurimento nervoso, ti manderò al manicomio. Zakarakis rispose con un ultimo
calcio e poi, stanco di batterti, sudato, ti consegnò a quelli dell'Esa che ti
rivoltarono in una coperta e ti portarono al campo militare di Gudì. E qui
ripresero i soliti interrogatori, le solite sevizie. Ricominci anche il pellegrinaggio
dei soliti personaggi: Malios, Babalis, Teofilojannacos, Joannidis.
Il più inferocito era, anche stavolta, Teofilojannacos. Dimmi con che cosa hai
scavato, con che? Con un cucchiaio, Teofilojannacos. Non è vero, non è possibile,
non ci credo.
Dimmi chi ti ha aiutato! Chi sono i tuoi complici, chi?!?. Nessuno,
Teofilojannacos. Falso, bugiardo, ipocrita! Presto lo confesserai! Con
uno dei tuoi fogli falsi, Teofilojannacos? Non hai ancora imparato a conoscermi,
Teofilojannacos? Pulisciti il culo con le tue confessioni, sgrammaticato. Puliscitelo
che ne hai bisogno! Io ti ammazzooo! Il meno sorpreso era Joannidis. Ti fissava
senza dir nulla, il gelido viso quasi allentato in una smorfia di indulgenza, e solo
dopo molto tempo disse scuotendo la testa: Panagulis, Panagulis! Lo dicevo io che
bisognava fucilarti, Panagulis! La colpa è di Papadopulos che non ha avuto i
coglioni di mandarti sottoterra! E poi Fedone Ghizikis, il comandante della piazza
di Atene che aveva firmato il decreto per fucilarti. Severo, lui, triste. Alla manica
sinistra della sua giacca spiccava un bracciale a lutto: qualche giorno prima gli

era morta la moglie. Si chinò su di te che giacevi ammanettato per terra, accanto
a un vassoio di cibo intatto, e: Signor Panagulis! La prego, signor Panagulis,
mangi qualcosa. Il primo, in quattordici mesi, che ti desse del lei.
Glielo restituisti: Senza posate, signor generale? Perdoni, ma non sono un cane,
signor generale. Lo so, signor Panagulis, lo so. Ma deve capire il loro risentimento.
Se appena le danno un cucchiaio lei lo adopera per scavare nel muro! Un lampo.
Ecco la persona giusta, ecco l'occasione giusta per vendicarsi di Zakarakis e di
coloro che ti avevano umiliato, deriso. Se tu fossi riuscito a convincere
quest'uomo cortese e autorevole, la trappola sarebbe scattata senza difficoltà. Gli
cercasti le pupille un po ingenue, contraesti ogni muscolo del volto in un
esagerato stupore: Signor generale! Non crederà mica alla storia del cucchiaio?!
Un muro non è mica un creme caramel! Che dice, signor Panagulis! Che dice?!
Dico che sono state le guardie ad aiutarmi, signor generale: le stesse che dopo mi
hanno arrestato. Dico che è stato Zakarakis, signor generale.
L'idea è sempre stata di Zakarakis! Fu lui a suggerirmela. Sperava di ottenere un
trasferimento in seguito al mio tentativo di fuga, di andarsene come Patsourakos!
Potevo forse immaginare che faceva il doppio gioco, signor generale? Gli ho
creduto e, mi permetta, anche lei avrebbe fatto lo stesso! Quando il direttore di
un carcere entra nella cella di un detenuto e gli dice: mettiamoci d'accordo, tu hai
interesse a scappare, io ho interesse ad esser trasferito, aiutiamoci a vicenda
eccetera! Quando gli mette a disposizione le sue guardie, gli fa intravedere il
miraggio della libertà... Signor generale, io mi chiedo addirittura se il doppio gioco
rientrasse nei suoi piani: sembrava così sincero con me! Forse ha cambiato
atteggiamento da ultimo, per timore che una delle guardie parlasse. Ci teneva
troppo ad esser tolto da Boiati come Patsourakos!. Signor Panagulis, non credo ai
miei orecchi. E inaudito! Assolutamente inaudito! Lo penso anch'io, signor
generale. E a lei confesso volentieri questa faccenda perché lei è un gentiluomo,
una persona civile, corretta, un vero militare. Non mi ha mai maltrattato, mai. E
sa bene che con gli altri non aprirei bocca: io sotto le torture non parlo. Lo so,
signor Panagulis, lo so. E devo ammetterlo: lei è uomo d'onore. Ma ciò che mi
confida è così scandaloso, incredibile! Ne convengo, signor generale, ma è la
verità. Purtroppo è la pura verità. Pensi che quando il buco non riusciva,
Zakarakis veniva lì a ripetermi: provaci ancora, provaci! Ti darò una piccozza! E
poiché un giorno ero stanco, non ce la facevo proprio, si arrabbi. Disse: non

vorrai mica che te lo faccia io questo foro nel muro?! Dopo, tuttavia, mandò
alcune guardie perché mi aiutassero. Così me ne vado come Patsourakos. Uhm! E
quel che diceva di voi ufficiali, di lei in particolare, signor generale! Non dico i
militari che io stesso disprezzo, i servi della Giunta; dico i militari come lei, signor
generale! Grazie, signor Panagulis. Lei è un nemico molto corretto, signor
Panagulis. Ma certo si rende conto che non posso tenere queste informazioni per
me, che dovr riferirle. Me ne rendo conto, signor generale. Io pagher ma non
importa. Riferisca, signor generale, riferisca. Allora arrivederci, signor Panagulis.
Arrivederci, signor generale. Le far portare un cucchiaio, signor Panagulis. Grazie,
signor generale. E mangi qualcosa, eh? La prego. Sì, signor generale.
Ti salutò portando la mano al berretto, neanche tu fossi un suo superiore, e si
allontanò in preda a uno sdegno bruciante.
Pochi minuti dopo riferiva tutto a Joannidis e, con identico sdegno, costui
convocava Teofilojannacos. Dunque il buco è stato scavato con un cucchiaio! Sì,
signor brigadier generale.
Quel mascalzone lo ha ammesso. Un normale cucchiaio da minestra. Sì, signor
brigadier generale, è ormai certo. E nessuno lo ha aiutato, nessuno gli ha dato
una piccozza ad esempio. No, signor brigadier generale. E una bestia, quello, si
sa. E lei è un idiota! Un incapace, un babbeo! Signor brigadier generale! Un
mentecatto! Un inquisitore dei miei stivali, un'ameba!. Signor brigadier generale!
Si tolga dalla mia vista o la prendo a calci di dietro! Le guardie che avevano riso di
te sul viottolo, intanto, erano state portate a Gudì e dalle stanze dove le stavano
pestando le loro grida giungevano a te più soavi d'una musica d'arpa. No, aiuto,
no! Io non c'entro! Sono innocente, lo giuro, innocente! No, io non l'ho aiutato, no!
Basta, mamma, basta! Con alcuni fosti anche messo a confronto, ed erano
talmente mal ridotti che per un attimo provasti la tentazione di scagionarli. Ma il
ricordo della vergogna che t'aveva avvampato le guance era troppo fresco, sicché
confermasti le cose dette a Ghizikis e aumentasti la dose: Sì, sono loro. Zakarakis
gli aveva dato il piccone e loro mi aiutavano con il piccone. Poi portavano via le
macerie perché lo sciacquone non si intasasse. Non è vero, non è vero! E vero,
purtroppo. E siccome erano pigri, siccome neanche Zakarakis riusciva a fargli
portar via le macerie con velocità, a un certo punto buttai tutto nello sciacquone
che si intasò veramente. E loro non volevano aggiustarlo per ripicca. Zakarakis,
invece, non lo vedesti. Joannidis lo volle tutto per se. Ad essere esatti, Joannidis

aveva qualche dubbio. Ti aveva capito più di chiunque altro e ti sapeva capace di
tutto: anche di rinunciare all'onore di quella fuga mentendo per metter nei guai
Zakarakis.
Ma il dubbio nutriva un ragionamento e, da qualsiasi parte esaminasse la cosa,
quel ragionamento gli appariva perfetto.
Allontanare Zakarakis perché? Se tu avevi mentito, d'ora innanzi nessun
carceriere sarebbe stato più sicuro e inflessibile di Zakarakis. Se invece tu avevi
detto la verità, Zakarakis andava punito per non come sperava. Inutile quindi
abbandonarsi a inchieste o a rimproveri: un po di disprezzo sarebbe bastato.
Lo convocò e: Dunque Zakarakis, lei voleva andare in pensione. Non capisco,
signor brigadier generale. Capisce, Zakarakis, capisce. L'uomo che non parla
stavolta ha parlato. So tutto, può risparmiarsi commedie. Signor brigadier
generale, insisto col dire che non comprendo. Sono stanco, sì, lei non immagina
cosa siano stati questi cinque mesi con quel disgraziato. Mi piacerebbe essere
trasferito, sì, non vederlo più, non udirlo più, dimenticare che esiste. Ma in
pensione! No, no!.
Trasferito, Zakarakis? Ho udito bene? Ha detto trasferito? Sì, signor brigadier
generale. Se fosse possibile, sì. Non ce la fò più, signor generale! Quello è un
demonio, glielo assicuro, un demonio! La voce di Joannidis si fece più gelida che
mai. Lo conosco meglio di lei, Zakarakis. E un demonio, sì, ma è onesto. Proprio
tutto il contrario di lei che è un imbecille e un disonesto. Dovrei metterla agli
arresti, Zakarakis, scaraventarla per tradimento dinanzi a una Corte marziale.
Ma sarebbe troppo poco per lei, sarebbe un regalo e... Corte marziale, signor
brigadier generale? Processo per tradimento?!? Signor brigadier generale, sono io
che ho riacciuffato quel delinquente, sono io che... Non mi interrompa, Zakarakis.
Ho premesso che non accetto commedie. E ripeto che la Corte marziale sarebbe
troppo poco per lei, un regalo. Conosco io la punizione che merita. E sa qual è?
Lei resterà al suo posto, Zakarakis.
Resterà a Boiati! Con lui! Lo avrà sulle spalle finché campa, lo giuro!. No, signor
brigadier generale, no! Questo no! Sì, invece. E a partire da questo momento le
affido un compito nuovo, Zakarakis: costruirgli una cella speciale, una cella da
cui non possa scappare nemmeno se lei gli apre la porta. Ora, fuori di qui. E
attento: se fallisce, Zakarakis, le prometto qualcosa di peggio. La chiudo dietro le
sbarre con lui!

Per due settimane Zakarakis giacque come una larva. Lo scontro con Joannidis lo
aveva talmente sconvolto che, t'avrebbe confessato in un momento di debolezza,
non riusciva nemmeno ad adempiere ai suoi doveri coniugali e invano sua moglie
lo punzecchiava con frasi di scherno: Sembra che gli abbiano commissionato il
Partenone! Dalla disperata abulia che lo afflosciava, la consapevolezza impotente
della sua incapacità, si liberava soltanto quando sognava di riaverti dentro una
cella da cui non saresti scappato. Ma che tipo di cella?! Ecco la domanda che gli
toglieva sonno, appetito, vigore sessuale. Joannidis gli aveva imposto perfino la
responsabilità della scelta: Questo è affar suo, Zakarakis. Le d tre mesi di tempo.
Passato Natale, dev'essere pronta. Passato Natale! Tre mesi e basta! Nella
speranza di risolvere il problema, Zakarakis sfogliava cataloghi e libri di
architettura, imparava espressioni difficili, energia potenziale, resistenza d'attrito,
teorema di Maxwell, di Betti, di Clayperon. Ma invano. D'accordo, doveva essere
una cella in cemento armato e con basi così solide, mura così massicce, da non
poterla bucare nemmeno col martello pneumatico. D'accordo, doveva avere porte
doppie, d'acciaio, finestre quasi invisibili, il tetto rinforzato da un circuito elettrico
che fulminasse solo a guardarlo. Ma nemmeno questo sarebbe stato sufficiente, lo
sentiva: ci voleva qualcosa di meglio, di più. Qualcosa, ecco, che non
imprigionasse solo il tuo corpo ma anche la tua fantasia: qualcosa che impedisse
al cervello di pensare. Nella sua rozzezza mentale egli aveva infatti intuito che
questo era il punto, impedire al tuo cervello di pensare, perché la prossima volta
non saresti ricorso a un buco nel muro ma a una diavoleria tutta nuova. E guai
se ti fosse riuscita: Joannidis non avrebbe avuto pietà. Attento, Zakarakis! Se
fallisce io le prometto qualcosa di peggio della Corte marziale. La chiudo dietro le
sbarre con lui! Poi un giorno di fine novembre, mentre girava in un cimitero e
vedeva un sepolcro a forma di cappella, l'idea venne: una tomba! Ecco cosa ci
voleva per quel demonio: una tomba! Una cella che avesse la forma e le
dimensioni di una tomba. Ti avrebbe costruito una tomba. Magari col cipressino
accanto. Non c'era già un cipressino nel grande spiazzato centrale? E, come un
artista che teme di perdere l'impulso creativo se non obbedisce seduta stante al
richiamo che lo ispira, Zakarakis rientrò immediatamente a Boiati, disegnò un
parallelepipedo, ne stabilì le misure. Due mesi dopo la cella era pronta. La
terribile cella dove saresti rimasto quattr'anni a partire da una mattina di
febbraio.

Quella tremenda mattina di febbraio. Stavi a Gudì, quella tremenda mattina di
febbraio, e non immaginavi davvero che Zakarakis avesse costruito il suo
Partenone. Ti illudevi addirittura d'essere stato tolto alla sua potestà. Non stavi
neanche troppo male a Gudì, il direttore non ti infliggeva mai le manette, le
guardie indugiavano spesso a chiacchierare con te, e soprattutto vi avevi
conosciuto un altro Morakis: un soldato disposto a farti fuggire. Guardami,
Alekos, non ti ricordi di me? No. Eppure mi conosci, Alekos, mi hai visto. Dove?
Quando?. AI quartier generale dell'Esa, subito dopo il tuo arresto, durante un
pestaggio. Un pestaggio? Sì, mi ordinarono di bastonarti e io ti bastonai. Per dopo
provai una tale vergogna.. Non ci credo. E la verità, Alekos, la verità. Provai una
tale vergogna che giurai di aiutarti alla prima occasione e... Non ci credo. Giurai
di aiutarti e mi dissi: se non lo ammazzano, un giorno far qualcosa per lui. Bada
che Morakis s'è preso sedici anni. Lo so. E la prossima volta non perdono tempo
ad arrestarmi, sparano a me e a chi è con me.
Lo so. Ma che sai, pagliaccio. Secondo il tuo sistema lo avevi schernito,
minacciato, umiliato, ma alla fine t'eri convinto che non mentiva e, insieme,
avevate preparato un piano. Niente leggerezze, stavolta, niente bravate. Oltre a
un'uniforme lui t'avrebbe fornito i documenti militari per uscire da Gudì, un
passaporto falso, un paio di occhiali per alterare i lineamenti, e un'automobile ti
avrebbe atteso all'uscita, uno yacht ti avrebbe raccolto nella baia di Vouliagmeni:
pronto a prendere il largo e raggiungere le acque extraterritoriali. Unica difficoltà,
i due lucchetti che chiudevano la porta della tua cella: le chiavi le teneva un
capitano. Non posso rubargliele, Alekos.
Non ce n'è bisogno. Vai da un armaiolo e compra tutte le chiavi che ti sembrano
adatte. Era andato, era tornato con una cinquantina di chiavi, e una aveva aperto
il primo lucchetto. Il secondo no. Come facciamo, Alekos? Semplice, ne compri
ancora. Compra tutte quelle che sono sul mercato. Provando e riprovando
troveremo la giusta. Era andato di nuovo, era tornato di nuovo: con un centinaio
di chiavi. Dalle otto del mattino alle undici, la durata del suo turno giornaliero, e
poi dalle dieci a mezzanotte, la durata del suo turno serale, aveva lavorato sul
secondo lucchetto, sudando, tremando all'idea d'esser sorpreso. Tentiamo questa.
Non va. Questa. Non va. Questa. Non va. E alla trentottesima chiave: Va! S'era
aperto. Bene. Ce la fai per domani? Sì, è tutto pronto. Anche l'automobile, anche
lo yacht? Sì, è da giorni che aspettano.

A mezzanotte, dunque. A domani. Mezzanotte era un'ora perfetta. A mezzanotte il
campo dormiva.
Cantavi, quella mattina, come ai tempi del cesso con lo sciacquone. Son partite le
bianche colombeee! Il cielo s'è riempito di corviii! Ma non cantasti a lungo perché,
verso le nove, un plotone entrò nella cella: Sgombera, Panagulis. Si parte. Si
parte...? Per dove...? Per Boiati, Panagulis. Torni a Boiati. Una camionetta, un
viaggio che non finiva mai, una voglia di piangere che toglieva il respiro, ed ecco
la sagoma grigia di Boiati, col suo muro di cinta e le sue torrette. Zakarakis ti
aspettava all'ingresso, con le mani sui fianchi, e il suo faccione olivastro
tratteneva a stento un'aria di trionfo.
Guarda chi c'è, guarda chi si rivede! Vieni, caro, vieni. Non immagini cosa ti ho
preparato mentre eri in vacanza a Gudì. Ti prese per un braccio, ti spinse per la
stradina che conduceva al cortile con la cella da cui eri evaso, ci passò davanti
senza fermarsi. Girò a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra, e il cuore ti
batteva tumultuosamente: sentivi che qualcosa di male sarebbe successo quando
Zakarakis avrebbe detto eccoci caro siamo arrivati. Qualcosa di tremendo,
qualcosa che t'avrebbe straziato più di tutti gli strazi subiti finora. Eccoci, caro!
Siamo arrivati! Ti piace? E per te, tutta per te, solo per te!.
E in mezzo allo spiazzato t'apparve, come uno schiaffo sugli occhi, la tomba col
cipressino. Il cipresso è piccolo, caro. Ma crescerà..
Tu dicevi che non era possibile avere un'idea di quella cella se non la si vedeva. E
per questo, caduta la Giunta, chiedesti al ministro della Difesa Evanghelis
Tossitsas Averoff il permesso di fotografarla. Ma lui non te lo concesse. Glielo
chiedesti di nuovo quand'eri deputato al Parlamento, spiegando che non era un
capriccio a guidarti, era la necessità di mostrare al mondo come si trattano i
detenuti sotto le tirannie, ma di nuovo lui te lo negò. Glielo chiedesti per tre anni,
caparbio, ogni volta sottolineando il sospetto che egli volesse nascondere al
mondo l'infamia, che addirittura si proponesse di cancellarne il ricordo
spianandola, ma lui continuò sempre a negartelo. Non ti lasci neanche varcare il
cancello di Boiati per gettarvi un'occhiata, dire a te stesso ecco, ero murato lì
dentro, e sono sopravvissuto, ho vinto. Non la rivedesti mai, non la fotografasti
mai. Ma dopo la tua morte, nei giorni in cui andavo come un pellegrino a cercare
le tracce di un passato sommerso, strade o edifici che spesso non esistevano più,
piloni smozzicati, tralicci sbattuti dal vento, la rividi io per te, la fotografai io per

te. I bulldozer di Evanghelis Tossitsas Averoff la stavano demolendo. Abbattute le
torrette, buona parte del muro di cinta, le baracche centrali, tutto si sbriciolava
nel nulla, sicché riconobbi a fatica il cortile dove t'avevano fatto giocare al pallone
quel giorno umiliante, l'ufficio di Zakarakis, la cella dalla quale eri evaso con
Morakis e nella quale eri tornato per condurre la battaglia del cesso con lo
sciacquone. La riconobbi, questa, per via del buco nel muro: dal viottolo si
distingueva ancora la toppa. Ma poi giunsi al grande spiazzato che Zakarakis
aveva scelto per erigere il suo Partenone, e la riconobbi in un lampo perché al
solo scorgerla il cuore mi si fermò. Era davvero una tomba, non esageravi. Di una
tomba aveva il colore, le proporzioni, l'aspetto: solo un finestrino di trenta
centimetri per trenta interrompeva la piatta uniformità del cemento, e il vano
della minuscola porta che introduceva all'anticamera della cella. Dentro era
peggio. perché dentro ti accorgevi che tutto era molto più piccolo di quanto
sembrasse all'esterno: due terzi dello spazio erano rubati dall'anticamera. La cella
vera e propria stava in fondo, al di là di un cancellino che fino all'altezza del
mento era una lastra d'acciaio e dopo sbarre. Come superficie essa non toccava i
due metri per tre: l'ampiezza, diciamo, di un letto matrimoniale. Poco più. Tale
paragone tuttavia è inesatto perché induce a credere che lo spazio per muoversi
fosse quello di un letto matrimoniale. Non lo era. Per muoversi c'era solo una
striscia lunga un metro e ottanta e larga novanta, il resto era occupato da una
branda e da uno sgabuzzino con un lavabo rudimentale e un water closet. La
branda, fissata a cinquanta centimetri da terra, si incassava fra le pareti d'angolo
e il muro dello sgabuzzino. Starvi distesi era dunque come giacere dentro una
bara, anche per via del soffitto molto basso e del buio.
Il buio era quasi totale. A parte una fioca lampada blu, un po di luce veniva
soltanto dall'anticamera dove il soffitto era sostituito da un'inferriata orizzontale.
Però non si trattava esattamente di luce perché dopo l'inferriata c'era una
graticola, poi un traliccio di ferro, e da quel traliccio di ferro il sole filtrava come
da un colabrodo: stillando appena un tenue chiarore, debolissimi spilli di giallo.
In compenso la pioggia ci passava con facilità, e il freddo d'inverno, il caldo
d'estate: era insomma una tomba esposta a qualsiasi intemperie. Mi ci chiusi
dentro. Provai a camminare sulla striscia di un metro e ottanta per novanta
ricordando la poesia che diceva Tre passi avanti / e tre indietro di nuovo / mille
volte lo stesso percorso / la passeggiata d'oggi mi ha stancato... Tre passi?! Se ne

facevano al massimo due, e subito la testa girava. Provai a stendermi sopra la
branda. Il soffitto a ridosso e le pareti che la limitavano mi impedivano di
respirare. Mi aggrappai alle sbarre, per riprendere fiato, mi costrinsi a vincere la
tentazione di spalancare il cancellino. Quando mi sembrò d'aver passato lì dentro
ore e ore guardai l'orologio: erano trascorsi appena dieci minuti. Allora tentai di
nuovo, con tutta la mia volontà, ma il tempo gocciolava così lento che si perdeva
il senso del divenire, la mente si cristallizzava in un silenzio di morte, e in quel
silenzio un'unica idea si faceva strada: uscire, uscire, uscire!
Eppure neanche un attimo mostrasti a Zakarakis di sentirti perduto e, con un
gran sorriso, gli rispondesti: Bravo Zakarakis! L'hai fatta tu? Sì, proprio io. Non ci
credo, Zakarakis.
Non ne hai l'intelligenza. Sì, invece! L'ho fatta io, lo giuro, l'ho disegnata io!
Congratulazioni. Poi indicasti l'anticamera. Anche questa è per me? No, questa è
per le guardie quando vengono a portarti il rancio. Però, se stai buono, te la dò
per passeggiare trenta minuti al giorno. Bene, Zakarakis, bene. Non sai dirmi
altro? Sì, Zakarakis. Scapperò, Zakarakis.. No, di qui non scapperai. Scapperò,
scommettiamo? Scommettiamo. Cosa? Una uniforme di colonnello. D'accordo..
Sprangò il cancellino, la porta d'ingresso e ti lasci solo a pensare. Bisognava far
lavorare il cervello, pensare senza lasciarsi travolgere dalla rabbia, senza
sprecarsi in rimpianti per la malasorte di non aver trovato la chiave del secondo
lucchetto ventiquattr'ore prima, senza permettere a questa lacrima di scivolare
giù per la guancia, questa lacrima che bagna le ciglia. Doveva pur esserci una
soluzione per uscire di lì, qualche giorno sarebbe bastato a scoprirla, e in tali
riflessioni passò il primo giorno, e il secondo, il terzo, il quarto, il quinto.
Intanto raccoglievi informazioni, impressioni, e le elaboravi: intorno alla tomba
c'erano sedici guardie, tre su ogni lato e una a ogni angolo, il rancio lo portavano
in quattro... Volti nuovi, ottusi. Forse la soluzione stava in quei volti nuovi, ottusi,
forse non ti sarebbe stato difficile beffare le guardie, trovare il modo di uscir dalla
cella. L'ostacolo non era la cella, era il muro di cinta col filo spinato: si trattava
d'un normale filo spinato come al tempo della fuga con Morakis oppure d'un filo
percorso dalla corrente elettrica? Non potevi mica chiederlo, avresti sollevato
sospetti. Non ti restava che giocare quindi, stavolta alla cieca, rouge ou noir et
rien ne va plus: se restavi fulminato, era un filo di corrente; se restavi indenne,
era un filo normale. Ne valeva la pena anche perché il trucco cui saresti ricorso

per uscire dalla cella era così bellino. Il più bellino, il più divertente che la tua
fantasia avesse mai escogitato. E al sesto giorno ti decidesti. Calava la sera, le
quattro guardie col rancio entrarono, due si fermarono nell'atrio, una aprì il
cancellino, una varcò la soglia col vassoio e subito il vassoio cadde per terra.
Oddio, la cella era vuota e sulla branda stava un biglietto: Caro Zakarakis,
tornerò a prendere l'uniforme di colonnello. Se vedi Teofilojannacos e Hazizikis,
digli che li far urinare sangue. Se vedi Joannidis, digli che ti mandi in pensione.
Tuo affezionatissimo Alekos.
Accorsero anche le due guardie dell'atrio. dov'è?!? Non c'è! Impossibile.
Impossibile?! Guarda! Chi gli ha portato la colazione, stamani? Tu, gliel'hai
portata tu. Bugiardo!.
Bugiardo a me? Sì, a te. Calma, ragazzi. Ragioniamo. Hai chiuso bene uscendo?
Sicuro! E le chiavi, dopo, a chi le hai date? A te, le ho date a te! A me?! Bugiardo!
Ragazzi, non litighiamo fra noi! Cerchiamolo, invece! E i loro occhi frugavano il
soffitto, i muri, neanche tu fossi stato una mosca. Rannicchiato sotto la branda,
intanto, trattenevi il respiro e la voglia di ridere. Stava accadendo proprio ci che
avevi previsto: non guardavano nell'unico posto dove avresti potuto nasconderti, e
cioè sotto la branda. Sarebbero stati abbastanza scemi da commettere anche il
secondo errore cioè andarsene senza richiudere il cancellino e la porta? Ecco,
sedevano sulla branda, si lamentavano ma come ha fatto perdio come ha fatto,
dicevano bisogna dare l'allarme, uscivano senza richiudere il cancellino e la
porta. Allarme! Allarme! Ora il campo era un unico grido: Allarme, allarme!
Aspettasti qualche secondo e poi via, a gridare con gli altri allarme allarme.
Raggiungesti un albero, di lì il casotto della cucina. Un'ombra ti sfiorò, un
soldato. Ti chiese: L'hai visto? Sì, laggiù! rispondesti indicando qualcuno che
correva nella direzione opposta. Lui ti ringraziò, proseguì strillando laggiù laggiù.
Nessuno si occupava di te, nessuno si preoccupava di accendere i fari, potevi
tentare di raggiungere il muro di cinta. Lo raggiungesti, cominciasti a scalarlo,
fosti in cima, rouge ou noir et rien ne va plus, toccasti il filo spinato. No, non era
percorso dalla corrente elettrica, per strappava le carni peggio della sera in cui eri
fuggito con Morakis. Quanto tempo ci sarebbe voluto, stavolta, per districarsi? Il
buio aiutava ma era necessario che l'allarme cessasse. Ti facesti megafono con le
mani: Cessato allarme! Cessato allarme! Una voce ripete: Cessato allarme!
Allarme annullato! Tutti si unirono: Cessato allarme! Allarme annullato! Poi il

bercio irato di un sergente: Chi ha detto cessato allarme? Lui! Lui chi? Quel tipo
in borghese! Quel tipo in borghese?! Cretini! Cercatelo! Ti strappasti il filo da una
gamba, ci impigliasti un braccio. La manica si riempì di sangue.
T'eri lacerato una vena? Il dolore ti paralizzò un secondo di troppo. L'ho visto!
Dove? Sul muro! Prendetelo! Si accese un faro, ti inondò di luce. E stavi per
spiccare il salto quando ti sentisti agguantare: Sergente, l'ho preso! Ne seguì un
digiuno abbastanza breve. All'estero continuavano ad occuparsi di te e Zakarakis
aveva sempre più paura che tu morissi. Mangia! No. Mangia per favore! No. E
cibo portato da tua madre. Se lo mangi lei. Via, dimmi cosa vuoi.
Te l'ho detto: voglio un'uniforme di colonnello. Mi spetta.
Sono scappato, sì o no? .No perché ti ho ripreso. Non vale.
Dalla cella sono scappato e ti ho dimostrato che sei un idiota.
Idiota sarai tu! No, io sono intelligente. E voglio l'uniforme di colonnello. Che te ne
fai dell'uniforme di colonnello?!?La indosso. E' carnevale, a carnevale ci si mette
in maschera, e la maschera più buffa che esista è l'uniforme di colonnello perché
la portava il tuo padrone, Papadopulos. Disgraziato! Pagliaccio!. L'indomani, lo
stesso dialogo. E infine l'urlo esasperato di Zakarakis: Portategli un'uniforme di
colonnello! Non c'è signor direttore, qui non ci sono colonnelli.
Trovatelaaa!. La trovarono, la indossasti e mangiasti. Zakarakis tornò. Ora
ridammela. Neanche per sogno. Te l'ho data solo perché tu mangiassi. Hai
mangiato, dunque restituiscila.
No.. Toglietegli l'uniformeee! Ti furono addosso in cinque.
Ostacolati dal minuscolo spazio, urtandosi l'uno con l'altro, battendo gomitate nei
muri, te la tolsero. Ti tolsero anche le scarpe, per giorni, e faceva freddo. Riprese
il digiuno. Mangia.. No. Cosa vuoi? Le mie scarpe. Ecco le tue scarpe. Ora
mangi?. No.'Che altro vuoi?! Voglio fare il bagno. perché puzzo e ho i pidocchi.
Come te, Zakarakis. Io non puzzo! Io non ho i pidocchi! Sì che li hai. Ne hai uno
che pesa novanta chili. Sei tu. Io t'ammazzo! E tu finisci dinanzi alla Corte
marziale, per assassinio. Te l'ha detto Joannidis. E va bene, fategli il bagno!
Caldo, lo voglio caldo. Sennò prendo la polmonite e muoio e dinanzi alla Corte
marziale ci finisci lo stesso, per omicidio colposo. Caldo! Fateglielo caldo! Voglio
anche il parrucchiere. Chiamate il parrucchiere! Venne il tinello con l'acqua
calda, venne il parrucchiere. Ti lavarono, ti fecero la barba, ti fecero i capelli. Ma i

capelli li tagliarono corti mezzo centimetro, per ordine di Zakarakis, e il
combattimento scoppi di nuovo. Brutto porco, mi hai fatto depilare.
Non ti ho fatto depilare, ti ho fatto rapare: non hai detto di avere i pidocchi? I
pidocchi non stanno soltanto in testa, stanno ovunque ci siano peli. Quindi mi
devi depilare tutto, anche sotto le ascelle, anche intorno ai coglioni. Sei pazzooo!
Mi hanno dato da tenere un pazzooo! Non sono pazzo, Zakarakis. Sai benissimo
che mi comporto così per fare impazzire te. E ci riuscirò, quant'è vero che sto in
questa tomba.
Depilatelooo!..Non loro, tu. perché lo so che ti piace toccarmi, che oltre ad essere
un porco e un pidocchio sei un frocio. Ti fece legare alla branda. Ti picchi
personalmente. Ti picchi tanto che poi dovette chiamare il medico il quale, a
vederti, inorridì: il tuo corpo era un livido dalla testa ai piedi.
Chi è stato? Zakarakis è stato. Voleva depilarmi. Depilarti?!? Sì, per poi
violentarmi. Lui dice che nei bordelli in Instambul fanno così. Mi sono difeso, e lui
mi ha picchiato..Violentarti?!?. Ma sì. Ci prova con tutti, lo sanno tutti. E frocio.
Stavolta Zakarakis ebbe un attacco di fegato che lo tenne a letto per una
settimana.
Ormai ciascuno dei due era allo stesso tempo vittima e carnefice dell'altro: il
rapporto si basava su un continuo scambio di ruoli o in una simultanea
interpretazione di essi, e sarebbe stato difficile stabilire chi dei due fosse più
crudele con l'altro. Forse tu, perché tu capivi bene Zakarakis. E Zakarakis,
invece, non capiva te. Come avrebbe potuto? Ciò che esprimevi e rappresentavi
distava dal suo povero mondo più di quanto Alfa Centauri disti dalla Terra. Si
sarebbe messo a ridere se gli avessero spiegato che il vero eroe non si arrende
mai, che a distinguerlo dagli altri non è il gran gesto iniziale o la fierezza con cui
affronta le torture e la morte ma la costanza con cui si ripete, la pazienza con cui
subisce e reagisce, l'orgoglio con cui nasconde le sue sofferenze e le ributta in
faccia a chi gliele impone. Non rassegnarsi è il suo segreto, non considerarsi
vittima, non mostrare agli altri tristezza o disperazione. E, all'occorrenza,
ricorrere all'arma dell'ironia e della beffa: ovvie alleate di un uomo in catene. Così,
quando la tua nuova offensiva scoppi, egli fu colto nuovamente di sorpresa.
La nuova offensiva scoppiò, col fragore di una cannonata, non appena si
attenuarono gli indolenzimenti dell'ultimo pestaggio. Una sera ti aggrappasti alle
sbarre del cancellino e, dirigendo la voce verso il soffitto a inferriata

dell'anticamera, chiamasti a raccolta guardie e prigionieri. Attenzione, attenzione!
Giornale radio di Boiati! Bollettino speciale! Nicola Zakarakis, direttore di questo
merdaio, è malato di fegato.
S'era sparsa la voce che tale infermità fosse conseguenza della rabbia che lo
aveva colto per non esser riuscito a violentare un detenuto a cui non piacciono i
froci, ma si trattava di una voce sbagliata. Siamo in grado di rivelare che le
coliche epatiche dello Zakarakis sono dovute alla delusione di non essere stato
soddisfatto nelle sue brame posteriori da quel detenuto.
Chiunque voglia offrirsi volontario per la macabra operazione è pregato di
rivolgersi all'apposito ufficio lasciando le sue generalità. Lo Zakarakis paga in
lenticchie. E la sera dopo:
Attenzione, attenzione! Giornale radio di Boiati. Bollettino speciale. Zakarakis
mente. Non ha il mal di fegato, ha le emorroidi. Questo detenuto lo sa perché quel
porco gliele ha fatte vedere. Gli ha anche spiegato che gliele fecero venire i turchi
quando lavorava come puttano in un bordello di Costantinopoli. Il male dello
Zakarakis ha subito una ricaduta in seguito al suo colloquio col ministro della
Giustizia che lo ha preso a pedate nel culo. Tutte le sere così, con puntualità
raggelante, e nelle baracche al di là del muro di cinta il sollazzo era tale da limitar
le richieste di libera uscita. Che fai stasera? Vai al cinematografo? No, ascolto il
bollettino speciale di Panagulis. Oppure: Sei stato in città, ieri sera? No, sono
rimasto qui ad ascoltare il bollettino speciale di Panagulis. Spesso, e con falsa
indifferenza, all'uditorio si univano anche ufficiali ansiosi di sapere cosa avresti
inventato nell'emissione seguente. Un po per volta infatti la trasmissione era
diventata un racconto a puntate sulle esperienze erotiche di Zakarakis nel
fantomatico bordello di Costantinopoli, e la tua abilità consisteva
nell'interromperti sempre su un colpo di scena. Domani, ascoltatori carissimi,
saprete il resto. Non ricordo bene l'intreccio ma, se non sbaglio, a un certo punto
Zakarakis smetteva di fare il puttano e veniva evirato per diventare eunuco del
Gran Visir.
Da ci nasceva una serie di sconcezze incredibili che implicavano altri personaggi,
lo stesso Gran Visir che si chiamava Papadopulos, un Califfo che si chiamava
Joannidis, un boia che si chiamava Teofilojannacos, un bieco consigliere che si
chiamava Hazizikis. Il Gran Visir e il Califfo si odiavano a morte, il boia e il bieco
consigliere si facevano molti dispetti, per tutti stringevano alleanze di ferro

quando c'era da umiliare l'eunuco che per difendersi si sottoponeva a prove di
abbietta sottomissione.
Alla fine Zakarakis venne da te. Venne, si appoggi stancamente al cancellino, ti
guardò con occhi spenti: Alekos, devo parlarti. Accomodati, Zakarakis, c'è tanto
posto qui dentro. E una sala vastissima, preferisci il divano o una di queste
poltrone? Però non mi accarezzare, eh? Non mi toccare. Oggi mi sento più casto
che mai. Ascoltami, Alekos. Io lo so che tu scherzi. Lo so che tu sai che io sono
un uomo pulito e normale. Ho moglie e due figli. Zakarakis, la moglie è una
scusa. Tanti froci hanno moglie, e i figli chissà di chi sono. Mascalzone! Non mi
insultare e non mi toccare, Zakarakis, sennò lo dico al giornale radio che sei
anche becco. Anzi guarda, non ci avevo pensato, stasera ti tolgo al mestiere di
eunuco e ti faccio sposare con la favorita del Gran Visir, così diventi subito becco
e tua moglie se la scopa il Califfo. Ascoltami, Alekos. Io ti capisco. Ho letto un
libro di psicologia e di certe cose me ne intendo. Sei giovane, hai i tuoi bisogni
sessuali. Sono quelli a renderti agitato. Anch'io quand'ero a Rimini, prigioniero
degli italiani, ero sempre inquieto perché mi mancava una donna. Dunque, se
vuoi, ti faccio venire una donna. Una volta al mese. Anzi, una volta la settimana.
Ti piacerebbe, eh? Ti piacerebbe? Ho capito, Zakarakis. E la solita storia: vuoi che
ti scopi. Povero Zakarakis, ti sei proprio innamorato di me. Che cotta ti sei preso,
accidenti. Hai talmente perso la testa che mi commuovi e, se potessi, ti
accontenterei. Sì, una sveltina te la meriteresti.
Ma te l'ho detto mille volte: non ci riesco, non mi piaci! Delinquenteee! Non essere
isterico, Zakarakis. Non essere ingiusto. E colpa mia se dinanzi a te non si rizza?
Sei anche calvo! Ascolta, Zakarakis: perché non mi porti tua moglie? Tanto resta
tutto in famiglia. Impiccare! Ti farò impiccare! E va bene. Mi piego a questo
sacrificio. Ti scopo. In un guizzo fulmineo chiudesti il cancellino, con la sinistra
gli immobilizzasti le braccia, con la destra gli calasti i calzoni, coi ginocchi lo
spingesti contro il muro: le guardie fecero appena in tempo a sottrartelo,
richiamate dai suoi urli di terrore. Qualche giorno più tardi, era il 9 aprile, il tuo
pagliericcio prese fuoco.
Zakarakis avrebbe sempre sostenuto, giurandolo sulla moglie e sui figli, che eri
stato tu a darvi fuoco. E, conoscendo le tue doti istrioniche, sarei propensa ad
accettar la sua tesi.

Come stratagemma, infatti, sarebbe stato tutt'altro che sciocco: le guardie
accorrono lasciando la porta spalancata, nel fumo e nella confusione tu sgusci via
e salti il muro di cinta. Per è un fatto che, proprio due giorni prima, avevano
ritirato il pagliericcio e poi lo avevano riportato con strane cautele. E un fatto che
una guardia amica t'aveva sussurrato: Alekos, avevi nascosto nulla nel
pagliericcio? Ho visto che il caporale Karakaxas ci manovrava dentro. E un fatto
che, dopo l'aggressione, Zakarakis t'aveva punito togliendoti anche i fiammiferi e
le sigarette. E un fatto che quando ti ristabilisti venne da te un certo maggiore
Kutras dell'Esa e ti disse: Se non racconti a nessuno quel che è successo, hai la
mia parola d'onore che ti lasceremo libero di fuggire all'estero. E un fatto che, fino
all'ultimo, continuasti a ripetermi con appassionante sincerità: Ti giuro, non fui
io a incendiarlo. Furono loro. Su altre cose ho mentito per convenienza o
necessità, su questa no. Non disponevo neanche d'un fiammifero, anche volendo
non avrei potuto, perché non mi credi? Verso le sette di sera udii un fischio, poi
un piccolo scoppio, e il pagliericcio prese fuoco. Sono certo che ci avevano messo
dentro qualcosa, plastico o zolfo. E comunque, in qualsiasi modo fossero andate
le cose, Zakarakis fece di tutto per lasciarti morire. Aggrappato alle sbarre
supplicavi aprite, brucio, soffoco, muoio. E nessuno si muoveva. Insieme alle
grida, il fumo usciva sempre più denso dall'inferriata dell'anticamera, eppure
nessuna delle sedici guardie intorno alla cella accennava il gesto di correre in tuo
aiuto: quasi che Zakarakis avesse imposto il veto. La guardia che t'aveva detto di
Karakaxas stava accanto a lui e ripeteva: Bisogna intervenire, signor direttore!
Arrostirà E Zakarakis: Calma, non preoccuparti, calma. E uno dei suoi soliti
trucchi. Ci volle un bel po perché si decidesse, e ormai la cella era un forno, dal
pagliericcio si alzavano fiamme, tu giacevi per terra svenuto. Quando giunse il
medico, allarmato disse che bisognava ricoverarti in ospedale o saresti morto,
Zakarakis non permise nemmeno che ti trascinassero all'aperto: Basta tenerlo
nell'atrio. Ti ci tennero due giorni, disteso su una coperta.
Il secondo giorno piovve, l'acqua ti inzuppò come un albero, il medico riuscì
soltanto a farsi dare un ombrello per coprirti la faccia. Fu necessario telefonare al
ministero della Difesa, poi chiedere l'intervento di Papadopulos, perché Zakarakis
capitolasse. Ma eri ormai in condizioni pietose, baffi e ciglia e sopracciglia
bruciate, pelle del volto e delle mani coperta di vesciche: non ci vedevi più e non
parlavi più. All'infermeria di Gudì, dove ti ricoverarono, fu accertato che nel tuo

sangue c'era il novantadue per cento di anidride carbonica. Rimanesti in coma
settantadue ore. E, tornando a Boiati, trovasti uno Zakarakis che ti riceveva con
queste parole: Ehi, c'è una buona notizia per te. Il tuo amico ha tirato le cuoia.
Poi ti porse un giornale con un titolo che diceva: Morto ieri a Cipro l'ex ministro
degli Interni e della Difesa Policarpo Gheorgazis.
Lo avevano trovato nella sua automobile ucciso a scariche di mitra, spiegava il
giornale. Gli assassini s'erano dileguati e non v'erano speranze di scoprirne
l'identità. Quanto agli indizi eran vaghi. La sera avanti Gheorgazis aveva accettato
un appuntamento con misteriosi individui in un villaggio fuori mano, uscendo
aveva abbracciato la moglie con particolare trasporto e le aveva detto: Se ritardo,
fammi cercare. Scoppiasti in un pianto convulso, e non solo per il dolore. Sì,
durante l'interrogatorio e il processo avevi negato con forza ogni sua
partecipazione, tentar di coinvolgere Policarpo Gheorgazis è ridicolo, non
conosco questo signore, credete che un soldato possa chiamare alle armi un
ministro della Difesa? Però Hazizikis aveva scoperto lo stesso il ruolo che
Gheorgazis aveva avuto nell'attentato, le prove da lui fornite erano state così
schiaccianti che, in seguito a quelle, i rapporti fra il governo greco e cipriota
s'erano definitivamente deteriorati, Joannidis aveva raddoppiato il numero dei
suoi ufficiali nell'isola, e nel giro di poche settimane Gheorgazis aveva perso il
potere, l'amicizia di Makarios, la stima degli altri politici che ora lo consideravano
un avventuriero capace di qualsiasi leggerezza, e infine s'era guadagnato l'odio di
Papadopulos che perfino in pubblico aveva giurato di fargliela pagare. Chi aveva
organizzato la trappola dell'appuntamento nel villaggio fuori mano, i suoi boia
personali o i suoi compari della Cia? Forse entrambi, in un'operazione coordinata,
e comunque il tuo grande amico non c'era più: l'uomo che aveva creduto in te,
che ti aveva aiutato, che ti aveva insegnato, che tu ammiravi con l'entusiasmo di
un bambino invaghito del suo maestro. Morto anche lui, come Giorgio. A causa
tua, come Giorgio. A un certo punto i singhiozzi si fecero così convulsi che ti
mettesti a vomitare, e cadesti ammalato. Fosti ammalato un mese. Ed eri appena
guarito quando Zakarakis ti portò il nuovo dolore: Su, preparati. Svelto. Il signor
presidente ti fa uscire qualche ora. perché? perché tuo padre sta morendo e il
signor presidente ti permette di andare a salutarlo. Che gesto magnanimo, eh?
Fosse per me, neanche in fotografia te lo farei rivedere.

Amavi tuo padre con tenerezza. Anni dopo mi avresti confessato di non aver mai
sentito quella tenerezza per tua madre, così dura e virile e sufficiente a se stessa,
ma d'aver sempre provato una tenerezza struggente per tuo padre. Forse perché
tuo padre era molto più vecchio di lei: s'era sposato da vecchio e aveva avuto i
figli da vecchio, li aveva cresciuti da vecchio, cioè con le indulgenze di un vecchio.
Quand'eri bambino e ti nascondevi sotto il letto per sfuggire alle botte materne, lì
restavi giornate intere vincendo la fame e la voglia di fare pipì, lei strillava: Esci
che devo dartene ancora. Lui invece sussurrava: Esci che non ti succederà nulla,
ci sono io. Quand'eri scolaro e non sopportavi i pomeriggi in casa a studiare, lei ti
chiudeva in camera con doppia mandata, lui ti strizzava l'occhio e: Scappa! Poi ci
penso io. Eppure non era mai stato un ribelle, tuo padre. Militare di carriera, era
cresciuto alla scuola dell'ubbidienza e il coraggio lo aveva sempre sprecato nelle
guerre coi cannoni e fucili. L'esercito era il suo mondo, la patria bandiera il suo
dio, e che dispiacere aveva provato quando avevi scelto lo studio della matematica
anziché l'uniforme di ufficiale come Giorgio! Che dolore quando avevi disertato,
che smarrimento quando eri finito in prigione, che strazio quando avevano
arrestato anche lui per centotre giorni! Lo avevi saputo dopo cosa gli era successo
in quei centotre giorni. Schiaffi e insulti e maltrattamenti d'ogni genere malgrado i
suoi settantasei anni, le sue medaglie, il suo grado di colonnello. Se tu non avessi
altre colpe, hai quella d'aver messo al mondo un delinquente! Oppure: perché
vuoi andare a casa? Tua moglie t'ha abbandonato, s'è data alla bella vita, ne
aveva abbastanza di un rottame come te. Uno schiaffo più forte lo aveva reso
quasi cieco da un occhio, un'umiliazione più profonda gli aveva procurato una
paralisi fisica e mentale: da otto mesi fluttuava in un limbo privo di tristezza e di
gioia ne ricordava nulla di ci che era avvenuto. Non immaginava nemmeno che tu
fossi un ergastolano su cui pendeva ancora una condanna a morte, dalla sua
poltrona o dal letto chiedeva sempre le medesime cose: Alekos dov'è? All'estero.
Che ci fa? Studia. perché non viene a vedermi? Verrà. Voglio vederlo, voglio
abbracciarlo prima di morire. Anche tu avresti voluto abbracciarlo. V'erano
momenti in cui lo desideravi in modo così pungente che ti sembrava d'essere
tornato bambino e... Zakarakis si agitò, impaziente. Allora ti prepari o no per
andar da tuo padre prima che muoia? No. No?! Hai detto no?! Ho detto no,
Zakarakis. Il tuo Papadopulos non si servirà di me per recitare la commedia della
magnanimità. Non chiamerà la stampa e la televisione a documentare il viaggio

del figliol prodigo al capezzale del padre morente. Vattene, Zakarakis. Bestia
senza cuore! Vattene, Zakarakis. Cambierai idea, la cambierai! Vattene o ti
strozzo, Zakarakis. Zakarakis se ne andò e la sera seguente tornò: E morto,
carogna! Morto senza riabbracciarti!.
Lì per lì non reagisti, quasi tu fossi sordo o muto o non te ne importasse. Ma poi
Zakarakis sputò per terra, forse indignato da ci che gli sembrava noncuranza, e il
tuo corpo scattò, dalla tua bocca uscì un ruggito che non aveva nulla di umano:
Zakarakiiiiiis!. Lo afferrasti alla gola. Lo stringesti finché il suo volto divenne
cianotico, la sua lingua si allungò orrendamente. Quando le guardie riuscirono ad
allentarti le dita lo avevi quasi strangolato.
CAPITOLO V
Come l'acqua di una cannella che goccia monotona, sempre uguale a se stessa,
martellando rintocchi ossessivi nel silenzio della notte vuota, sicché a forza di
udirla ti senti impazzire e invochi un rumore diverso, uno schianto magari, uno
sparo che uccida, tutto fuorché quell'atroce uniformità, quel buio, così
trascorsero gli anni dopo la sera in cui Zakarakis ti disse che tuo padre era morto
e le guardie ti impedirono di strangolarlo. In quegli anni, infatti, non uscisti mai
dal tuo sepolcro illuminato soltanto dalla lampada blu, non oltrepassasti mai la
soglia oltre la quale c'era il giorno e la notte, il sole e le stelle e la pioggia e il
vento. Neanche per sgranchirti le gambe, per prendere una boccata d'aria.
Neanche per essere ricoverato all'infermeria quando entravi in stato di coma,
neanche per vedere tua madre quando le permettevano di visitarti. Prima i
colloqui con lei si svolgevano al parlatorio degli altri detenuti, sicché uscivi e
facevi centoventisei passi all'andata e centoventisei passi al ritorno, camminando
vedevi il cielo. Dopo quella sera invece la incontrasti sempre nella tua cella, col
cancellino che vi separava. Eppure accaddero molte cose in quegli anni. Accadde
anzitutto che incominciasti a conoscermi attraverso i libri che avevo scritto e gli
articoli che qualche volta mi venivano pubblicati sui giornali di Atene.
Accadde che in seguito a questo imparasti la mia lingua, studiandola al ritmo di
venti vocaboli e due verbi irregolari al giorno: affinché ci potessimo parlare dopo
esserci incontrati.
Lo sforzo mnemonico ti serviva oltretutto a combattere l'inerzia mentale che viene
con l'isolamento, la terribile nebbia che spegne la capacità di concentrarsi e

perfino di inseguire un ricordo, abbandonarsi a una fantasticheria. E poi, come
vedremo, accadde che in quegli anni scrivesti le tue poesie più belle. Ma
soprattutto accadde che non ti rassegnasti mai, che non abdicasti mai al tuo
ruolo di eroe che non cede. Diciassette volte fosti sorpreso a segare le sbarre del
cancellino con le minuscole lime che servono ad aprire le fiale dei medicinali,
cinquantadue volte fosti punito col sequestro della penna, della carta da scrivere,
della grammatica italiana, del vocabolario del Rapaccini, dei giornali e dei libri;
ventinove volte col sequestro delle scarpe e delle sigarette. Diciotto volte ti
picchiarono fino a farti svenire, altrettante ti misero la camicia di forza gridando
che eri pazzo, e quanto agli scioperi della fame furono tanti che presto ne perdesti
il conto. Parlandone con me ed enumerando quell'elenco minuzioso, ricordavi
soltanto i più lunghi: sette di quindici giorni, quattro di venticinque giorni, due di
trenta, uno di trentasette, uno di quaranta, uno di quarantaquattro, uno di
quarantasette. durante questi ultimi ti nutrivi esclusivamente d'acqua e caffè
zuccherato, una scheggia di cioccolata nascosta nel materasso, e diventavi così
scheletrico che il medico era costretto a nutrirti con la sonda nel naso. Il
tormento peggiore. Non lo sopportavi proprio quel tubo che attraverso l'alveolo
nasale ti scendeva in gola e poi giù nell'esofago, perché ti soffocava come la mano
di Teofilojannacos ai tempi dell'interrogatorio e in più ti dava la voglia di vomitare
senza poter vomitare. Appena te lo infilavano nella narice pensavi basta col
digiuno, basta! Poi ricominciavi, e va da se che ricominciavi soltanto per tenerti in
esercizio: v'erano casi in cui tutto ci ti appariva come la monotona ripetizione
d'un rito e avresti voluto che Zakarakis inventasse una perfidia nuova per
eccitarti un po, impedirti di sbadigliare. La prima volta che t'aveva sequestrato le
scarpe t'eri quasi divertito sebbene fosse inverno, e lo stesso quando t'aveva
messo per la prima volta la camicia di forza. T'era sembrata una curiosità. Col
tempo invece ci avevi fatto l'abitudine ed ora l'unico svago ti veniva dalle limette
con cui pretendevi di segare le sbarre del cancellino. Era una delizia trovarle nel
cibo che ti portava tua madre, mettere in bocca un pezzo di coniglio e sentire tra i
denti quella strisciolina d'acciaio, perché udendo il rumore del ferro raschiato
Zakarakis accorreva:
Mascalzone, che fai?! Io? Io nulla..Dove l'hai nascosta?!Nascosta cosa? La lima,
delinquente, la lima!.Che lima? Ti ho sentitooo! Segavi le sbarreee! Poi chiamava
le guardie che ti frugavano ovunque, nel risvolto dei pantaloni, nel colletto della

camicia, negli orli delle mutande, nella suola delle scarpe, ma non trovavano
nulla perché la limetta stava dove non pensavano mai di cercarla: tra i capelli, tra
i denti, tra le pagine di un libro. Eppure segavi, maledetto! Non segavo,
Zakarakis, facevo musica. E ridendo prendevi un bicchiere, lo bagnavi con la
saliva sul bordo, ci facevi scorrere l'indice per trarne il suono del ferro raschiato.
Ascolta, scemo.
Ti distraeva anche la beffa, ti aiutava anche quella a combattere il tedio:
nemmeno a prenderli in giro con le tue trovate da Cagliostro, rinunciasti mai. La
storia della rivoltella di pane e sapone ad esempio. Pazientemente, con la mollica
di pane e i residui di sapone, t'eri fabbricato un facsimile di rivoltella, poi con le
capocchie dei fiammiferi bruciati ne avevi tinto il calcio di nero, con la carta
stagnola ne avevi fasciata la canna, e una sera fosti pronto a puntarla contro le
guardie che ti portavano la cena: Mani in alto! A me le chiavi! Le guardie stavolta
erano soltanto due e disarmate, nella penombra il giocattolo sembrava proprio
una rivoltella, e quella che reggeva il vassoio lo lasciò subito andare, l'altra ti
porse tremando le chiavi. Gliele restituisti con una sghignazzata, tanto non
avresti potuto servirtene, fuori c'erano le sedici sentinelle.
Cretini! Oppure la storia del filo di ferro con cui volevi farti aprire il cancellino.
C'era un povero mentecatto a sorvegliarti nell'anticamera della cella, una recluta
appena giunta dalla campagna. Zakarakis l'aveva messo lì per impedirti di segare
le sbarre, gli aveva detto che eri un detenuto molto importante e le parole "molto
importante" lo avevano così impressionato che pur non perdendoti d'occhio ti
ubbidiva con lo zelo di un servo. Ti chiamava addirittura eccellenza. Marmittone,
accendimi la sigaretta. Sì, eccellenza. Marmittone, fammi vento.
Sì, eccellenza. Quel giorno, sul pavimento dell'atrio, c'era un filo di ferro.
Marmittone, vieni qua. Sì, eccellenza. Apri il lucchetto, devo uscire per fare pipì.
Sì, eccellenza, corro subito a prender le chiavi. Che c'entrano le chiavi, imbecille!
Il lucchetto non si apre con la chiave! Non lo vedi quel filo di ferro? perché credi
che lo tengano lì? Per aprire il lucchetto, no?. Sì, eccellenza. Mi scusi, eccellenza,
ma al mio villaggio i lucchetti si aprono con le chiavi! Cosa vuoi che mi importi
del tuo fottuto villaggio? Apri, svelto! Non la tengo più! Sì, eccellenza. Obbedisco,
eccellenza. Ma intanto non potrebbe urinare nel suo gabinetto, eccellenza?
Imbecille! Non lo vedi che è intasato? Non l'hai sentito il direttore quando mi
pregava di non farci pipì finché non l'hanno aggiustato? Svelto, raccatta il filo di

ferro, apri! Così! Tutto emozionato il poverino lavorava, lavorava, ma senza
successo. Mi perdoni, eccellenza, non ci riesco, chiamo il sergente. Se chiami il
sergente ti denuncio! Su, insisti! Non era successo nulla perché, attratte dal
battibecco, le altre guardie erano intervenute a fermarlo:
Imbecille, che stai combinando?! Ma, come nel caso della rivoltella di pane e
sapone, ci t'aveva aiutato a vincere un poco la malinconia, il senso di vuoto che lo
studio o la lettura non colmano e semmai alimentano. Infatti è proprio a studiare
e a leggere, dicevi, che in prigione misuri l'indebolirsi dell'intelletto. Lì per lì credi
d'aver imparato un verbo, e mezz'ora dopo t'accorgi d'averlo già dimenticato.
Allora lo ripassi, riprendi a declamare io vado tu vai egli va noi andiamo voi
andate essi vanno, ma le palpebre si appesantiscono, ti stendi sulla branda per
fare un pisolino e dormi l'intero pomeriggio, al risveglio la tua mente è così
intorpidita che anziché un uomo ti par d'essere un vegetale.
Non che tu avessi rinunciato all'idea di fuggire. finché l'abitudine non intervenne,
inevitabile, inesorabile, a farti accettare il sepolcro e incanalare la tua resistenza
nella vena poetica e basta, non cessasti mai di coltivar quel miraggio.
Per sempre con minor convinzione e maggior leggerezza, o sul filo conduttore d'un
umorismo affine a se stesso. Lo prova il tentativo che si concluse con una
rinuncia evidentemente radicata negli abissi del tuo subconscio, il tentativo nel
quale coinvolgesti la guardia che aveva rimpiazzato il mentecatto col filo di ferro:
un giovanotto che sognava di fare l'attore. Poche battute t'erano bastate a dedurre
che anche la sua intelligenza era scarsa e potevi giocarlo a tuo piacimento, sicché
avevi subito preso a circuirlo. Uhm! Dunque vorresti fare l'attore.
Non hai torto, con codesta faccia. Mettiti un po di profilo... Eh, sì, profilo
stupendo. Ti aspetta una grande carriera. E che non conosco nessuno, signor
Panagulis, nessuno. Di questo non devi preoccuparti. Dimmi, piuttosto: sei certo
di voler fare l'attore? perché è una bella carriera, io ne convengo: donne a iosa,
villa con piscina, miliardi. All'inizio richiede tali sacrifici, però. C'è chi ha rischiato
la pelle per diventare un attore: pensa a Lawrence Olivier, a quel che fece per
Churchill. Che fece?. .E una storia lunga, un giorno te la racconterò. Intanto
dimmi: hai studiato recitazione? Sì, da bambino. Meglio.
Recitare è come imparare le lingue. Se le impari da bambino, non le dimentichi
più. Sei fotogenico? Oh, sì. Ma perché me lo chiede?. perché posso aiutarti. Qui?

Stando qui?. Non esattamente. Domani ne parliamo. L'importante è che tu non
apra bocca con Zakarakis. Odia gli attori, il teatro, il cinema.
E invidioso.. Stia tranquillo, signor Panagulis. Puoi darmi del tu. Stai tranquillo,
Alekos. Bene. Domani portami le fotografie.. E l'indomani: Ottime. Nessun
dubbio, sei fotogenico.
Uhm! Sei mai stato a Roma? Mai. Meravigliosa città. I miei amici più cari stanno
tutti a Roma. Sofia mi diceva sempre...
Sofia? Quale Sofia? Non interrompermi. Sofia Loren, no? A Roma abitavo in
un'ala del suo castello. Eh, sì. Fu lì che preparai l'attentato, ma non dirlo. Suo
marito, figurati, mi aiutò addirittura a fabbricare le mine. In cambio mi chiese
soltanto di scrivergli una sceneggiatura. Una sceneggiatura? Hai scritto una
sceneggiatura per Sofia? Non per Sofia, per Carlo! Carlo suo marito, il produttore!
Oh! Con lo pseudonimo, s'intende...Oh!..Che c'è di strano, avrei dovuto forse
rifiutare un favore a un amico che rischiava la galera per me?. No, no! Dunque,
dicevo, Roma è la città adatta ad entrare nel cinema.
L'unica. Anche Marlon Brando, ormai, se vuole girare un film, deve andare a
Roma. E se ci tieni davvero a diventare un divo, macché Hollywood! Devi andare a
Roma. Uhm! Fammi rivedere le fotografie. Eccole. Ottimo. Il naso è ottimo. E
anche il profilo destro. Il profilo sinistro un po meno. Che strano, proprio come
Lawrence Olivier. Ricordami di raccontarti la storia di Churchill e di Lawrence
Olivier. Be', sì: credo di poterti raccomandare a Sofia. Anzi a Carlo. Sofia in
queste cose non conta. Tutt'al più, quando Carlo ti ha firmato il contratto, può
chiederti come partner. Per via dei tuoi lineamenti marcati, virili. Che dici,
Alekos?! Davvero? Calma, ragazzo. Non crederai mica che abbia la bacchetta
magica? E poi Carlo è prudente. Ci metterà un anno prima di affidarti un ruolo a
fianco di Sofia. Ti terrà in prova, ti scaraventerà alla televisione. Per me va bene
anche la televisione. Sì, ma non voglio illuderti. La televisione non offre i guadagni
del cinema. Sarà molto se riuscir a farti dare cinquantamila dracme al mese.
Cinquantamila?!? Ti sembra una fortuna, eh? E una miseria invece. In seguito,
per, puoi guadagnarne anche cinquecentomila..
Così per giorni e giorni, mentre lui si esaltava sempre di più e tu aspettavi il
momento giusto per infliggergli il colpo finale. Il momento giunse quando lui ti
chiese di scrivere una lettera a Carlo e Sofia. Sei impazzito? Vuoi che rovini i miei
amici, l'uomo che mi ha aiutato a preparare la bomba? Non lo sai che lavora con

gli americani? Non lo sai che se la lettera andasse perduta finirebbe in prigione
anche lui? E poi ti sembra che una richiesta simile si possa fare per lettera?
Bisogna parlarci di persona, no? Bisogna che venga a Roma con te! Mi sembrava
sottinteso! Se non mi dai una mano a scappare, in che modo posso aiutarti a
diventare attore? Scappare! Ma è difficile, Alekos, è pericoloso! Macché difficile,
macché pericoloso! Ci riuscì perfino Lawrence Olivier con Winston Churchill.
Cretino! Ignorante! Studia la storia, studia! Non sai nemmeno che Churchill
scappò da quella prigione nazista perché lo aiutò Lawrence Olivier! E Lawrence
Olivier non era una guardia, faceva il cuciniere! Per lui sì che era difficile,
pericoloso. Ma Churchill non si dimenticò mai del favore. E quando divenne
primo ministro lo impose! Disse d'accordo, il profilo da una parte non va, ma
Larry è il mio amico, profilo o non profilo voglio che diventi Lawrence Olivier! Il
fatto è che Lawrence Olivier aveva coglioni, e tu non li hai. Ho perso tutto questo
tempo a occuparmi di te, e guarda con quale risultato.
Via! Vai via! Non voglio vederti mai più! No, Alekos, ascolta...
Via! Fuori! Per due settimane facesti l'offeso, e inutilmente lui ti pregava di
perdonarlo, ti spiegava che la sua esitazione era stata un attimo di debolezza, che
non si sarebbe ripetuta mai più. Rifiuto di ascoltarti! Gli parlasti di nuovo
soltanto quando si buttò in ginocchio e ti supplicò di permettergli di aiutarti a
scappare: eri la sua sola speranza, non aveva nessun altro che gli desse una
mano a diventare un attore, esaudire la sua vocazione, se a Roma ci fosse andato
senza di te il Carlo e la Sofia non lo avrebbero degnato d'uno sguardo. Accettasti
l'offerta con l'aria di fargli un immenso regalo. Che se lo mettesse bene in testa
per: capitolavi soltanto per il maledetto vizio che ha nome generosità. Infatti non
vedevi perché avresti dovuto rivolgerti a lui anziché a Lawrence Olivier che era
così coraggioso e aveva telefonato a tua madre offrendoti i suoi servigi. Lawrence
Olivier?! Davvero?! Certo. Non che Larry facesse nulla per nulla, lo sapevi
benissimo che t'offriva i servigi per condurti a Londra e avere la tua sceneggiatura
dell'Edipo re, ma Londra non ti piaceva, troppa nebbia e troppa monarchia,
quindi: Accontenterò te. Organizziamoci. Solita uniforme, solita ora notturna, e
poi un mezzo per espatriare lo avreste trovato. Quanto al problema delle sedici
guardie intorno al sepolcro, non era il caso di preoccuparsi: fin lì il piano Sofia
era ben concepito. In quel periodo il rancio serale continuava ad esserti portato
da due guardie soltanto, e non di rado una delle due era l'aspirante attore. L'altro

era un tipo che di cervello valeva ancor meno: bastava stordirlo, spogliarlo,
legarlo alla branda, tappargli la bocca con un bel cerotto e indossare la sua
uniforme. Tu non hai che procurarmi una corda e un cerotto, ragazzo.
L'indomani l'aspirante attore portò la corda e il cerotto: Stasera siamo di turno io
e lui. Bene. Nascondesti la corda dietro il water closet, il cerotto sotto un'ascella,
e aspettasti.
Ma ti mancava l'entusiasmo, mi avresti raccontato, e al calar del buio ti colse un
gran sonno: ti addormentasti sognando di possedere una donna. Succedeva molto
raramente che tu sognassi di possedere una donna, dopo la notte di Egina t'era
capitato sì e no quattro volte e ogni volta era durato pochissimo perché il timore
di non fare in tempo, d'essere condotto dinanzi al plotone prima dell'orgasmo
finale, era rimasto in te come un complesso. Stavolta invece fu un sogno assai
lungo.
Ti sembrava d'aver dinanzi l'eternità e penetravi la donna con calma, coi
movimenti quieti e soavi di un mare tranquillo che lambisce la spiaggia in carezze
di spuma, poi si ritira piano, indugia paziente prima di tornare, lambire di nuovo
con nuova lentezza, ed era dolce rinviare lo scoppio, l'attimo in cui il mare si
sarebbe ingrossato per schiantarsi in una scarica d'acqua ruggente, era squisito
gonfiare l'attesa di una conclusione che non poteva negarsi, che ora si
approssimava, di più sempre di più, ancora un poco e l'ultima ondata si sarebbe
infranta schizzando i suoi spruzzi gloriosi. Ecco che saliva, veniva, sta va per
travolgerti, e... Sveglia, Alekos, sveglia! Sono qui, siamo qui! L'aspirante attore ti
scuoteva con entrambe le mani e il suo sguardo ammiccava, supplicava, indicava
il compagno che avresti dovuto aggredire. Lo guardasti furibondo: Sciagurato,
non mi hai fatto finire! Poi, sempre gridando non mi hai fatto finire, non mi hai
fatto finire, lo cacciasti tirandogli dietro il vassoio della cena. Se ne andò tra i
singhiozzi. Pazzo, ripeteva, eri pazzo, avevano ragione a metterti la camicia di
forza. Poi chiese a Zakarakis d'essere dispensato dal servizio nella tua cella e non
lo rivedesti più. Ne ti dispiacque. Non era poi tanto scomoda la tua branda, non
era poi tanto piccola la tua cella: t'eri ormai abituato al sepolcro.
L'abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi
disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte.
Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a
subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto.

L'abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente,
silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e
quando scopriamo d'averla addosso ogni fibra di noi s'è adeguata, ogni gesto s'è
condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci. La sera in cui avevi
rinunciato a tentare di nuovo la fuga era successo ben questo. Era successo cioè
quel che non avresti mai creduto possibile: gli spazi aperti e il verde e l'azzurro e
la gente non ti mancavano più. D'estate, quando il sole filtrava dal soffitto
dell'anticamera e formava sul pavimento dell'atrio una gora compatta di luce, il
riflesso ti dava un tale fastidio che sbattendo le palpebre ti rifugiavi nell'angolino
più scuro della tua cella e qui restavi fino al tramonto come una talpa che non
esce mai dalla tana. Se Zakarakis t'avesse costruito una finestra per farti vedere il
cielo di giorno e le stelle di notte, l'avresti tappata con un giornale.
E tuttavia esisteva qualcosa che l'abitudine al buio, alla mancanza di spazio, alla
monotonia non avevano spento: la tua capacità di sognare, di fantasticare, e di
tradurre in versi il dolore, la rabbia, i pensieri. Più il tuo corpo si adeguava, si
atrofizzava nella pigrizia, più la tua mente resisteva e la tua immaginazione si
scatenava per partorire poesie. Avevi sempre scritto poesie, fin da ragazzo, ma fu
in quel periodo che la tua vena creativa esplose: incontenibile. Decine e decine di
poesie. Quasi ogni giorno una poesia, magari breve. Non piangere per me / Sappi
che muoio / Non puoi aiutarmi / Ma guarda quel fiore / quello che appassisce ti
dico / Annaffialo. Oppure: Amai tanto la luce / che una candela mi riuscì
d'accendere / Ma sprecai quell'opaco esiguo lume / Che prima di gioirne /
avvertii disperato / di proiettare altrove un buio peso / perché la stessa luce che
tenevo / con l'ombra del mio corpo / colmava di buio le mie strade. Oppure: Non
ti capisco, Dio / Dimmi di nuovo / Mi chiedi di ringraziarti / o di scusarti? Le
scrivevi anche se Zakarakis ti sequestrava la carta e la penna, perché allora
afferravi una lametta che tenevi da parte per questo, ti incidevi il polso sinistro,
inzuppavi nella ferita un fiammifero o uno stecchino, e scrivevi col sangue su ci
che capitava: l'involucro di una garza, un pezzetto di stoffa, una scatola vuota di
sigarette. Poi aspettavi che Zakarakis ti restituisse la carta, la penna, copiavi con
calligrafia minutissima, attento a non sprecare un millimetro di spazio, piegavi il
foglio ricavandone strisce sottili, e lo mandavi nel mondo a raccontare la fiaba di
un uomo che neanche nell'abitudine cede. Gli stratagemmi erano vari: buttare i
nastrini di carta nella spazzatura perché una guardia amica li raccogliesse,

infilarli nelle cuciture dei pantaloni che mandavi a casa per lavare, farli scivolare
addosso a tua madre quando veniva a trovarti.
Prima per imparavi i versi a memoria, onde prevenirne lo smarrimento o la
distruzione, e che battibecchi quando Zakarakis pretendeva di leggerli per
censurarli o approvarli. Dove li hai messi? Dammeli! Non lo sai che in carcere il
direttore deve censurare qualsiasi scritto? Lo so ma non posso darteli, Zakarakis.
Li ho chiusi nel mio magazzino. Quale magazzino?! Voglio vedere il magazzino!
Eccolo qui, Zakarakis. E indicavi la testa. Non ci credo, fottuto bugiardo, non ci
credo!Avrebbe dovuto, al contrario, perché in quel magazzino avremmo ritrovato,
anni dopo, tutte le poesie perdute o distrutte: per pubblicarle in un libro che
molti pensavano fosse l'inizio di una carriera letteraria.
E va da se che i battibecchi non nascevano solo per le poesie. A volte, sui fogli che
Zakarakis pretendeva di censurare, accanto alle parole spiccavano numeri strani,
calcoli misteriosi: aggrappato come un naufrago alla zattera della tua mente,
avevi ripreso anche a studiar matematica. Dimmi cos'è! E un teorema, Zakarakis.
Che teorema? Se te lo dicessi, non capiresti nulla. perché sono cretino, eh? Sì, lo
sei. Quindi chiudi il becco e lasciami in pace. Di solito, sconfitto dalla sua
ignoranza, egli batteva in ritirata. A volte invece insisteva e nascevano risse
grottesche, tensioni che riportavano ai tempi della guerra cattiva. Fiorì dalla
matematica infatti lo scontro che avrebbe avvelenato i tuoi ultimi mesi a Boiati.
Era la primavera del 1973, e quel giorno Zakarakis era tornato a cercare il
magazzino dove nascondevi le poesie. dov'è? Dimmi dov'è? Te l'ho detto,
Zakarakis, nella mia testa. Non è vero, non è possibile, non puoi ricordarle tutte!
D'un tratto lo sguardo gli cadde su un bigliettino su cui avevi scritto: Xn + yn =
Zn,, Lo catturò con un balzo: E questo cos'è? Non vedo numeri qui. Ah, questo è
un cifrario, mascalzone! No, non è un cifrario, Zakarakis. Non lo è? Vuoi che
chiami il signor brigadier generale? Vuoi che ti costringa lui a dire chi sono X e Y
e Z? E le enne? Chi sono le enne? Gli indicasti la branda, lo invitasti a sedere.
Vieni qui, Zakarakis. No, altrimenti mi togli i calzoni e cerchi di violentarmi come
quel giorno. Non ti violenterò, Zakarakis. Te lo prometto. E mi dirai chi sono X e Y
e Z, chi sono le enne? Te lo dirò, Zakarakis. Le enne sono numeri. X e Y e Z sono
incognite. Mascalzone, bugiardo! Credi di prendermi in giro, eh? Lo scoprir io chi
sono quegli incogniti!. Saresti davvero un genio, Zakarakis, perché in trecento
anni non c'è riuscito nessuno. Trecento anni? Lo vedi che mi prendi in giro, lo

vedi? Guardie, legatelo! Ti legarono alla branda, ed eri stranamente docile.
Zakarakis, invece, sempre più arrabbiato. Ora parlerai, eh? Parlerai.
Parlerò, Zakarakis. E se non capisci, appena mi sleghi ti calo i calzoni. Parla!
Bene, seguimi. Se enne è un intero positivo superiore a due, l'equazione non pu
essere soddisfatta da valori interi e diversi da zero delle incognite X, Y, Z.
Quindi....
Farabutto! Delinquente! Ecco che cosa sei, un farabutto! Un delinquente! E tu sei
un imbecille, Zakarakis. E colpa mia se l'equazione dice così? Che equazione,
disgraziato? Quella che hai in mano: Xn più yn uguale a Zn, E un'equazione,
Zakarakis, un'equazione matematica. Lo sai che studiavo matematica al
Politecnico. E se parti dal presupposto che il calcolo differenziale... Bastaaa! Uscì
quasi piangendo. In mano teneva il bigliettino con cui avrebbe scoperto il
complotto. perché solo di questo poteva trattarsi, perbacco, di un complotto per
scappare un'altra volta. E bisognava sventarlo, dimostrarti che l'imbecille eri tu.
Per notti Zakarakis lo studiò, deciso a guadagnarsi l'encomio di Joannidis.
Naturalmente avrebbe potuto rivolgersi al servizio di spionaggio, al Kyp, ma
questo avrebbe significato regalare agli altri un merito che voleva tutto per se. E,
senza interpellare nessuno, arrivò alle seguenti conclusioni. Le tre enne erano tre
soldati che facevano parte del complotto per farti fuggire; il signor X, il signor Y, il
signor Z erano tre civili che operavano dall'esterno. X per Xristos o Xristopulos o
Xarakalopulos. Ammenoche, invece di indicare persone, X e Y e Z indicassero
nomi di paesi o città. In tal caso X avrebbe potuto riferirsi a Xania, capitale di
Creta, e Y allo Yemen, Z a Zurigo. Oppure X stava per Xristugenna cioè per
Natale? Sicuro, Natale, ecco quel che significava: con la complicità di tre soldati il
giorno di Natale saresti scappato a Zurigo passando per lo Yemen. Tornò da te. Mi
credevi stupido, eh? Ho scoperto tutto, ho risolto tutto. Tutto?! Perbacco,
Zakarakis! No, non è possibile. Ti giuro che non è possibile. Sì che lo è. So chi è
X, chi è Y, e chi è Z. Vuoi scappare a Zurigo, mascalzone, eh? Come hai detto,
Zakarakis? Lo so che Z sta per Zurigo.
E se stesse per Zakarakis, invece? Seguì un silenzio tragico, Zakarakis ti guardò
come un ebete. Perbacco, a questo non aveva pensato! Se Z stava per il suo
nome, ci significava una cosa sola: che con la complicità dei tre soldati e di un
signor Y volevi ammazzarlo a Natale. Vuoi farmi ammazzare, eh? Avrei dovuto
immaginarlo! No, Zakarakis. Sei così scemo che ammazzarti sarebbe un errore.

Mi annoierei a morte senza di te. Ti giuro che non si tratta di te. Si tratta di
Fermat. Chi è? Non lo conosco! Non puoi, Zakarakis. E vissuto trecento anni fa.
Era un matematico che si occupava anche di politica e di letteratura,
particolarmente versato nel calcolo differenziale e nel calcolo delle probabilità.
Questa equazione... Di nuovo scappò e non ti dette il tempo di spiegargli che
l'equazione esisteva, era il famoso problema di Fermat, lui l'aveva risolto ma il
testo era andato perduto, sicché da tre secoli si cercava di dimostrare perché X
elevato a enne più Y elevato a enne è uguale a Z elevato a enne, nessuno ci
riusciva e l'Accademia inglese delle Scienze aveva bandito un premio, e ora tu
volevi tentar di vincer il premio, non tanto per i soldi quanto per il piacere di
infliggere uno schiaffo morale a chi ti teneva dentro quel sepolcro. Ma avvenne di
peggio, avvenne che Zakarakis ordinò di sequestrarti la carta e la penna, e che
cercassero bene, che non ti restasse neppure un mozzicone di matita, un
cartoncino, una garza. Cercarono bene. Trovarono perfino la lametta arrugginita.
E ora, senza la carta e la penna, neanche la lametta per tagliarti i polsi e stillarne
sangue da usare per inchiostro, risolvere il problema diventava un'impresa
impossibile. Ci provasti. Era come acchiappare un'anguilla con le mani. E appena
fissavi nella memoria un passaggio dell'equazione esso ti sgusciava via, una cosa
è imprimere nella mente dei versi e una cosa è imprimervi dei calcoli matematici.
Un pomeriggio comunque ti parve d'aver trovato la soluzione.
sicché tutto eccitato ti aggrappasti alle sbarre e: Cartaaa! Pennaaa! Prestooo! Per
favore, vi prego! Ma nessuno rispose e, quando Zakarakis ti restituì carta e
matita, era troppo tardi.
Avevi dimenticato ogni cosa.
Anni dopo ne parlavi ancora con amarezza. O meglio, incominciavi a raccontare la
storia ridendo e, verso la fine, la tua voce e il tuo volto si appannavano
d'amarezza. Dicevi che quell'episodio t'aveva ferito più di molti pestaggi, che in
seguito ad esso avevi maturato nei riguardi di Zakarakis uno strano sentimento,
quasi un'indulgenza che incrinava il tuo culto per la responsabilità del singolo,
dell'individuo. perché la conclusione della vicenda era stata straziante per
entrambi.
Incapace di stabilire se X e Y e Z stessero per Xristos o Xristopulos o
Xarakalopulos o Xania o Xristugenna, e Y per Yemen, Z per Zurigo o per lui
stesso, Zakarakis s'era infatti rivolto al Kyp. E il Kyp, con sprezzante ilarità, gli

aveva risposto che avevi ragione tu, non si trattava di un complotto bensì del
famoso problema di Fermat, matematico francese del Seicento: il signor direttore
evitasse segnalazioni ridicole. Te l'eri visto arrivare pieno di sgomento, tenendo in
mano un quaderno e due matite biro, una rossa e una blu, e: Io... ecco... io sono
venuto a dire che mi dispiace perché ho saputo che quel Fermot è morto davvero.
Non Fermot, Zakarakis: Fermat. Fermot o Fermat per me è lo stesso. Qui ci sono
due biro e un quaderno. Non mi servono più, Zakarakis. Non ricordo più ci che
avevo trovato. Magari ti tornerà in mente. Non credo. Vai, Zakarakis, vai. Sulla
soglia per lo avevi bloccato:
Ehi, Zakarakis! Sì... Ascolta, Zakarakis. Te l'ho detto appena ci siamo conosciuti
e te lo ripeto ora: sei un incredibile stronzo ma non ne hai colpa. E quando sarai
sulla panca degli imputati, io verrò a testimoniare contro di te, dir proprio questo:
era un incredibile stronzo ma non ne aveva colpa. E chiederò che tu sia
condannato soltanto a stare una settimana qui dentro.
Io sono il capo, io! Sono il direttore!
Tu non sei nulla, povero Zakarakis. Nulla fuorché un simbolo del gregge che
subisce e ubbidisce sempre a chi comanda. Non conti nulla, non conterai mai
nulla, e sarai sempre fottuto da tutti, povero Zakarakis, che tu lo voglia o no.
Questo è il punto: che tu lo voglia o no. Poi t'eri disteso sulla branda a oziare e
centellinare la tristezza di una verità insospettata: odiarlo, ormai, ti costava
fatica.
E fu domenica 19 agosto 1973. La notte, per l'afa, non eri riuscito a dormire, la
cella bruciava come un forno: ti alzasti in cerca d'un filo d'aria e subito ti
ributtasti sulla branda, esausto.
Sul pavimento un corteo di formiche marciava con straordinaria linearità.
Venivano dall'anticamera, passando sotto il cancellino e attraversando la cella in
diagonale, poi andavano a finire dietro il water closet in un nastro compatto. Le
avevi notate da una settimana e lì per lì volevi ammazzarle ma t'eri ricordato dello
scarafaggio morto sotto lo scarpone della guardia e t'eri trattenuto. Avevi
addirittura deciso di stare attento a non pestarle e, ogni volta che ti recavi al
gabinetto o camminavi su e giù, le scavalcavi con cura. Del resto se lo
meritavano: si trattava di formiche molto educate, non salivano mai sulla branda,
e osservarle era piacevole. Le contasti: erano centotrentasei e la

centotrentaseiesima trascinava una pagliuzza di cipresso. Il cipresso! Chissà se
era cresciuto in quegli anni.
Non lo avevi più rivisto dal giorno in cui eri tornato dall'infermeria di Gudì, dopo
l'incendio, e non è assurdo avere accanto un albero che non si vede? Un albero è
meglio di un corteo di formiche e anche d'uno scarafaggio. Quand'era morto lo
scarafaggio? Il 23 novembre 1968. Quasi cinque anni, mioddio! Chissà se eri
molto invecchiato in quei cinque anni. Non potevi saperlo perché Zakarakis non ti
concedeva uno specchio, temeva che tu lo usassi come arma, diceva che era già
troppo consentirti il bicchiere su cui suonavi le tue musichine, e per guardarti in
faccia dovevi aspettare che il parrucchiere venisse a tagliarti i capelli o a farti la
barba. Per lo specchio ce l'aveva di rado. A Pasqua ce l'aveva, e ci avevi gettato
uno sguardo e t'eri impressionato. Non ti riconoscevi in quel visuccio cencioso,
quelle rughe che solcavano le guance per affogare nei baffi, quella pelle
verdognola: dimostravi cinquant'anni. E ne avevi trentaquattro appena compiuti.
Sono sempre così? avevi chiesto. E il parrucchiere: No, no. Sbadigliasti. Prendesti
la grammatica italiana per dedicarti un po al congiuntivo: Se io fossi amato, se tu
fossi amato, se egli fosse amato, se noi fossimo amati, se voi foste amati, se essi
fossero amati... Se io fossi capito, se tu fossi capito, se egli fosse capito, se noi
fossimo capiti, se voi foste capiti, se essi fossero capiti... Dopo la faccenda di
Fermat non avevi più voglia di consumarti nella matematica. Quanto alle poesie
incominciavi a sentirtene sazio. L'anno fecondo era stato il 1971, avevi scritto
allora quella di cui andavi maggiormente fiero, Viaggio, e quella per Giorgio,
quella per Morakis, quella per Gheorgazis, e le sestine meglio riuscite. Nel 1972
avevi composto le Quartine d'Autunno ed altre cose buone ma brevi: era stato un
anno povero.
Quest'anno, poi, non avevi messo insieme che una trentina di versi. Troppo poco.
Il fatto è che v'erano settimane di completo torpore, giorni in cui il corpo non
partecipava all'attività del cervello e perfino una penna in mano ti pesava.
Buttasti via la grammatica italiana, raccogliesti un vecchio giornale. Ormai lo
conoscevi a memoria eppure non ti stancavi mai di rileggerlo. Parlava della
mancata rivolta della Marina e del breve arresto dell'ex ministro Evanghelis
Averoff. Non ti piaceva quell'Averoff. Prima del golpe non ti piaceva perché era
monarchico e reazionario, ora non ti piaceva perché era stato scarcerato un po
troppo presto. Suvvia, uno ammette d'aver partecipato a un complotto per

rovesciare il regime e poi se ne torna a casa senza che gli sia torto un capello?
Prego, signor Averoff, s'accomodi, quella è l'uscita, i miei rispetti, stia bene..
Ammenoché... Non era stato lui a ideare la cosiddetta politica del ponte? gettare
un ponte tra la Giunta e l'opposizione.. Opposizione! Quale opposizione? La sua?!
Sì, la sua scarcerazione nascondeva una trappola: anche dentro quel sepolcro
annusavi puzzo di trappola. Non ti saresti meravigliato se, col contributo diretto o
indiretto di Averoff, Papadopulos avesse fatto uno sgambetto, ad esempio
ricorrendo a una falsa democrazia per legalizzare la Giunta, costituzionalizzarla.
Anzi ti tagliavi la testa se di tutto questo non esistevano le prove. Ah, poterne
avere le prove, i documenti! Poter fornire un giorno la verità, dimostrare che i veri
colpevoli sono coloro che si nascondono dietro il paravento della rispettabilità, i
dignitosi signori che usano chiunque e se la cavano sempre, qualsiasi regime
venga e qualsiasi regime cada. Gli Averoff. Il Potere che non muore mai, che si
veste di tutti i colori, di tutte le menzogne. Ti prese una gran rabbia. Ti tornò
l'energia. Ti rizzasti in piedi sulla branda e, con la biro rossa di Zakarakis,
scrivesti sul muro: Tha martiriz. Io documenterò. Nello stesso momento il silenzio
domenicale venne squarciato da grida gioiose: Zito, zito! Evviva, evviva! Saltasti
giù dalla branda, ti aggrappasti alle sbarre per ascoltare meglio. Chi gridava così,
i detenuti o i soldati? Zito, zito! Evviva, evviva! Erano i detenuti a gridare. E in un
lampo comprendesti. C'è un'unica cosa che fa gridare evviva in un carcere:
l'amnistia. Dunque ci che temevi era già successo: la politica del ponte aveva già
dato i suoi frutti, il Potere s'era accorto che bisognava allentare le corde e aveva
convinto Papadopulos a concedere un'amnistia per cianciare meglio sulla
normalizzazione, la democratizzazione. Ammenoché la dittatura non fosse caduta
e gli evviva non si riferissero al miracolo.
Aspettasti le guardie col rancio.
Che c'è? Chi applaudono? Sono contenti, domani tornano a casa. Chinasti la
testa, affranto dalla conferma. E se avessero scarcerato anche te? Accidenti,
questo sì che sarebbe stato un guaio! Dopo chi avrebbe potuto parlare di vera
tirannia? Suvvia, avrebbero detto, non è tanto cattivo quel Papadopulos, e in ogni
caso è intelligente: non volle fucilare il suo attentatore sebbene costui avesse
rifiutato di chieder la grazia, e ora lo rimette addirittura in libertà! E la tua lotta
di cinque anni, il tuo sacrificio, il tuo dolore si sarebbero neutralizzati. No, non
volevi che ti scarcerasse. Non volevi diventare il suo strumento, il suo complice!

Una cosa è guadagnarsi la libertà con la fuga, e una cosa è ottenerla in regalo dal
proprio nemico. E dicendoti questo camminavi su e giù, su e giù, pestavi le
formiche: dimentico della loro esistenza.
Ci pensasti tutta la notte, ora credendoci ora no, e quando non ci credevi ti
sentivi tranquillo, quando ci credevi la tua coscienza si divideva in due. Un uomo
è un uomo, e un uomo è fatto di generosità e di egoismi, di coraggio e di
debolezze, di coerenze e di incoerenze: se una metà di te sperava che non
accadesse, l'altra metà lo desiderava fino allo spasimo. Eri giovane, perdio eri
vivo, non ce la facevi più a stare in quella tomba! Non vedere mai il sole, non
vedere mai il cielo, non toccare mai una donna, non poterla accarezzare, non
poterle dire ti amo, stare sempre solo, solo, solo, muoversi in un budello di un
metro e ottanta per novanta, esser sepolto senza essere morto! E fuori la vita. Lo
spazio, la vita. La luce, la vita.
La gente, la vita. L'amore, la vita. Il domani, la vita. Quant'è difficile essere un
eroe. Quant'è crudele e disumano e in fondo stupido, inutile. Qualcuno ti avrebbe
ringraziato forse per esserti dimostrato un eroe? Ti avrebbe innalzato monumenti,
dedicato le strade e le piazze? E anche in tal caso, cosa te ne importava? Forse
che un monumento, una strada, una piazza restituiscono la giovinezza perduta,
la vita non vissuta? Basta, stavi bestemmiando. Non si fa il proprio dovere perché
qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per se stessi, per la propria dignità.
Sai quante creature in quel momento, a destra e a sinistra, a oriente e a
occidente, stavano in un carcere, in una cella di isolamento, sepolte vive per la
propria dignità e senza aspettarsi un grazie? Creature di cui non si sapeva
neanche il nome, ne si sarebbe saputo mai. Eroi anonimi, ignoti, anch'essi
assetati di sole e di cielo e di amore, di compagnia, anch'essi oppressi dalla
mancanza di spazio e di luce, anch'essi martoriati da uno Zakarakis che per
punirli gli toglieva le scarpe, le sigarette, i libri, i giornali, la penna, la carta, gli
sequestrava le poesie, gli infilava la camicia di forza: pazzo, è pazzo! Era pieno il
mondo di questi pazzi. I migliori, i pazzi, finiscono quasi sempre in prigione. Sono
quelli che si adeguano, che scendono a compromessi, che tacciono, che
ubbidiscono, subiscono, tradiscono, accettano d'essere schiavi, che in prigione
non ci finiscono mai. Suvvia, stavi forse cedendo? Bastava una voglia di correre
su un prato o lungo una spiaggia, d'avere una donna, giacerle accanto in un letto,
per farti dimenticare chi eri, chi volevi essere? Avevi tenuto duro alle torture, al

processo, all'attesa del plotone di esecuzione, alla solitudine atroce di un buio
dove per cinque anni non avevi incontrato che uno scarafaggio e centotrentasei
formiche: avresti tenuto duro anche all'amnistia, perdio. E se quella porta si fosse
aperta, se Zakarakis fosse entrato dicendo sei libero Alekos, tu gli avresti
risposto... Oddio, cosa gli avrei risposto? Chiudesti gli occhi, esausto. Ti
appisolasti. Ed era giorno avanzato quando la voce di Zakarakis ti svegliò.
Alzati, Alekos. Hai ottenuto la grazia.
Lungo è il silenzio che gela il suono di una frase molto temuta o molto agognata,
nel bene e nel male, mentre il cervello tace e il corpo si paralizza, non si muovono
i piedi, non si muovono le braccia, non si muove la testa e nemmeno la lingua:
non batte che il cuore. Poi, dagli abissi di una volontà ritrovata, parte un impulso
che non saprai mai quale fu, e un piede si muove. Si muove un braccio, si muove
una gamba, e la testa, e la lingua: il cervello torna a pensare. Ti alzasti. Che
grazia? Io non ho chiesto la grazia a nessuno, Zakarakis. Tu non l'hai chiesta ma
il presidente te l'ha concessa. Presidente dei miei stivali. Disgraziato, sto dicendo
che domani te ne vai, disgraziato, non lo capisci?! Te ne vai, ti togli dai piedi! E se
io non volessi, Zakarakis? Ti porteremmo via di peso! Di pesooo!. Ti appoggiasti
alla parete che limitava il gabinetto, infilasti le mani nelle tasche dei pantaloni,
incrociasti le gambe, provocatorio. Allora dovrete portarmi via di peso perché io di
qui non mi muovo, Zakarakis. Ti muoverai, Alekos, ti muoverai. Parli per parlare,
non sai cosa dici. Appena fuori cambierai idea. Ti accorgerai che la vita è dolce là
fuori e... E voi vi accorgerete che mettermi dentro è più facile che mettermi fuori.
Stavolta Zakarakis non rispose e, con un'alzata di spalle, si allontanò: lasciando il
cancellino spalancato. Per caso o a proposito? Lo chiamasti: Il cancellino,
Zakarakis. Hai dimenticato di chiudere il cancellino. Di nuovo Zakarakis non
rispose e proseguì verso la porta. Qui per ebbe una scintilla di genio perché, dopo
un attimo di esitazione, uscì lasciando spalancata anche quella. Lo chiamasti
ancora: La porta, Zakarakis. Hai dimenticato di chiudere la porta. E non ti
muovesti. Non facesti neanche un gesto di passare nell'atrio raggiungere la soglia,
affacciarti sul cortile. Lo desideravi pazzamente, mi avresti confidato un giorno.
Lo desideravi più di qualsiasi altra cosa al mondo. Eppure rimanesti immobile. E
un'ora dopo, quando Zakarakis tornò, stavi ancora lì: le spalle contro il muro, le
mani nelle tasche dei pantaloni, le gambe incrociate. sicché la sua scintilla di

genio svanì. Si mise a strillare ingrato, pazzo, cattivo, chiuse tutti i lucchetti e
passasti nel modo di sempre la tua ultima notte a Boiati.
La procedura che accompagna la scarcerazione per grazia o amnistia comporta
una vera e propria cerimonia col procuratore generale che legge il decreto, le
autorità carcerarie che assistono stando sull'attenti, un soldato che regge la
bandiera e un plotone che presenta le armi. Tu lo sapevi e niente di ciò che
avvenne martedì 21 agosto fu dovuto al caso. Esclusa la scena della sedia ogni
tuo gesto e ogni tua parola furono il risultato di una sceneggiatura che avevi
studiato nei minimi particolari. Per incominciare, il fatto di stare in mutande
quando Zakarakis venne a prenderti. Ma come?! Non ti sei nemmeno vestito?!.
No, perché? perché c'è la cerimonia! Che cerimonia? La cerimonia della
scarcerazione! Io non ti ho scarcerato, Zakarakis. Sei sempre mio prigioniero. Non
la mia scarcerazione, la tua! Vuoi vestirti, sì o no? No, preferisco venire in
mutande. Ascoltami, Alekos. Ti sei vendicato abbastanza. Ora fai il bravo: non
rendermi ridicolo col procuratore generale. Non puoi venire in mutande. Invece sì.
Ti prego in ginocchio, Alekos. Davvero in ginocchio? Sì, se ti vesti, mi metto in
ginocchio. Non dire stronzate, Zakarakis. Non mi piace guardare la gente in
ginocchio, nemmeno quando si chiamano Zakarakis. E lentissimamente infilasti i
pantaloni, le scarpe, una maglietta blu. Poi: Oh! La barba. E la barba,
Zakarakis?. .Fategli la barbaaa! Prestooo! perché presto? Io non ho fretta. Ce l'ho
io! Il procuratore sta aspettando! E anche il comandante! Ci sono le autorità! E a
me cosa importa delle autorità? Mi piace perder tempo col barbiere. Venne il
barbiere. Ti fece la barba. Non ti bastò e volesti che ti facesse anche i capelli. Non
ti bastò e volesti che ti sfumasse anche i baffi. Zakarakis fremeva: Ora sei pronto?
No, manca l'acqua di colonia. Che c'entra l'acqua di colonia? C'entra. Non sono
mica un puzzone come te. Mi profumo, io. Panagulis, non provocarmi! E se ti
provoco cosa fai, Zakarakis? Mi metti la camicia di forza? Mi picchi? Mi trascini
alla tua cerimonia con la camicia di forza o coperto di sangue in barella?
Portategli l'acqua di coloniaaa! La portarono. Non ti piaceva. Questa non è
francese. Io uso esclusivamente profumi francesi..
Cercatela franceseee! Nessuno aveva acqua di colonia francese, per un ufficiale
del campo aveva una lozione inglese e, pronunciato un lungo sproloquio sulla
differenza che passa tra la colonia francese e la lozione inglese, ti spruzzasti di
lozione inglese. Infine, verso mezzogiorno, fosti pronto e uscisti. Ma erano tre anni

e cinque mesi che non varcavi quella soglia e al secondo passo la testa ti girò, ti
sentisti così male che furono costretti a riportarti in cella e farti stendere sulla
branda per qualche minuto. Dopo, per fare il tragitto fino ai quartieri del
comandante, ti ci vollero venti minuti. E ti reggeva un caporale perché, oltretutto,
tenevi gli occhi semichiusi. La luce del sole ti bruciava le pupille.
Nei quartieri del comandante una piccola folla di uniformi aspettava con
impazienza. Al tuo ingresso scattarono sull'attenti, impettiti, e fu allora che
adocchiasti la sedia, ti ci sedesti sordo alle proteste di Zakarakis. Quella è la
sedia del signor procuratore!. perché, l'ha comprata? Restituiscila!. No.
Intervenne il procuratore generale: Panagulis, in piedi! perché? Tanto la sedia
non te la dò. perché devo leggere il decreto presidenziale. Sarà un decreto
presidenziale per te, cameriere della Giunta. Per me è soltanto il foglio di un
buffone. Coi fogli del tuo Papadopulos io mi ci pulisco il sedere. Panagulis, stai
esagerando! E tu arrestami. Anzi rimandami nella mia cella. .Non si può, sei stato
graziato! Questo lo dici tu. Io non accetto nessuna grazia. Su, alzati. No, neanche
se mi ammazzi.. Seguì un silenzio smarrito: che fare? Rischiare una chiassata
obbligandoti a stare in piedi o fingere noncuranza lasciandoti seduto? Meglio
lasciarti seduto, era più prudente.
Incominciamo disse il comandante. Il plotone presentò le armi, un soldato sollevò
la bandiera, il procuratore lesse le prime righe del decreto. Stravaccato sulla
sedia, intanto, tu sbadigliavi, fischiettavi, ti grattavi senza sosta. Soprattutto le
caviglie. Il procuratore interruppe la lettura: Cosa fai? Mi gratto. Ma cosa gratti?
Mi gratto i coglioni. Io li ho così lunghi che mi arrivano alle caviglie. Il procuratore
arrossì, Zakarakis digrignò i denti, il comandante ebbe un gesto di stizza, la
lettura riprese. Quando tutto fu concluso, con immenso sollievo di chiunque
fuorché tuo, ti invitarono di nuovo ad alzarti. Panagulis, andiamo! Dove? Io sto
benissimo qui. Mi piace. E poi sono stanco. Devi tornare nella tua cella finché
viene il tenente colonnello. Portatemi! Come? Come si fa col papa quando lo
portano a spasso sul seggiolone perché benedica la gente. Ora il comandante
rideva, Zakarakis piangeva. Lo vede, signor comandante? Lo vede? Quasi
quattr'anni così! Un delinquente, le dico, un delinquente! E tu: Piangi, Zakarakis,
piangi. Io di qui non mi muovo. E reggevi la sedia con entrambe le mani, ci
avviticchiavi le gambe. Dovettero portarti via con la sedia, loro sempre più
imbarazzati, tu improvvisamente serio e compunto, proprio come un papa sulla

poltrona gestatoria. Per al momento di lasciare la cella ricominciasti daccapo. Con
un tenente colonnello, stavolta. Prendi le tue cose, Panagulis. Sei libero. Io non
prendo nulla. Prendile tu. Non vuoi uscire? No. Ve l'ho già detto in mille modi che
sto bene qui, che preferisco star qui..Fuori cambierai idea e... E scoprir che la vita
è dolce: lo dice anche Zakarakis. Tu intanto porta la mia roba. Tra divertito e
rassegnato, il tenente colonnello prese il tuo bagaglio: una borsetta da viaggio
piena di vocabolari e di lime. Le lime erano nascoste nel manico, ce le avevi messe
per beffa, e comunque si trattava ormai d'un cimelio. Andiamo, Panagulis. E va
bene, andiamo. Desti un ultimo sguardo alla cella, uno stranissimo sguardo fatto
di mestizia e rimpianto, fissasti con intensità dolorosa la scritta Io documenterò,
poi uscisti e fosti nel cortile, nella stradina a sinistra, nella stradina a destra, nel
viottolo dove la terribile notte della seconda fuga Zakarakis t'aveva deriso.
Camminavi a testa bassa, con gli occhi semichiusi come quando eri andato alla
cerimonia, ostinatamente evitando di guardare il cielo, le guardie ti sostenevano
quasi a fatica, tanto ti appoggiavi a loro. Ti sentivi molto stanco, tutta quella
commedia di provocazioni e insolenze t'aveva stroncato, a ogni passo ti chiedevi
cosa avresti fatto una volta al cancello dove le guardie ti avrebbero abbandonato,
e sul tuo volto non c'era un filo di gioia. Infine fosti al cancello, ti staccasti dalle
guardie, oltrepassasti la soglia. E balbettasti smarrito: Oh, Thes! Thes mu! Oddio!
Dio mio!.
Dinanzi a te c'era un baratro: così largo, così fondo, così vuoto che il solo
percepirlo ti dava la nausea, la voglia di vomitare. E questo baratro era lo spazio,
lo spazio aperto.
Dentro il sepolcro avevi dimenticato che cosa fosse lo spazio, lo spazio aperto. Era
una cosa terribile. perché era una cosa che non era: senza un muro che lo
limitasse, senza un soffitto che lo tappasse, senza una porta che lo chiudesse,
senza un lucchetto, senza sbarre! Si spalancò dinanzi a te e intorno a te come un
oceano misterioso, insidioso, e l'unico riferimento era la terra che si stendeva giù
per la vallata e su per le colline, appena interrotta da ciuffi d'erba o da alberi:
allucinante. Ma la cosa peggiore era il cielo. Dentro il sepolcro avevi dimenticato
anche cosa fosse il cielo. Era un vuoto sopra il vuoto, una vertigine sopra la
vertigine: così azzurro, no, così giallo, no, così bianco. Così cattivo. Bruciava le
pupille più di un acido, più di un fuoco. Chiudesti gli occhi per non accecare,
allungasti le braccia per non cadere. E subito il pensiero della tua cella ti afferrò

insieme a una nostalgia irresistibile, un desiderio irrefrenabile di tornarci,
rifugiarti nel suo buio, nel suo ventre angusto e sicuro. La mia cella, ridatemi la
mia cella.
L'ufficiale che portava la borsa coi vocabolari e le lime capì, ti raggiunse, ti toccò
una spalla: Coraggio. Riapristi gli occhi, sbattendo le palpebre, facesti un passo,
poi un altro, e poi un altro ancora. Ti fermasti di nuovo. Non era questione di
coraggio, era questione di equilibrio. Camminare in tutto quello spazio, quella
luce, e da solo, non era come camminare lungo i viottoli della prigione, stretto fra
due guardie che ti sorreggono pei gomiti: era come brancolare sull'orlo di un
precipizio.
Perfino andare diritto era difficilissimo perché in mancanza di pareti, ostacoli,
non capivi dove fosse il diritto e l'obliquo, il davanti e il dietro, capivi soltanto che
c'era il sopra e il sotto, il cielo e la terra, il sole abbagliante. Per a poco a poco,
mentre la nausea cresceva, e l'incertezza, e la paura, mentre tutto si allargava e
ruotava e si rovesciava per farti ripetere la mia cella, ridatemi la mia cella,
ritrovasti te stesso. E scorgesti qualcosa. Cosa? V'erano ombre laggiù, macchie in
movimento. Venivano verso di te fluttuando, agitando strane appendici che a
momenti sembravano ali e a momenti sembravano braccia. Uccelli o persone?
Persone, perché rumoreggiavano indefinibili suoni che dovevano essere voci:
Aleekoos! Aleekoos! Che sforzo atroce dirigersi da quella parte. Aleekoos!
Aleekoos! D'un tratto dalle macchie si staccò una macchia: una figura nera,
tozza. E divenne una donna col vestito nero e le calze nere e le scarpe nere e il
cappellino nero e gli occhiali neri. E ti corse incontro, con le mani tese, le dita
tese.
Tua madre. Le cadesti addosso. E allora tutti ti furono addosso, amici, e parenti,
e giornalisti, per toccarti, abbracciarti, chiamarti affinché tu non rimpiangessi più
la tua cella, e infatti, di colpo, non la rimpiangevi più, ti sentivi inspiegabilmente
felice: pur avendo un gran bisogno di piangere. Non avresti voluto piangere,
avresti voluto dire qualcosa di importante, di storico. Ma più ti chiedevi cosa
poteva essere questo qualcosa, più il bisogno di piangere cresceva, gonfiava,
diventava un formicolio alla gola, una cortina d'acqua sugli occhi. perché lo
smarrimento che avevi provato vedendo quel baratro ora si traduceva in una
intuizione precisa, anzi nella consapevolezza che la libertà sarebbe stata per te
un'altra sofferenza, un altro dolore.

E questo era l'uomo che l'indomani avrei finalmente incontrato, per cozzare
contro di lui come un treno che percorre all'inverso lo stesso binario.
Parte seconda CAPITOLO I
L'amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino. Ma negare il
destino è arroganza, affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra
esistenza è follia: se neghi il destino, la vita diventa una serie di occasioni
perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere, un rimorso
di ciò che non si è fatto e avremmo potuto fare, e si spreca il presente rendendolo
un'altra occasione perduta. Con rimpianto tu mi chiedevi: perché non ci siamo
incontrati prima? Dov'eri quando accendevo le mine, quando mi torturavano, mi
processavano, mi condannavano a morte, mi chiudevano dentro quella tomba?
Con rimorso io ti rispondevo Saigon, Hanoi, Pnom Penh, Città del Messico, Sau
Paulo, Rio deJaneiro, Hong Kong, La Paz, Cochabamba, Amman, Dacca, Calcutta,
Colombo, New York, ancora Sau Paulo, ancora Saigon, ancora Pnom Penh,
ancora La Paz, ed elencando quei nomi remoti mi sembrava di allineare le tappe
di un tradimento. Non ti risposi mai che ero dove il destino esigeva che fossi
perché il destino aveva stabilito che ci incontrassimo quel giorno e a quell'ora,
non prima. Fino a quel giorno, a quell'ora, le nostre strade furono così separate e
lontane che nemmeno la più ferrea delle volontà avrebbe potuto farle incrociare.
Solo un istante ci sfiorammo in una ventata: il giorno in cui riparasti in Italia da
Cipro. Infatti, studiando le date, avremmo scoperto che mentre tu arrivavi io
partivo. Ma il destino ha una logica, in esso niente avviene per caso: se ci fossimo
incontrati in tale occasione o prima, non ci saremmo riconosciuti. Ci
riconoscemmo dopo perché ci eravamo già visti cento volte a Saigon, a Hanoi, a
Pnom Penh, a Città del Messico, a Sau Paulo, a Rio de Janeiro, a Hong Kong, a La
Paz, a Cochabamba, ad Amman, a Dacca, a Calcutta, a Colombo, ancora Sau
Paulo, ancora Saigon, tutti giri di ruota per venire da te, tutte tappe di un grande
amore fedele.
Avesti tanti volti, tanti nomi, in quegli anni. In Vietnam ti chiamavi Huyn Thi An
ed eri una ragazza vietcong dalle guance e il mento e la fronte sfregiate di
cicatrici. T'era scoppiata in casa la carica di dinamite con cui volevi uccidere un
tiranno detto Van Thieu e t'avevano preso. T'avevano torturato con l'acqua
bollente, soffocata con gli asciugamani, e gli ufficiali con le uniformi verde

bottiglia stavano per condannarti a morte quando ci incontrammo in una stanza
della polizia speciale e tu mi guardavi con odio perché indossavo l'uniforme
militare. Io ti dicevo: Non sono un soldato, Huyn Thi An. Sono una giornalista,
vengo da un paese che non è in guerra col tuo, e voglio scrivere bene di te.
Parlami, Huyn Thi An. E tu mi rispondevi: Non voglio che tu scriva di me. Non mi
serve. A me serve solo uscire di qui e tornare a combattere. Puoi farmi uscire di
qui? No, Huyn Thi An. Non posso. Allora non mi interessi. Vattene. Addio. Ti
chiamavi anche Nguyen Van Sam ed eri un omino scalzo, vestito di nero, con due
spallucce fragili, due manucce magre. Avevi fatto una cosa tremenda, avevi fatto
scoppiare due Clymore al ristorante My Canh, quello sul fiume, e avevi
massacrato decine di creature: per nulla.
Alla vigilia di un altro attentato t'avevano teso una trappola ed eri finito al Primo
Arrondissement, il quartier generale dell'Esa di Saigon, dove Malios e Babalis e
Teofilojannacos non erano riusciti a farti parlare. Hazizikis, quella volta, sì. Si
chiamava capitano Pham Quant Tan, il tuo Hazizikis di Saigon, e t'aveva
ricattato: Se parli, ti fucilerò con onore. Se non parli, ti schiaccerò sotto un
camion e morirai senza gloria. Tu non eri un eroe, quella volta, non sapevi
rassegnarti all'idea di morire sotto un camion anziché fucilato, e muovendo a
fatica le labbra tumefatte dai pugni avevi chiesto a Pham Quant Tan: Davvero mi
farai un processo e mi fucilerai? Sì. Allora dirò tutto.. Ci incontrammo nella
stessa stanza dove avevo incontrato Huyn Thi An ed eri molto gentile, ti piaceva
stare con me perché con me ti lasciavano fumare e ti slegavano le mani. Ti
intervistai per due notti, ed era bello ascoltarti perché eri diventato un poeta
anche lì, nel carcere di Saigon. Mi raccontavi di un dio con la barba bionda che
chiamano Gesù Cristo e ha le ali e vola sopra le nuvole e muore come un
partigiano vietcong, fucilato; mi raccontavi del tuo villaggio dove al tramonto il
sole diventa rosso e affoga nelle risaie mentre un vento leggero fa piegare la testa
alle piante di riso; mi raccontavi quanto sia inutile uccidere, idiota, mi dicevi che
gli uomini sono innocenti perché sono uomini e fanno cose inutili, idiote come
uccidere il proprio nemico, perciò bisogna guardarli con molta pietà. Ci
lasciammo con rammarico, tu perché non avresti più avuto occasione di fumare
tante sigarette e stare con le mani slegate, io perché incominciavo ad amarti.
Salutandoti ti augurai di morire bene. Era ci che sognavi: morire bene.

In Bolivia ti chiamavi Chato Peredo ed eri l'ultimo dei fratelli Peredo, il primo
morto con Che Guevara e il secondo in uno scontro con la polizia. Per organizzare
la resistenza armata eri fuggito nelle foreste dell'Illimani e stavo per venire da te
quando l'esercito del generale Miranda ti circondò e ti catturò. Furono i tuoi
compagni di La Paz a informarmi perché facessi qualcosa, e io corsi dal
presidente Torres che era un brav'uomo, un tal brav'uomo che Miranda lo
avrebbe ucciso, gli dissi presidente, hanno preso il Chato e vogliono fucilarlo, lo
salvi per carità. Torres ti salvò e tu non sapesti mai che era stato lui a salvarti, io
a supplicarlo. Infatti non ci incontrammo mai quando ti chiamavi Chato, per ci
incontrammo quando ti chiamavi Julio ed eri chiuso nella prigione centrale di La
Paz.
Con un trucco, un documento falso, entrai nella prigione e giunsi alla tua cella:
per vedere com'era situata e riferirlo a chi si preparava a liberarti. Avevi una gran
barba nera, a quel tempo, e non scrivevi poesie, scrivevi libri: con la solita
calligrafia minuta, ordinata, elegante. Restammo insieme pochi minuti e ti fidasti
di me, mi dicesti ciò che dovevo sapere e servì: il giorno in cui seppi che erano
riusciti a liberarti, piansi di gioia. E venni a cercarti in Brasile. In Brasile ti
chiamavi Carlos Marighela ed eri un vecchio comunista, un ex deputato cui
Fieury dava la caccia come a una lepre per il tiro al bersaglio. L'infame Fieury,
capo della polizia di Sau Paulo, complice e protettore degli assassini in uniforme
che componevano il cosiddetto Squadrone della morte. Vivevi nascosto, a quel
tempo, cambiando continuamente indirizzo e parrucca, ma ci tenevi a
incontrarmi perché volevi raccontarmi la verità su chi si batteva contro la
dittatura in Brasile e tre volte mi fissasti l'appuntamento. Due volte non riuscii a
raggiungerti perché Fieury m'aveva messo alle calcagna i suoi agenti, ovunque
andassi me li trovavo dietro coi loro impermeabili avana, e l'unica volta in cui
persero le mie tracce tu mancasti l'appuntamento perché pedinavano te. Poi
Fieury ti ammazzò. All'incrocio tra via Lorena e via Casablanca, ti tese una
trappola con due frati della Resistenza che aveva già arrestato e con molti
poliziotti in borghese, uomini e donne. A crivellarti furono due donne che per
l'impresa furono promosse ed ebbero un aumento di stipendio. Era il 5 novembre
1969 e io credo che la consapevolezza del mio amore per te sia esplosa dopo che
Fieury ti aveva ammazzato all'incrocio di via Lorena con via Casablanca per mano

di due donne alle quali avrebbe concesso, come ringraziamento, una promozione
ed un aumento di stipendio.
E poi ti chiamavi padre Tito de Alencar Lima, un frate domenicano di cui non
conoscevo nemmeno il volto e l'età.
Diventasti padre Tito de Alencar Lima il 17 febbraio 1970 quando il capitano
Mauricio venne a prelevarti con la sua squadra e ti portò alla centrale dell'Esa
che a Sau Paulo aveva il nome di Operazioni Bainderantes e ti disse: Ora
conoscerai la succursale dell'inferno. Quindi ti spogliò completamente nudo e ti
appese a un'asta di ferro che ciondolava dal soffitto.
Il pau de arara. In portoghese significa palo del pappagallo, infatti sembrava
proprio un palo per i pappagalli sebbene alle Operazioni Bainderantes lo usassero
per gli uomini e per le donne, non per i pappagalli: ce li arrotolavano in modo che
il palo restasse bloccato tra l'incavo delle braccia e l'incavo delle gambe, gli
legavano le caviglie coi polsi, e li lasciavano in quella posa grottesca,
dolorosissima, finché il sangue non circolava più e il corpo gonfiava e il respiro
cessava. Ti ci appese e ti ci tenne tutto il pomeriggio e tutta la sera, slegandoti
solo per farti il telefono, una sevizia che consiste nel battere gli orecchi della
vittima con entrambe le mani, dopo ti buttò in una cella simile alla cella di Boiati,
senza branda ne materasso, senza coperta: Domani parlerai, frate, parlerai. Ma
l'indomani non parlasti, di nuovo, e allora venne il capitano Omero che era
specializzato nella falanga e nelle bastonate sui genitali.
Non parlasti neanche col capitano Omero e così venne il capitano Albernaz che
aveva la squadra più decisa di tutte.
Frate, io quando vengo alle Operazioni Bainderantes lascio il cuore a casa e pur
di sapere quello che voglio sputo sulla Madonna. Ogni volta che dirai no o resterai
zitto, aumenterò la corrente ti avvertì. E subito ti legò alla sedia del dragone, che
era una specie di sedia elettrica, ti applicò i fili elettrici alle tempie, alle mani, ai
piedi, ai genitali, ti scaricò addosso una corrente da duecento volts. Parli o non
parli? No. Parli o non parli? No. A ogni no, duecento volts. Alle dieci di sera fu
stanco e concluse che per te ci voleva un lavoretto speciale, lo avevi preso in giro
abbastanza, domani avrebbe provveduto.
Il lavoretto speciale consisteva nell'infilare il filo elettrico nell'ano, così l'indomani
ti infilò il filo elettrico nell'ano e ti regalò una scarica talmente intensa, talmente
lunga, che ti parve di scoppiare in mille pezzi: lo sfintere si rilasci schizzando sul

pavimento una pioggia di feci. Albernaz scavalcò le feci e: Per l'ultima volta, frate,
parli sì o no? No. Allora preparati a morire. Poi: Apri la bocca che ti d l'ostia
consacrata. Apristi la bocca, lieto di morire, e Albernaz ti appoggi il filo elettrico
sulla lingua, ci scaricò una corrente da duecentocinquanta volts. Quarantotto ore
dopo tentasti il suicidio che per te cattolico, padre domenicano, era due volte
peccato mortale. Erano venuti a farti la barba e te l'avevano fatta da una parte
sola, per spregio. Chiamasti un soldato, gli chiedesti qualcosa per rasarti anche
dall'altra parte, lui ti dette una lametta e appena l'avesti in mano la affondasti nel
braccio sinistro, presso l'incavo del gomito. Il taglio raggiunse l'arteria, il sangue
schizzò sui muri. Riacquistasti conoscenza in una stanza dell'infermeria. Sei
guardie ti sorvegliavano e il capitano Mauricio si raccomandava come Zakarakis:
Dottore, non deve morire, sennò siamo perduti. Non moristi e qualche tempo
dopo seppi del tuo calvario. Lo seppi attraverso una lettera che avevi scritto al tuo
arcivescovo e che io venni a cercare a Sau Paulo per pubblicarla, spiegare al
mondo chi eri, fare qualcosa per te.
Ed ecco il punto. Negli anni durante i quali la ruota del destino girò con caparbia
coerenza per condurmi da te, non una volta ti chiamai col tuo nome. Non una
volta ti detti il tuo volto. Per l'uomo che portava il tuo nome, il tuo volto, non
firmai nemmeno un documento di protesta, non partecipai nemmeno a un
comizio, non scrissi nemmeno una riga. Non lessi nemmeno le trenta poesie evase
da Boiati che in Italia erano state pubblicate e tradotte. Non cercai nemmeno di
approfondire una storia che conoscevo male e con superficialità. Dell'attentato
avevo saputo con molto ritardo, attraverso un dispaccio di agenzia mentre stavo
in Vietnam: poche righe su un certo ufficiale greco che voleva ammazzare il
tiranno. Le avevo lette dicendo bene, qualcosa si muove laggiù, poi le avevo
dimenticate; in Vietnam un popolo intero moriva per liberarsi d'una oppressione e
cadere in un'altra oppressione, il puzzo dei cadaveri appestava l'aria insieme
all'odore inutile dell'eroismo: in tanta tragedia non c'era posto per te. Del
processo e della condanna a morte invece avevo saputo mentre stavo in ospedale
dopo la strage di Città del Messico. Ero stata ferita anch'io nella strage, una
pallottola alla gamba sinistra, e una alla schiena, la ferita alla schiena era
diventata un tumore e m'avevano operato. Sarà fucilato l'attentatore di
Papadopulos. diceva il giornale. E aggiungeva che tu stesso avevi chiesto d'esser
fucilato. Ne ero rimasta turbata, ovvio, ma presto il turbamento era svanito nel

ricordo delle centinaia di creature massacrate dinanzi ai miei occhi nella grande
piazza di Città del Messico, quei corpi che rotolavano giù per la scalinata o che
schizzavano in avanti con una capriola, quel bambino cui la raffica di mitra aveva
scoperchiato il cervello, quell'altro che s'era buttato su di lui piangendo Uberto
che ti hanno fatto Uberto e la seconda raffica aveva colpito lui, lo aveva tagliato in
due, quella donna incinta cui avevano aperto il ventre a baionettate, quella
ragazza cui non restava che metà faccia e il medico ripeteva io la lascio morire, sì
la lascio morire. E i morti tra cui mi avevano scaraventato per ore, i morti che
erano morti nelle prigioni per essere bruciati o sepolti di nascosto sicché di loro
non avrebbe mai parlato nessuno, nessuno avrebbe mai esclamato con
ammirazione: lo ha chiesto lui d'essere fucilato. Che la tua condanna non era
stata eseguita lo avevo saputo in ritardo, per provarne una gioia breve ed
astratta; che in carcere soffrivi in modo disumano lo avevo saputo di striscio, per
provarne una rabbia altrettanto breve ed astratta. Insomma, se il destino non
esistesse, se del tuo non avessi dovuto diventare strumento, bisognerebbe
chiedersi perché quel giorno d'agosto ti telegrafai e poi mi precipitai ad Atene con
l'ansia di chi obbedisce a un richiamo lungamente atteso, e perché appena giunta
nella tua città ebbi il presentimento che stesse per piombarmi addosso, piombarci
addosso, qualcosa di irreparabile.
Faceva molto caldo ad Atene. Il caldo che alle due del pomeriggio, d'estate,
infuoca le regioni del sud. L'asfalto cedeva molle sotto le scarpe, i vestiti si
appiccicavano alla pelle per il sudore, non c'era un filo di vento. Uscii
dall'aeroporto, salii su un taxi, detti il tuo indirizzo all'autista e subito m'avvolse
un'inquietudine strana, la stessa di quando ero in Vietnam e seguivo una
pattuglia lungo sentieri probabilmente minati, attenta ad ogni fruscio cercavo di
posare i piedi dove li avevano posati gli altri ma sapendo che non serviva, che le
mie scarpe avrebbero potuto comprimere il percussore evitato dagli altri per pochi
centimetri, e pentita d'aver detto vengo anch'io avrei voluto tornare indietro,
scappare gridando non me ne importa nulla della vostra guerra maledizione. Mi
sentivo così. E presto l'inquietudine divenne angoscia, la stessa del mattino in cui
ero andata a cercare la lettera di padre Tito de Alencar Lima alla periferia di Sau
Paulo e gli agenti di Fieury mi seguivano coi loro impermeabili avana; la stessa
del pomeriggio in cui ero andata incontro alla strage di piazza Ilatelolco sapendo
che sarebbe avvenuta. Identica l'attesa di non sai bene quale disgrazia, non sai

bene quale dolore, ma certo una disgrazia che ti stroncherà, un dolore per cui
soffrirai troppo; identica la contraddittoria impazienza mentre il taxi corre in quel
caldo soffocante e l'autista non conosce il quartiere sicché imbocca tutte strade
sbagliate per ritrovarsi sempre nel medesimo punto, un garage con la scritta
Texaco.
Sotto il garage uno scivolo angusto, una botola nera che ogni volta mi succhia lo
sguardo e mi innervosisce come una minaccia. La botola dentro cui ti
scaraventeranno, tre anni dopo.
Texaco, Texaco, Texaco. L'autista si dispera, si giustifica in una lingua misteriosa,
remota, suoni che ricordano vocaboli imparati a scuola, l'Iliade e l'Odissea. Den
xero, den katalaveno. Non so, non capisco. Ma d'un tratto sventola il foglio con
l'indirizzo e frena accanto a un marciapiede orlato di olivi. Al di là degli olivi uno
stretto giardino di aranci e limoni, rosai e piante grasse, in mezzo al giardino un
viottolo che conduce a una villetta gialla con le persiane verdi e la veranda che ci
gira attorno, zeppa di persone eccitate, a sinistra del viottolo una grande palma
con un mazzo di agli appeso a una scheggia del tronco: chissà perché. Ed, ed!
Qui, qui! Si fa il segno della croce. Per ringraziare Iddio d'essere arrivato o per
esorcizzare quella straniera piccola e magra, vestita da uomo, che si liscia i
lunghi capelli sudati e non scende, quasi avesse paura, poi scende di scatto,
decisa, e va al suo appuntamento con il destino?
Non avevo la minima idea di quale fosse il tuo aspetto, non avevo mai visto una
tua fotografia. Non mi ero mai chiesta nemmeno se tu fossi giovane o vecchio,
bello o brutto, alto o basso, biondo o bruno. Che tipo eri, mi domandai
all'improvviso, e frugando nella folla mi inoltrai per il viottolo, salii sulla veranda,
fui in un piccolo ingresso pieno di altre persone eccitate, nel brusio di un
salottino sciatto dove i maschi sedevano da una parte e le femmine dall'altra,
come in Arabia. I maschi sembravano tutti uguali, chiunque avrebbe potuto
essere te, ti cercai sicura di non riconoscerti. Invece ti riconobbi immediatamente
perché immediatamente le nostre pupille si incontrarono scoccando, e perché
quell'uomo mingherlino, bruttino, dai piccoli occhi che bruciavano neri e i grandi
baffi che spiccavano neri sul pallore malato del volto non poteva essere che Huyn
Thi An e Nguyen Van Sam e Chato e Julio e Marighela e padre Tito de Alencar
Lima. Ed era Huyn Thi An che balzava in piedi con le braccia tese, era Nguyen
Van Sam che mi veniva incontro, erano Chato e Julio e Marighela che mi

stringevano dentro una morsa senza che avessi il tempo di presentarmi, dire il
mio nome, era padre Tito de Alencar Lima che mi accarezzava una guancia con
dita soavi. Ma era la tua voce che diceva: Ciao, sei venuta. Ed era una voce che al
solo udirla si perdeva la pace per sempre.
Ti aspettavo. Vieni. Mi prendesti per mano, mi portasti via dalla folla, mi guidasti
lungo il corridoio fino a una camera con l'armadio trasformato in altarino. Icone
di Cristi, di Madonne, di santi, l'una sull'altra in un luccichio d'argento
superstizioso, e candeline accese, incensieri, messali. Nell'angolo opposto, un
letto coperto di libri in greco. Sopra i libri, un gran mazzo di rose rosse. Lo
afferrasti, contento, me lo porgesti: .Per te. Per me?! Sì, per te. Poi, autoritario:
Andrea! Entra il giovanotto che avevi chiamato Andrea, un tipo alto ed elegante,
completo blu e camicia bianca, si mise quasi sull'attenti e in quella posa assurda
rimase ad ascoltare ciò che dicevi nella tua lingua, poi tradusse in inglese.
Conoscevi l'italiano, tradusse, lo avevi studiato in carcere, ma in quegli anni avevi
conversato con la grammatica e basta, quindi preferivi che lui facesse da
interprete. Desideravi anzitutto scusarti di ricevermi in una stanza da letto, era la
stanza da letto di tua madre e l'unico luogo dove potessimo parlare indisturbati;
desideravi inoltre spiegare che quelli erano i miei libri tradotti in greco, che per
ottenerne uno avevi fatto lo sciopero della fame, che nella solitudine della tua
cella ti avevano fatto spesso compagnia e le rose significavano questo. Me le avevi
mandate all'aeroporto per due amici che non mi avevano trovato in quanto il
telegramma non indicavo il volo che avrei preso ed ora eccole qui. Io ascoltavo
sbalordita, incapace di rispondere con una frase qualsiasi: che uomo era
quest'uomo che appena uscito dal carcere si preoccupava di ricevermi con un
simile omaggio, dirmi simili cose, e perché invece di lusingarmi tutto ci
raddoppiava l'inquietudine, l'angoscia, l'inspiegabile minaccia che avevo avvertito
a udirne la voce? Bisognava liberarsi al più presto di lui, ridimensionare
l'incontro, chiarire che mi trovavo lì per un lavoro, per un'intervista. E senza
chiedermi se ti ferivo, anzi evitando la strana espressione con cui reagivi, insieme
mortificata ed ironica, ringraziai in tono brusco:
Molto gentile, very nice. Quindi posai le rose su un panchetto, il registratore su
un tavolino, sedetti, ti pregai di sedere davanti a me per cortesia, bene, così,
incominciamo subito, presi a interrogarti: professionale, fredda. Ma intanto ti

esaminavo disperatamente, freneticamente, tentando di risolver l'enigma,
decifrare il fascino anzi la magia che emanava da te.
C'era qualcosa in te, mi dicevo, che nel medesimo tempo attraeva e respingeva,
struggeva e terrorizzava. Come quando si guarda dall'ultimo piano di un
grattacielo e ci sembra di volare, ma insieme ci sembra di precipitare nel vuoto.
Cosa? Forse il volto. Ma no, il volto era tutt'altro che eccezionale. Di bello esso
non aveva che la fronte: così alta, così vasta, d'una purezza sublime. Di
interessante non aveva che gli occhi perché non erano uguali, ne di taglio ne di
grandezza, uno era largo e uno era stretto, uno era aperto e uno era semichiuso:
quello largo ed aperto guardava con durezza quasi cattiva, quello stretto e
semichiuso con tenerezza quasi infantile, ma insieme accendevano la luce di un
bosco che brucia di notte. Il resto non impressionava gran che. Le palpebre erano
due cucchiaini informi di carne, il naso era disossato e un po storto, appena
imperioso alle narici, il mento era breve e bizzoso, le guance troppo rotonde.
Avvizzite dagli stenti eppure rotonde. Ci volevano i baffi, ispidi e folti, e le
sopracciglia pesanti, quasi due pennellate di inchiostro, per restituire importanza
a quel volto. Quanto al corpo era ben costruito, solide spalle e solidi fianchi e
solide gambe, superata la magrezza avrebbe potuto diventare anche seducente,
per sarebbe sempre rimasto il corpo di un popolano di media statura, un po
rozzo. No, nel fisico non vedevo proprio nulla che mi potesse innervosire o
incantare. E allora? Forse la voce.
Quella voce che al solo gorgogliare ciao sei venuta era entrata in me come una
coltellata: gutturale, profonda, intrisa d'una indefinibile sensualità. Oppure
l'autorevolezza con cui ti muovevi e trattavi la gente? Andrea! La calma di chi è
molto sicuro di se e non ammette repliche a ci che dice perché non ha dubbi su ci
che dice. Avevi tirato fuori una pipa, l'avevi caricata flemmatico, l'avevi accesa
flemmatico, t'eri messo a fumarla con lunghe boccate da vecchio, e ci sottolineava
il distacco con cui rispondevi alle mie domande. Per non c'era distacco in ci che
dicevi, ne c'era stato quando avevi fatto quel balzo per venirmi incontro,
abbracciarmi. Meglio non pensarci dunque. Meglio ricercare Huyn Thi An e
Nguyen Van Sam e Chato e Julio e Marighela e padre Tito de Alencar Lima,
ridarti il suo volto, guardare i polsi storpiati dalle funi con cui ciondolavi dal
soffitto, il piede rotto dalla falanga, lo sfregio al costato, la cicatrice che allo
zigomo sinistro fioriva un'escrescenza violetta. Mi ricordi un frate brasiliano,

Alekos. Padre Tito de Alencar Lima. Come lo sai?! Lo so. Conosco la sua lettera,
quella che pubblicasti. Speravo che tu facessi la medesima cosa per me. Non ho
mai fatto nulla per te. Non importa. Ora sei qui. Posasti la pipa, mi afferrasti
entrambe le mani, le stringesti forte bucandomi gli occhi con gli occhi. Sei qui, ci
siamo trovati.
E fu tremendo. perché di colpo tutto fu chiaro, e capirlo equivalse a razionalizzare
il presentimento che mi aveva morso quando ero giunta ad Atene, ammettere che
in quella stanza, dinanzi all'assurdo altarino di Cristi e di Madonne non si stava
svolgendo soltanto una resa dei conti con le mie scelte ideali e i miei impegni
morali, con ciò che tu rappresentavi o volevo che tu rappresentassi, ma anche
una partita a due, l'incontro tra un uomo e una donna portati ad amarsi
dell'amore più pericoloso che esista: l'amore che mischia le scelte ideali, gli
impegni morali, con l'attrazione e coi sentimenti.
Ritirai le mani, le nascosi sotto il tavolino. Con la viltà di una lumaca che al solo
sfiorarla si rifugia dentro il suo guscio, presi a opporti una resistenza sorda,
accanita, ora evitando il tuo sguardo, ora barricandomi dietro il baluardo delle
domande, ora aggrappandomi alla presenza di Andrea, rivolgendomi a lui anziché
a te. Per le cose che dicevi e che raccontavi, le torture, il processo, la condanna a
morte, l'inferno in cui avevi vissuto per anni senza perder la fede, senza
rinunciare a te stesso, mi riconducevano a te come un vento che spazza anche la
volontà. E oltre a quel vento c'era quella voce, c'erano quegli occhi, quelle dita che
continuavano a cercarmi ostinate. Alla fine mi arresi. Cessai di evitare il tuo
sguardo, lasciai che le mie pupille ci annegassero dentro, rimisi le mani sul
tavolino perché tu le trovassi ogni volta che desideravi stringerle, e l'intervista
andò avanti così: mentre la presenza di Andrea assumeva un che di inopportuno,
indiscreto, e le ore passavano a nostra insaputa. Il sole era alto quando avevamo
incominciato, le icone d'argento brillavano nella sua luce. Poi la luce era
diventòata penombra, la penombra buio, era entrata una vecchia vestita di nero e
aveva acceso le lampade, ma neanche questo ci aveva distratto. Quasi che la mia
paura si fosse dissolta. Tornò all'improvviso. Tornò quando ti chiesi cosa
significasse per te la politica, non la politica che si fa in clandestinità ma la
politica che si fa in libertà, e prima mi rispondesti che finora non avevi fatto
politica bensì un flirt con la politica, alla Garibaldi non alla Cavour, poi ti
chiudesti in un inaspettato silenzio, e in quel silenzio, lentissimamente,

avvicinasti le tue dita alle mie dita. Lentissimamente le intrecciasti.
Lentissimamente, dicesti nella mia lingua: Il flirt mi piace, ma io preferisco
l'amore. L'amore con amore.
Come punta da una vespa mi alzai. Dissi che dovevo salutarti, andare in cerca
d'un albergo. Rispondesti categorico: Tu non vai in nessun posto. Tu resti qui.
Poi, zoppicando sul piede rotto dalle bastonate di Teofilojannacos, ti dirigesti
verso la vecchia vestita di nero che ciabattava in cucina. Era ormai notte e i
visitatori, delusi dal tuo abbandono, avevano lasciato la casa.
Sul marciapiede sostavano quattro poliziotti ma sulla veranda faceva fresco, l'aria
profumava di gelsomini, e una brezza leggera muoveva lo strano mazzo di agli
appeso alla scheggia della palma. Lo indicai ad Andrea: A che serve? Sorrise:
Ad allontanare il malocchio, la polizia, e le complicazioni.
Rimane davvero? No, glielo spieghi lei. Dovrà farlo da sola, e non sarà facile.
Quando lui decide qualcosa, disubbidirgli è praticamente impossibile. Io non sono
qui per ubbidire.
Oh! Dicono tutti così e poi tutti gli ubbidiscono. Quattordici persone finirono in
carcere per avergli ubbidito. Però potrebbe partire subito, deve pur esserci un
volo notturno per Roma.
Se vuole, la accompagno all'aeroporto. perché? E preoccupato per me? Teme che
quei poliziotti mi arrestino? Sorrise di nuovo: No, i poliziotti no. Non capisco. Sto
dicendo che quella non era un'intervista, era un coito dell'anima. E lui dovrebbe
starsene quieto, almeno per un po: riposare. L'amore non è un riposo e quando
nasce dai coiti dell'anima può diventare tragedia. Non esageri dissi secca. La sua
invadenza mi irritava, e il fatto che avesse visto più di quanto temevo.
Per se da una parte avrei voluto invitarlo a tacere, dall'altra non sapevo
impedirmi di ascoltarlo, quindi di incoraggiarlo a parlare. Non esageri. Non
esagero. O forse sì? Noi greci siamo ossessionati dalla tragedia. Poiché la
inventammo, la vediamo ovunque. Ma di quale tragedia parla?!. V'è solo un tipo
di tragedia e si basa su tre elementi che non cambiano mai: l'amore, il dolore, la
morte. E proprio mentre diceva così, irrompesti col lieve zoppichìo: Tutto
sistemato! Dormirai in salotto. Non è comodo come una suite al Grande Bretagne
ma è meglio che una branda a Boiati. E tra poco si mangia.. Ascoltami, Alekos...
Ti piace la melitsanosalata? Alekos... E la spanakpitta? Alekos... Ah, non sai
nemmeno cos'è la spanakpitta: torta di spinaci! La melitsanosalata invece è

un'insalata di melanzane. Buona, vedrai. Meglio delle lenticchie di Zakarakis, te
l'ho raccontata la storia delle lenticchie di Zakarakis? Parlavi, parlavi,
interrompendo ogni mia frase, impedendomi di replicare non rimango grazie, devo
andarmene grazie, e qualsiasi argomento serviva allo scopo: le lenticchie di
Zakarakis, l'insalata di melanzane, la torta di spinaci. Infine mi cingesti
possessivo le spalle, e ti appoggiasti alla balaustra della veranda, annusasti l'aria
con narici avide: Questa è la prima volta in cinque anni e dieci giorni che sento
odore di gelsomini. Non c'era, ieri notte. Sì, che c'era disse Andrea. Ripeto che
non c'era. Non c'era disse Andrea.
La cena fu innocua. Anche Andrea, che era stato invitato, sembrava pensarlo.
Apparivi allegro, descrivevi Boiati come un lussuosissimo albergo per le vacanze,
piscina d'acqua calda e campi da golf, cinema privati e ristoranti col caviale fresco
d'Iran, servizio di prima qualità, e mai un'occhiata troppo intensa, un gesto
troppo confidenziale, qualcosa insomma che rinnovasse i profetici timori discussi
sulla veranda. sicché a un certo punto conclusi che il gioco di mani e di sguardi
era stato una semplice manifestazione di amicizia, il discorso sull'amore una
risposta politica di grande acutezza: volendo avrei ben potuto accettare la tua
ospitalità e partire l'indomani pomeriggio: a poco a poco la casa aveva ripreso ad
affollarsi di conoscenti, persone che volevano salutarti, abbracciarti, e lo
spettacolo di te che li ricevevi con la disinvoltura di un capo tornato da un lungo
viaggio mi incuriosiva. Inoltre mi interessava vedere il modo in cui ci conversavi,
li istruivi, li mettevi in guardia. Sì, ritrovarsi era bello ma non bisognava
inebriarsene, quell'amnistia era una truffa, un alibi per rafforzare la dittatura col
consenso della destra, degli Evanghelis Averoff. Sì, dormire nel proprio letto era
un conforto, ma non si esce di prigione per dormire nel proprio letto, si esce per
riprender la lotta.
Pronunciavi il nome Averoff con frequenza quasi ossessiva e da quel che Andrea
traduceva, era chiaro che lo odiavi quasi quanto il tiranno. Che dice? Dice che
Averoff è un collaborazionista.. Che dice? Dice che un giorno lo documenterà.
Che dice? Dice che i Papadopulos passano e gli Averoff restano.. Con altrettanta
frequenza per e con giudizi altrettanto severi pronunciavi il nome di Andrea
Papandreu, il rappresentante ufficiale della sinistra in esilio. Che dice? Dice che è
un oppositore da operetta. Che dice? Dice che i tipi come lui sostituiscono le
dittature con le dittature e, nel migliore dei casi, spianano la strada a un

autoritarismo. Questo confermava la tua fisionomia libertaria, l'indipendenza
ideologica nella quale m'ero riconosciuta durante le drammatiche ore
dell'intervista, e confermandole ridimensionava l'arcano trasporto che mi aveva
turbato: lo riduceva a una fratellanza ideale. Sì, potevo rimanere, pensai
rasserenata. E mi alzai ad aiutare la vecchia vestita di nero, tua madre, che
borbottando oscure scontentezze, ciabattando e aggiustando la grigia crocchia
disfatta, raccoglieva gli avanzi della cena. La vedo tranquilla osservò Andrea. Lo
sono risposi. Dunque rimane davvero? Credo proprio di sì. Ah! Buonanotte.
Buonanotte. Lo salutai, ti salutai, e vinta dalla stanchezza chiusi la porta del
salotto.
Era una porta di vetro opaco e la luce accesa nell'ingresso vi filtrava
insopportabilmente. Ma, una volta stesa sul divano letto, mi addormentai lo
stesso, di colpo.
Mi svegli, due ore dopo, un'eco di passi e, insieme, la vaga impressione d'un
pericolo che incombeva. Mi sollevai su un gomito per ascoltare meglio, non udii
nulla. La casa era avvolta da una fascia di silenzio, ed anche il giardino da cui
non giungeva neanche il frusciar delle foglie. Eppure non m'ero sbagliata, l'eco dei
passi era rimbombato con tanta precisione attraverso il sipario del sonno che ne
rammentavo perfino la cadenza: inesorabile, lenta, da persona che batte il
calcagno per risparmiare la pianta rotta del piede. Uno, due.
Uno, due. Uno, due. Osservai,meglio in direzione della porta a vetri: nell'ingresso
c'era una lampada, fioca, e nel suo chiarore non si intravedeva nessuno. Strano.
Forse la preoccupazione che tu venissi da me era stata così acuta da penetrare la
barriera del mio subconscio. Tornai a stendermi sul divano letto sperando di
riaddormentarmi alla svelta.`Chiusi gli occhi e, quasi nello stesso momento, i
passi che mi avevano svegliato rimbombarono una seconda volta, dietro la porta a
vetri apparve la sagoma del tuo corpo. Nera, immota. Balzai in piedi trattenendo il
respiro, rimasi a fissarne i contorni per un tempo che mi parve senza fine. La
sagoma fluttuò, si staccò, si allontanò, poi il passo riprese: inesorabile, lento,
verso la direzione da cui era venuto. Uno, due. Uno, due. Uno, due. Infine si
fermò, per tornare indietro, di nuovo, con la stessa cadenza, e la sagoma
riapparve: più vicina, più netta. Un braccio si alzò, si posò sulla maniglia, si ritirò
svelto, quasi che la maniglia scottasse. Ricominci daccapo la marcia ossessiva.
Uno, due.

Uno, due. Uno, due. E ad ogni colpo di tacco l'attesa angosciosa che la porta si
aprisse per farci trovare faccia a faccia nel buio, dire e ascoltare la parola, la
frase, che non volevo udire, non volevo ascoltare. Ecco, il passo si arrestava, di
nuovo. Il braccio si alzava, di nuovo. Le dita si posavano sulla maniglia, di nuovo.
Vi si trattenevano, ora. E la maniglia si abbassava, piano piano, cigolando. Ma
improvvisamente, e con una sequenza così veloce che tutto fu chiaro solo quando
fu finito, abbandonasti la presa e ti voltasti e ti allontanasti per rientrare nella
tua camera sbatacchiando l'uscio. Paf! La casa rintronò sotto il colpo. I miei
polmoni si allargarono in un sollievo pazzo.
Conoscevo quel sollievo pazzo. Lo avevo provato alla guerra ogni volta che un
proiettile m'era passato accanto, fischiando, senza colpirmi.
La cosa crudele, alla guerra, è che di solito si viene colpiti nell'attimo stesso in cui
ci si illude d'avercela fatta. finché si sta all'erta o ci si espone al rischio
avanzando a testa scoperta nel fuoco, non accade nulla; appena ci si distrae o ci
si sente al sicuro, il proiettile arriva. Magari una piccola scheggia che lì per lì
sembra inviata dal cielo per regalarti la buona ferita, la ferita leggera che
consente il ritorno a casa o nelle retrovie, poi invece si rivela mortale perché ha
reciso un'arteria o s'è conficcata nel cuore. Anche quel giorno avvenne così. Il
primo proiettile del resto lo aspettavo, era il momento in cui ci saremmo rivisti al
mattino, e lo scansai con facilità quando incontrandoci nel corridoio ci
irrigidimmo entrambi come due gatti in procinto di battersi: Kalimera,
buongiorno.
Quanto alle fucilate che esplosero dopo, una pressione della tua spalla sulla mia
spalla, un tocco del tuo braccio sul mio braccio, contatti fuggevoli eppure
allarmanti, ne uscii sempre indenne. Non era lì il rischio mortale. Era nella
parola, la frase, che volevi dirmi e che non volevo ascoltare. Per impedirtelo infatti
mi rifugiavo negli altri, nella gente che via via capitava, un giornalista ad esempio
o un fotografo, e se malgrado ci succedeva che restassimo soli qualche minuto,
scendevo in trincea distraendoti con domande a bruciapelo: hai mai letto
Proudhon, hai mai letto Bakunin, sei mai stato marxista. Ne vale chiedersi
perché, invece di ricorrere a simili trucchi, non me ne andavo via. Il mio volo
decollava alle sette, non concepivo nemmeno l'idea di lasciarti un attimo prima
del necessario, e l'attesa di quell'ora mi riempiva di tristezza: ogni volta che
rombava un aereo il mio cuore si torceva e dovevo fare uno sforzo per non venirti

vicino. E questa la parabola di un grande amore che finirà male? Verso l'una
venne Andrea, poi un paio di amici che invitasti a mangiare, ti lanciasti con loro
in una disputa che mi escludeva perché si svolgeva nella tua lingua e ci allentò la
tensione. Cominciai a dirmi ovvio che un uomo rimasto per anni in prigione si
senta attratto da una donna che lo ammira e che lo capisce, ovvio che sia tentato
di entrare nella sua stanza per levarsi una fame troppo a lungo sofferta: in tutto
questo che c'entrava l'amore, il dolore, la minaccia cioè di un legame pericoloso e
profondo? Avevo interpretato con troppa sensibilità episodi in fondo banali,
domani quelle ventiquattr'ore mi sarebbero apparse in una luce diversa, e il buon
Andrea non era Cassandra. Quindi mi alzai e scesi in giardino a congratularmi
per un ritrovato benessere. Le tre e mezzo del pomeriggio. Sugli olivi del
marciapiede le cicale frinivano acute ma una bava di vento alleggeriva il respiro.
Mi appoggiai alla palma, accesi una sigaretta gettando un'occhiata divertita al
mazzo di agli. Poi sollevai lo sguardo e ti vidi.
Avanzavi nel sole ed eri così pallido che la cicatrice allo zigomo spiccava più rossa
d'una ciliegia matura. Avanzavi fissandomi duro, e il tuo passo aveva la stessa
cadenza dell'andirivieni notturno. Uno, due. Uno, due. Uno, due. Giunto dinanzi
a me ti fermasti, senza dir nulla, mi agguantasti per un polso, senza dir nulla, mi
riconducesti in casa, senza dir nulla, mi spingesti nella tua camerina ed ebbi
appena il tempo di scorgere lo sguardo spaventato di Andrea che l'uscio fu
chiuso.
Parliamo. Accomodati. Mi indicasti una sedia, sedesti sul letto, incrociasti le
braccia: Tu non parti. Non parto?! No. Non parti. E perché non dovrei, Alekos?
perché io non voglio. E se io non voglio, non voglio. Ascoltami, Alekos. Io ho finito
quel che ero venuta a fare. Non c'è motivo che resti. Finito cosa? L'intervista, il
lavoro. Ero qui per un'intervista, un lavoro, ricordi? E l'ho fatto. Tu non eri qui
per un'intervista, tu eri qui per me. Sei qui per me. Per te come per gli altri su cui
ho scritto in Bolivia, in Vietnam, in Brasile. Bugiarda. Ascoltami, Alekos...
Bisognava tentare un richiamo al buonsenso, impugnare l'arma del raziocinio,
rivolgersi all'uomo che ventiquattr'ore prima mi aveva parlato con distacco delle
sue sofferenze, fumando la pipa in lunghe boccate da vecchio. Ascoltami, Alekos.
Io non vado cercando avventure e... Neanche io. Stare dalla stessa parte della
barricata con le idee e i sentimenti non basta per essere qualcosa di più che

amici, compagni, e... Lo so. Non parlo neanche la tua lingua e....Non importa.
Abito in un altro paese e... Non importa.
Non potrei, non posso, cambiare la mia vita per... Non importa! Importa, invece.
Tutte queste cose importano, e credo che te le avrei dette stanotte se tu fossi
entrato. Vibrasti un impercettibile scatto, quasi ti avesse bucato uno spillo. Ti ho
visto stanotte, Alekos. E ho sperato che tu non entrassi perché... perché non hai
coraggio! Saltai in piedi, offesa. Forse non avevo coraggio, risposi, ma non avevo
neanche bisogno di te perché non avevo bisogno del dolore che era in te. Non ero
superstiziosa, ero una donna evoluta, per di istinto sapevo che approfondire il
mio incontro con te mi avrebbe dato solo dolore. Sì, avevo paura di te. Di te, non
di venire a letto con te.
E qui giocai la mia carta: Vuoi venire a letto con me? Se è questo che vuoi,
andiamoci subito. perché stasera parto.
Come hai detto? Ho detto: se vuoi venire a letto con me, andiamoci subito.
perché stasera parto. Lentamente la smorfia di incredulità divenne
un'espressione di rabbia irreprimibile.
Il tuo petto si dilatò: Ma io ti amo! Quel grido rauco, rabbioso da belva ferita e
umiliata. Quel guizzo selvaggio, quelle braccia tese che mi ghermivano e mi
scuotevano e infine mi chiudevano dentro una morsa di ferro.
Quell'alito caldo, quella bocca avida. E quegli occhi, quegli incredibili occhi nei
quali avevo visto la luce d'un bosco che brucia. Per un istante brevissimo fui sul
punto di chiederti scusa, riconoscere che anch'io, sebbene non lo volessi, ti
amavo. Ma poi incontrai quegli occhi e un terrore mi trattenne: perché c'era la
morte in quegli occhi. Per quanto irrazionale e forzato possa apparire, io ti dico
che c'era la morte in quegli occhi, l'annuncio di tutto ci che sarebbe successo
negli anni a venire e non avrebbe potuto succedere senza di me, cioè se io non
fossi stata lo strumento e il veicolo del tuo destino già scritto. C'era la sconfitta
nata con te, la maledizione che ti avrebbe perseguitato fino a una notte di primo
maggio per scaraventarti dentro un buco nero di via Vouliagmeni, lo scivolo di un
garage con la scritta Texaco. E poi c'erano le agonie, le servitù che mi avresti
inflitto riducendomi a un Sancho Panza col suo ronzino, rubandomi alla mia
identità, alla mia vita. Guai, ad accettare il tuo amore ed amarti: lo seppi con
certezza, in un lampo. E subito mi liberai del tuo abbraccio, della tua bocca, di te,
mi precipitai nell'altra stanza, riempii alla rinfusa la borsa da viaggio, chiamai

Andrea, gli chiesi se poteva accompagnarmi all'aeroporto: doveva esserci un volo
verso le cinque, con un podi fortuna sarei riuscita a prenderlo, bastavano dieci
minuti? Bastano rispose Andrea scattando.
Ritto contro il muro, le mani in tasca e un sorriso enigmatico sotto i baffi, tu
seguivi la scena in silenzio e non facevi nulla per fermarmi o calmarmi. Solo dopo
che ebbi salutato tua madre esclamasti: Vengo anch'io. Quindi mi conducesti
all'automobile dove mi sedesti accanto, composto: Andiamo.
Non dicesti altro per tutta la strada, e neanch'io del resto aprii bocca. Sembrava
che non ci fosse più nulla da dire. Giunta all'aeroporto scesi, salutai Andrea, ti
strinsi la mano, mi stringesti la mano, e: Ciao, iassu. Ma avevo fatto pochi passi
che la tua voce si levò, secca come un ordine: Agàpi! Mi voltai. La tua destra
sporgeva dal finestrino con l'indice e il medio levati a segno di V, e sul tuo volto
tremava un'ironia affettuosa.
Tornerai! Vincerò! Tornerai!.
Tornai molto presto. Il primo telegramma era giunto l'indomani e diceva: Ti
aspetto. Il secondo dopo due giorni e diceva: Che aspetti? Il terzo dopo quattro
giorni e diceva:
Sono molto triste perché continui a non avere coraggio. Poi, la settimana
seguente, mentre ero a Bonn, mi fu recapitata una lettera dove annunciavi il
ricovero alla Policlinica di via Socratous. Insieme alla notizia c'era una breve
poesia: Pensieri d'amore dimenticati / risorgono / e mi portano di nuovo alla vita.
C'era anche una nota: Per te. Da Bonn avrei dovuto recarmi a New York. Annullai
la partenza e cercai un aereo diretto ad Atene. C'era soltanto quello che decollava
da Francoforte nel pomeriggio ma noleggiando una macchina fino a Francoforte
sarei arrivata in tempo, disse il portiere dell'albergo. Lo feci. E poche ore dopo
sbarcavo nel tuo paese, succhiata dall'inevitabile sorte alla quale non sarei più
riuscita a sottrarmi. perché superava perfino l'istinto della sopravvivenza e
l'equivoca insidia della felicità.
La felicità è una risata che scoppia alle nove di sera quando il mio taxi si fermò
dinanzi all'ospedale e un'ombra sguscia nel buio, apre lo sportello, mi piomba
addosso e dice all'autista: Grìgora! Presto! Arrivando t'avevo trovato in una
cameretta del reparto Patologia, circondato di medici e di medicine, e sembravi
l'infermo più infermo del mondo: con un filo di voce mi avevi chiesto di tornare
alle nove. Sto male, molto male... Ed ora eccoti qui, tutto vispo, risorto, che mi

abbracci in un taxi: Grìgora! Presto! Ma che fai? Che ti prende? Sono evaso! Cosa
significa evaso? Significa che mi sono alzato, mi sono vestito, ho tirato una botta
in testa all'infermiere e sono venuto qui ad aspettarti. .Una botta in testa
all'infermiere?! Sì, non voleva lasciarmi andare. Sosteneva che non si può. L'ho
messo lì e gli ho risposto: guarda se si può. Messo dove?. Nel mio letto. Ci starà
fino a domattina alle cinque. Alle cinque devo tornare a slegarlo. Slegarlo?! Sì, ho
dovuto legarlo. E anche incerottargli la bocca. Sennò gridava.. Non ci credo.
Infatti non è vero. Non è stata un'azione di forza ma di intelligenza. Senti, gli ho
detto, a che ora incomincia il tuo turno di riposo? Alle nove, risponde. E a che ora
finisce? Alle cinque, risponde. Abiti lontano? Molto lontano, risponde. Bene,
questo è il mio letto e questo è il mio pigiama, io prendo le tue scarpe. L'ho spinto
su una sedia, gli ho tolto le scarpe, e via. E scemo, non si muoverà dalla camera
finché non torno sicché rido, rido, libera di ogni esitazione, paura, divertita a
scoprire in te un volto che non conoscevo, nemmeno sospettavo, il volto
dell'istrionismo gaglioffo e dell'allegria. E tu ridi con me. Confessi d'avermi
imbrogliato, oggi non stavi male, fingevi, ti hanno ricoverato alla Policlinica per
qualche analisi e basta, domani ti dimetteranno. Ride anche l'autista, senza
sapere perché, ci osserva nello specchietto retrovisore e ride mentre il taxi
attraversa la città illuminata, entra in via Vouliagmeni, passa dinanzi al garage
con la scritta Texaco, ci porta al ristorante dove tre anni dopo mangerai per
l'ultima volta, poco prima di andare a morire. Ma se gli dei ce lo annunciassero
per metterci in guardia, se ci dicessero che questo è il tuo destino, il nostro
destino già scritto, non ci crederemmo ed io replicherei beffarda che il destino
non esiste.
Dove andiamo?
Da Tsaropulos..
Cos'è?
Un posto all'aperto, vicino al mare, ci si mangia il pesce. Ti piace il pesce?
Sì.
A me no. La vigilia dell'attentato cenai lì e mangiai il pesce.
perché ci andiamo dunque?.
perché stasera posso sfidare anche i pesci.
La felicità è un orgoglio che vibra quando entriamo nel ristorante trafitti dalle
occhiate indagatrici ed ostili di coloro per cui non sei un eroe ma un mancato

assassino, un sovvertitore dell'ordine, nel migliore dei casi un visionario che
dovrebbe starsene dov'era: in un carcere ben sorvegliato.
Dai loro tavoli si levano i colpetti di tosse offensivi, bisbigli impauriti: Lui non
è...?!
Un damerino da ambasciata esclama: Look who's there! Guarda chi si vede!
Lo capisci e per un attimo ti coglie una specie di smarrimento, ti appoggi a me
come a un bastone, incerto se andare avanti o tornare indietro, poi ti ergi con
spavalderia e mi conduci a un tavolo esposto alla loro curiosità. I bisbigli
crescono e ciascuno ti ferisce quanto una coltellata, lo vedo, a momenti pieghi il
capo come a reprimere il male, sopportarlo meglio: che delusione la libertà, che
fatica! Ma le mie dita cercano le tue, le stringono forte per ripeterti che non sei
solo, e il tuo volto s'accende: Lo so . E bello vivere insieme la sfida. E bello anche
accorgersi che qualcuno ti sorride, sia pure di nascosto, con la cautela di chi
teme di cacciarsi nei guai. Poi un cameriere coraggioso avanza con una bottiglia
di vino e ad alta voce ti dice: Questa la offro io. E un onore, Alekos, averti qui. Il
cielo è uno smalto turchino e fitto di stelle, accanto a noi c'è una pianta che
sboccia larghe corolle arancioni, a poco a poco ci isoliamo in un incanto che ci
consegna a una specie di oblio. O di incoscienza? Entra una fioraia con un cesto
di rose, ne agguanti un fascio e me le getti in grembo. Entra un gobbo con
un'asta su cui sono appuntati i biglietti di una lotteria, ne compri una fila
lunghissima e me li posi sul piatto. Ogni tuo gesto è un ingenuo trasporto
d'amore, una goffa preghiera d'essere amato, e la spavalderia di prima s'è
dileguata. Ti cade la forchetta, ti cade il cucchiaio, e d'un tratto arrossisci come
un bambino, mi porgi il regalo tenuto da parte per il mio ritorno: un foglio
spiegazzato, coperto da una calligrafia minutissima. Alekos! Cos'è? La poesia che
preferisco, Viaggio. Te l'ho dedicata, guarda: c'è il tuo nome ora per titolo. Poi me
la traduci con quella voce che sventra l'anima. Viaggio per acque sconosciute su
una nave / simile a milioni di altre navi / che vagano per oceani e per mari /
lungo percorsi dagli orari perfetti / E molte ancora / proprio molte anche queste
/ ormeggiano nei porti / Per anni ho caricato questa nave / di tutto ci che mi
davano / e che prendevo con gioia sconfinata / e poi / lo ricordo quasi fosse oggi
/ la dipingevo con colori smaglianti / e stavo attento / che in nessun punto vi
cadesse una macchia / La volevo bella per il mio viaggio / E dopo avere atteso
tanto proprio tanto / venne infine l'ora di salpare / E salpai... Qui ti interrompi,

mi spieghi che il viaggio è la vita, che la nave sei tu, una nave che non ha mai
gettato l'ancora, che non la getterà mai, ne l'ancora degli affetti, ne l'ancora dei
desideri, ne l'ancora di un meritato riposo. perché non ti rassegnerai mai, non ti
stancherai mai di inseguire il sogno. E se ti chiedessi che sogno non sapresti
rispondermi: oggi è un sogno cui dai nome libertà, domani potrebbe essere un
sogno cui dare nome verità; non conta che siano o non siano obiettivi reali, conta
rincorrerne il miraggio, la luce. Il tempo passava e io / incominciavo a tracciare la
rotta / ma non come mi avevano detto nel porto / sebbene la nave mi sembrasse
diversa anche allora / Così il mio viaggio / ora lo vedevo diverso / Senza più
ansia di approdi e commerci / il carico mi appariva ormai inutile / Ma continuavo
a viaggiare / conoscendo il valore della nave / conoscendo il valore che portavo...
Ed io non mi stanco di ascoltarti.
La felicità è un abbandono che a mezzanotte conduce alla casa col giardino di
aranci e limoni dove entriamo in punta di piedi e incuranti dei poliziotti che
controllano ogni tua mossa: due agli angoli della strada e due sul marciapiede. E
un albero di gelsomini che fiorisce sotto la finestra alla quale ci siamo affacciati
perché tu ne colga un ciuffo e tu me l'offra insieme alla tua timidezza. E una
stanza di cui non vedo più lo squallore, le poltrone unte e sbucciate, i
soprammobili brutti, gli assurdi diplomi in cornice: perché ci sei tu. E un bacio
inaspettatamente pudico sulla mia fronte, mentre il vento fruscia tra i rami
d'olivo e ci porta la cantilena del mare. E una lacrima che inaspettatamente ti
scivola giù per la guancia mentre sussurri: Sono stato tanto solo. Non voglio stare
più solo. Giura che non mi lascerai mai. E il tuo volto serio che si avvicina al mio
volto serio, i tuoi occhi commossi che affogano nei miei occhi commossi, le tue
braccia incerte che cercano le mie braccia incerte, neanche fossimo due ragazzi al
loro primo incontro d'amore o sapessimo che ci accingiamo a compiere un rito da
cui dipenderanno tutti i nostri anni a venire. E un silenzio lungo, impressionante,
mentre le nostre labbra si toccano con esitazione, si uniscono con decisione, e i
nostri corpi si allacciano senza timore, per adagiarsi palpitando nel buio, travolti
da un fiume di dolcezza che abbaglia, cercando gesti dimenticati, agognati, e
trovandoli per penetrarsi con armonia, di nuovo ed ancora, ed ancora ed ancora,
quasi dovesse durare un'eternità. Il tempo ti appartiene ormai, nessun plotone di
esecuzione avanza tra gli ordini secchi per condurti al poligono e fucilarti. Dopo ci
fissiamo stremati, la testa appoggiata sullo stesso guanciale, ed esclami: S'agap

tora ke tha s'agap pantote.. Cosa significa? Significa: ti amo ora e ti amerò
sempre. Ripetilo. Lo ripeto sottovoce: E se non fosse così? Sarà così. Tento
un'ultima vana difesa: Niente dura per sempre, Alekos. Quando tu sarai vecchio
e... Io non sarò mai vecchio.. Sì che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi..
Io non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi. Li tingerai? No, morir molto
prima. E allora sì che dovrai amarmi per sempre.. Stai parlando sul serio o
scherzando? Mi costringo a credere che tu stia scherzando, una luce beffarda
guizza nella tua iride nera e un'allegria fatta di molti domani scatena il tuo corpo
che subito mi ricopre insaziabile. Ne bisogna ripensare a un dialogo sulla
veranda: Noi greci abbiamo la mania della veggenza e della tragedia. Forse perché
l'abbiamo inventata.
Ma di quale tragedia parla? V'è solo un tipo di tragedia e si basa su tre elementi:
l'amore, il dolore, la morte.
La felicità è aprire gli occhi sotto la tua voce che esclama quasi con stupore: Sei
bella! E accorgersi che sono quasi le cinque e devi correre a restituire le scarpe
all'infermiere sequestrato. E uscire nell'aria fresca che annuncia il mattino,
sempre incuranti dei poliziotti che ci seguono fino al posteggio dei taxi, è tenerci
abbracciati per l'intero tragitto, salutarci sapendo che tra poco ci rivedremo. E
tornare alla casa col giardino di aranci e limoni senza rimpiangere la
responsabilità che d'ora innanzi mi peserà addosso come un macigno. E
svegliarsi per venire alla clinica dove, racconti trionfante, nessuno s'è accorto
della fuga notturna. E il medico dice che puoi dimetterti senza problemi, dalle
analisi e dalle radiografie non è risultato nulla di irrimediabile. Naturalmente le
torture e il carcere hanno influito sulla tua salute ma il cuore è forte e i polmoni
in ottimo stato, un po per volta ti ristabilirai, tutto sta nel riabituarti alla vita.
Infine la felicità è sapere che proprio stanotte, mentre ci amavamo, nella casa
accanto è nato un bambino cui hanno imposto il nome Cristos: si può
immaginare un augurio più bello d'un bambino nato nella casa accanto mentre ci
amavamo? Dobbiamo festeggiare l'arrivo di Cristos, e la giornata gronda di sole,
d'azzurro. Andiamo al mare! Sono cinque anni che non vedi il mare, che sogni di
rivedere il mare. Dal giorno che hai lasciato Boiati, che hai riscoperto lo spazio,
sei uscito soltanto per recarti all'ospedale e per portarmi da Tsaropulos: andiamo
al mare! Ed eccoci sulla spiaggia di Glyfada. Avanzi esitante, a testa bassa, si
direbbe che non osi alzare lo sguardo, e quando ti decidi hai un sussulto, sbatti

stordito le palpebre, sul tuo volto appare un'espressione che non capisco. Gioia o
paura? D'un tratto ti lanci in avanti e corri verso l'acqua. Corri a larghe falcate di
puledro agile e spensierato, l'immagine stessa della gioventù, e correndo gridi: I
zoì! I zoì! I zoì! La vita! La vita! La vita! Sulla riva ti impenni, con una giravolta
briosa mi chiami, mi tendi le braccia, corro anch'io e rotoliamo ridendo sulla
sabbia calda. I zoì! I zoì! I zoì! La vita! La vita! La vita!. Oggi nessuno ti insegue
giù per la scogliera, oggi il mare non è cattivo come una mattina d'agosto che non
vuoi ricordare. Aspettatemi, arrivo, aspettatemi! Morbido e liscio si increspa
appena alle sponde in rotoli di spuma bianca. Chi teme i pesci? Nessuno!
Annunciano forse sconfitte, sciagure? Sciocchezze! Buttiamoci, allora. Ci
spogliamo veloci, impazienti. Ci tuffiamo insieme, nuotiamo fianco a fianco
nell'acqua tepida, liscia, ci fermiamo ogni tanto a scambiarci un bacio fresco di
sale. S'agap tora ke tha s'agap pantote. Dopo è squisito stendersi al sole, mano
nella mano, spossati, rabbrividire di piacere e di freddo, avvertire un desiderio
che scuote il tuo corpo bianco e geloso della mia abbronzatura, pensare che a
casa lo esaudiremo. Esiste davvero un tiranno chiamato Papadopulos? Chi
conosce Joannidis? E Teofilojannacos, Hazizikis, e Zakarakis? Mai visti in faccia.
Per una settimana non pronunceremo neanche quei nomi. La felicità è un oblio
che durò una settimana.
Quella settimana irreale e a cui la memoria tornerà sempre con stupore
incredulo: isolati da tutti, sufficienti a noi stessi, vegetavamo in una beatitudine
ottusa e priva di avvenimenti.
C'erano tante piccole cose da fare per riabituarti alla vita. Per esempio insegnarti
di nuovo ad attraversare una strada senza il terrore d'essere travolto dalle
automobili, per esempio a camminare sui marciapiedi scansando la gente e senza
lasciarsi intimidire dalle spinte, dal caos della città. Nel sepolcro di Boiati avevi
dimenticato anche questo e, dopo la gita al mare, era sopravvenuto in te una
specie di ripensamento: di giorno non volevi più uscire di casa. Oppure ne uscivi
per chiuderti in un'automobile, dove ti sentivi protetto, e quando scendevi
dall'automobile tutto ti spaventava. perché tu attraversassi la strada, bisognava
incoraggiarti con mille rassicurazioni: Su, vieni, c'è il semaforo verde! Anche
perché tu camminassi lungo un marciapiede, spesso, bisognava farti coraggio.
Infatti non procedevi diritto, andavi in diagonale finché sbattevi nel muro. Così la
mattina ti conducevo al centro, nelle vie più affollate, e qui, avviticchiato al mio

braccio come un cieco al guinzaglio del suo cane guida, ritrovavi un po per volta
le consuetudini perdute. Visto? Lui mi veniva addosso ma io non l'ho urtato..
Visto? Tu non t'eri accorta che c'era il semaforo rosso ma io sì.. Il pomeriggio
invece lo passavamo in casa dove l'afa e il silenzio appena interrotto dal frinire
delle cicale ci illanguidivano nel silenzio di interminabili amplessi. Parlavamo
pochissimo, non avevamo bisogno delle parole. Al calar della sera per ti svegliavi
con l'impeto di un pipistrello che annusa il buio e diventavi loquace, e via a cena
fuori. A volte ci spingevamo fino al Pireo, a volte restavamo a Glyfada dov'erano le
taverne della tua adolescenza e dove un vecchio con la chitarra, dagli occhi
azzurri ed acquosi, ci cantava con voce stentorea Un letto per due. Adoravi quella
canzone perché raccontava di due innamorati che dormono in un letto piccolo e
stretto. Il nostro letto era piccolo e stretto, era quello che avevi da bambino, e se
non ci si dormiva abbracciati si ruzzolava per terra. Tutto finì all'improvviso,
senza un segno di premonizione, il giorno in cui andammo ad Egina.
CAPITOLO Il
Non avevi detto che saremmo andati a Egina, avevi detto un'isola e basta. Ne io
t'avevo chiesto che isola: mi lasciavo condurre dalla felicità come un foglio
sbattuto dal vento. La nave aveva preso il largo da poco, stavamo sul ponte, e
guardavo incantata la prua che solcava le acque in ventagli di spuma quando
venne a galla un delfino. Mi aggrappai a te strillando:
I delfini! Li vedi, i delfini? Mi rispose una voce incolore: Non vedevo nulla, mi
avevano messo giù nella plancia. Nella plancia? Non capisco, Alekos, di che parli?
Parlo del giorno che mi portarono a Egina per fucilarmi. E, pronunciate queste
parole, ti chiudesti in un mutismo che escludeva qualsiasi approccio, bisogno di
compagnia, riapristi bocca soltanto allo sbarco per spingermi in un taxi e dare
all'autista un indirizzo che non compresi. Il taxi si mosse, in silenzio lasciammo il
centro abitato, in silenzio raggiungemmo una strada che saliva, deserta, orlata di
cactus, poi di olivi, poi d'alberi di pistacchio, poi nuovamente di cactus. Qua e là
una villetta, una casa spalmata di calce, un tabernacolo bianco con un'icona
nera.
Dove stiamo andando, Alekos? Laggiù. Laggiù dove? Laggiù. Non c'era modo di
penetrare la misteriosa barriera dietro la quale t'eri isolato. Il volto teso, la fronte
aggrottata, le pupille attente, fissavi il paesaggio come se ogni metro, ogni curva,

ogni pietra nascondesse un'insidia, o come se dietro quei cactus, quegli olivi,
quegli alberi di pistacchio che ora si perdevano in campi di verde, ora
precipitavano in gole tetre, ora si mischiavano agli sterpi d'una boscaglia ci fosse
un segreto.
Che tu cercassi qualcuno, che tu ti recassi a un appuntamento pericoloso? No,
d'istinto concludevo di no. Che tu volessi mostrarmi la prigione in cui avevi
aspettato i tre giorni e le tre notti? Sì, questo sì era possibile, per la prigione stava
abbastanza vicino al porto; il taxi invece si dirigeva nella direzione opposta.
Alekos... Zitta! Ascoltami... Zitta! perché non...?.Zitta! Viaggiavamo così, da
mezz'ora, quando l'autista voltò in un sentiero sconnesso, affogato tra le erbacce
e talmente angusto da consentire appena il passaggio. Proseguì in salita per un
paio di chilometri, sbucò sobbalzando sui sassi e le buche in una brughiera
stepposa, infine fermò dinanzi a un palo che sbarrava il cammino con rotoli di filo
spinato. Oltre il filo spinato, un cartello: Zona militare. Proibito l'accesso.
Allora scendemmo e con ritrovata dolcezza mi prendesti per mano: Siamo arrivati,
vieni.
Ti seguii perplessa, guardandomi attorno senza capire. Ci trovavamo su una vetta
dell'isola, dalla parte che guarda la costa sud est dell'Attica, e sotto di noi la
montagna dirupava a picco nel golfo, a destra invece si allargava in un
promontorio brullo: non una casa, una capanna, un albero. Ovunque si
posassero gli occhi non si scorgevano che rocce o mare e una solitudine
impressionante, da Genesi, stagnava con un senso di desolazione, un'immobilità
quasi angosciosa. Eppure era uno dei luoghi più belli che avessi mai visto.
Soprattutto a osservare il promontorio che calava per allungarsi nell'acqua con
una lingua di terra armoniosa, piccole baie intrise di fosforescenza, spiaggette di
sabbia candida e incontaminata, veniva una specie di struggimento. Quasi un
bisogno di buttarsi in ginocchio e ringraziare Dio d'esser vivi. Per questo m'avevi
portato quassù? Per questo t'eri chiuso nello strano mutismo? Per farmi una
sorpresa, gioire della mia meraviglia? Mi girai per dirtelo ma non mi prestavi
attenzione. Pallido, e col braccio levato verso la lingua di terra che si allungava
nell'acqua, mi indicavi qualcosa che non riuscivo a localizzare: Laggiù, laggiù..
Laggiù dove, Alekos, e che? Lo spiazzato. Quale spiazzato?. Quello grigio,
rettangolare. Non lo vedi? No, non lo vedevo proprio. Giù, in basso, giù. Quello
che incomincia a pochi passi dalla riva e finisce con un muretto. Ah sì, ora lo

vedevo: un rettangolo di cemento, limitato da un muro. Ma di che si trattava,
d'un campo per giocare a bocce? D'un eliporto? D'un eliporto militare, forse. Ci
spiegava i cartelli che proibivano l'accesso. Lo vedo dissi. E una pista per gli
elicotteri. E tu: No, è il poligono di tiro, quello che serve per fucilare i condannati
a morte. E lì che dovevano fucilarmi. Con le spalle a quel muro. Pausa. Erano
cinque anni che mi chiedevo come fosse, in che luogo fosse. Sapevo soltanto che
di quassù si poteva individuare. Pausa. Sarà triste, mi dicevo, sarà brutto? Altro
che triste, altro che brutto, è perfetto. Un posto davvero perfetto per morire: col
golfo di Saronico che si stende davanti, l'azzurro sopra e sotto, Atene... Guarda,
all'estrema destra c'è Capo Sunio, le rovine del tempio. Poco prima c'è Lagonissi,
la villa di Papadopulos. Più giù c'è il ponticello dove avevo sistemato le mine, e poi
Vouliagmeni, poi Glyfada.
La mia casa a Glyfada. In fondo a sinistra c'è il Pireo, e sopra il Pireo si vede
l'Acropoli. Pensa! Se mi avessero fucilato, sarei morto guardando l'Acropoli, e la
mia casa, e il luogo dell'attentato. Sarebbe stata una bella morte, una bellissima
morte.
Mi sono perduto una bellissima morte.
Sembrava che la morte con la vista dell'Acropoli e della tua casa e del luogo
dell'attentato fosse una splendida donna che avevi sempre desiderato e che t'era
sfuggita con malignità un attimo prima dell'amplesso. Scomparso il pallore, ti
s'erano accese le guance, e le labbra, e gli orecchi: i tuoi occhi luccicavano di
bramosia. O di rimpianto? Dopo, non riuscivo a staccarti di lì. Andiamo via,
ripetevo, andiamo via per favore, e tu fermo a fissare il poligono della bellissima
morte perduta.
Era quasi buio quando il taxi ripartì nel malinconico susseguirsi di cactus, olivi,
alberi di pistacchio; buio quando raggiungemmo il carcere dei tre giorni e delle tre
notti, seconda tappa del tuo pellegrinaggio. Ma non riconoscevi più l'edificio, non
ritrovavi nemmeno la porta dalla quale eri entrato, invano giravi intorno al muro
di cinta, ti affannavi, frugavi nella memoria. E: Forse mi fecero passare dal retro.
Sì, dev'esserci un viottolo seminascosto che conduce a un cancello di ferro sul
retro, una specie di saracinesca, e al di là di quella un recinto che a sinistra
diventò un corridoio molto stretto. Così stretto che ci passa solo una persona per
volta. Oltre il corridoio c'è un piccolo cortile col casotto dei condannati a morte.

Molto vecchio, molto sporco, a un piano. L'atrio del casotto dura pochi passi
perché subito dopo si entra nel corridoio con le celle a destra e a sinistra. La mia
cella era l'ultima a destra.
Era lunga quattro metri e larga tre, le pareti dipinte d'un celeste sbiadito, il
pavimento a mattoni, niente lampade perché la luce veniva dalle lampade del
cortile. Poi con le guance accese, di nuovo, gli occhi che luccicavano bramosi, di
nuovo:
Quanto mi piacerebbe rivederla! Entrarci di nuovo, almeno per qualche minuto...
Quanto mi piacerebbe. Ci credi? Andiamo via, Alekos, andiamo via per favore.
Ancora un po..Torniamo a casa, ti prego, torniamo a casa. Ancora un po. Sono
stanca, è tardi, fa freddo. Ancora un po. T'eri messo a sedere per terra, con le
spalle appoggiate a una siepe, e non ti alzavi. Non dicevi nemmeno che cosa ti
trattenesse. Ma quando ci fummo imbarcati sull'ultima nave me lo dicesti che ti
tratteneva la nostalgia. La nostalgia della morte. perché un uomo che è stato
condannato a morte, che ha vissuto tre giorni e tre notti aspettando la morte, non
sarà mai più lo stesso. Si porterà sempre la morte addosso come una seconda
pelle, un desiderio insoddisfatto. continuerà sempre a inseguirla, sognarla,
magari ricorrendo al pretesto di nobili cause, doveri.
Ne troverà pace finché non l'avrà raggiunta.
Me lo dimostrasti addirittura prima che tornassimo a casa.
Un taxi ci stava portando a Glyfada quando, in via Tessalonica, il traffico venne
fermato per lasciar passare un corteo che veniva in direzione contraria alla
nostra. Sopraggiunsero rombando quattro motociclisti e una camionetta della
polizia, poi altri due motociclisti e un'altra camionetta, infine apparve
un'automobile nera. La limousine di Papadopulos. Ebbi appena il tempo di
scorgervi un volto tondo e grigiastro, due baffetti scuri, poi la tua bocca si storse
in un urlo feroce e le tue mani si allungarono verso la portiera: Pagliaccio, cane
maledetto! No, Alekos, no!. Lasciami, voglio scendere, lasciami C'era una forza
terribile nelle tue braccia, non riuscivo a tenerti, a impedirti di afferrar la
maniglia. E la limousine si avvicinava sempre di più, il volto tondo e grigiastro
appariva sempre più netto, ormai potevo vederne anche gli occhi piccoli e astuti,
il sorriso enigmatico che impercettibilmente increspava la boccuccia dispettosa.
Ancora un attimo e ti saresti lanciato fuori, per gettarti contro di lui e farti
ammazzare. Mi aiuti gridai all'autista. Capì, si girò, ti bloccò gettandoti

all'indietro: Sei pazzo, amico mio?. Sentii un gran peso addosso e seppi che eri
svenuto, che la felicità era finita. E, poiché la perdita della felicità serve spesso a
chiarirci le idee, svegliarci da un sonno che annebbiava l'intelligenza e impediva il
giudizio, compresi che d'ora innanzi amarti sarebbe stata una fatica agonizzante.
Qualcuno se n'è accorto? chiese Andrea. Mi strinsi nelle spalle. Credo di no. E
successo talmente in fretta, ogni sguardo era rivolto al corteo. E il tassista? Il
tassista è stato bravo.
Gli ho dato l'indirizzo e ci ha portato a casa. Scuoteva la testa e nient'altro.. La
scosse anche lui: E questo non è che l'inizio, se ne rende conto? Me ne rendo
conto annuii. Poi gli chiesi perché fosse venuto: per predire disgrazie? Scosse la
testa di nuovo: No, perché mi ha chiamato. C'è un cantante, ad Atene,
abbastanza famoso e inviso alla Giunta. Ha un locale alla Plaka, e vi ha invitato
più volte nei giorni scorsi. Stamani Alekos mi ha chiamato perché vada a dirgli
che stasera ci andrete. Però a un patto: che si suonino canzoni proibite dalla
Giunta, le canzoni di Teodorakis. E cosa succederà? Interverrà la polizia,
suppongo. E lui farà di tutto per farsi arrestare, dimostrare che nulla è cambiato,
che la dittatura continua.
Sì, temo proprio che il suo programma sia questo. Ammenoche.... Ammenoche?
Non so, forse sta architettando qualcosa di più complicato. Bisognerebbe... Ma,
proprio mentre diceva così, piombasti su di noi: Complotto, complotto! Cosa
complottate voi due? Su, svelta, preparati, andiamo a divertirci, a sentire la
musica. Ti voglio elegante, stasera, vestita di rosso! Ci eravamo andati. E ora,
rannicchiata nelle tue braccia, ascoltavo il respiro del tuo sonno pesante
cercando di dare un senso a quel che era successo. Ma era come sciogliere un
nodo per ricavarne un altro nodo e arruffare più che mai la matassa.
Vediamo. Al tuo ingresso il cantante aveva intonato un inno di Teodorakis, da
quel momento l'orchestra aveva suonato musiche messe al bando, e ci trovavamo
su una terrazza aperta: sicuramente il fracasso si udiva nell'intero quartiere. Per
la polizia non era intervenuta. A un certo punto avevi addirittura preteso che tutti
cantassero con te la marcia tratta dalla tua poesia Avanti i morti e decine di voci
s'erano levate, spavalde, altissime, a percuotere la notte viola: Avanti i morti /
porta bandiere senza fine della lotta / e dopo noi / ansiosi di levare gli stendardi
/ un popolo intero / vivi e morti insieme... Ma neanche allora la polizia aveva
reagito. Soltanto verso l'una del mattino due gendarmi s'erano affacciati per

chiedere di non far troppo fracasso, nel caseggiato qualcuno si lamentava, tante
scuse e grazie. Niente arresti ne richiami alla legge. perché? Fallita la sfida eri
sceso per strada a urlare ingiurie feroci contro Papadopulos, contro Joannidis,
contro gli stessi passanti che tentavano di calmarti e, non pago di ci, avevi
accompagnato ogni ingiuria col grido protervo: Ime Panagulis! Sono Panagulis!
Ma, di nuovo, non era successo nulla: quasi che ogni poliziotto avesse avuto
l'ordine di opporre completa indifferenza a ci che dicevi o facevi. perché? Appena
rientrato in casa t'eri gettato sul telefono e avevi chiamato la centrale dell'Esa:
Ime Panagulis! Sono Panagulis! Telo Joannidis! Voglio Joannidis! E giù altri
insulti da rizzare i capelli, ma il piantone non s'era scomposto: aveva detto che il
signor brigadier generale Joannidis non stava in ufficio, di notte, desideravi
lasciare un messaggio? Sì, avevi abbaiato, eccolo il messaggio, che lo
registrassero bene il messaggio, che non perdessero una parola: Joannidis frocio,
inculato, è vero che Papadopulos non ebbe i coglioni per fucilarmi ma tu non li
hai nemmeno per arrestarmi. E sbagli, Joannidis, sbagli, perché io ti farò urinare
sangue, Joannidis.. Poi avevi deposto il ricevitore dicendo calmo: Guardiamo se
vengono ad arrestarmi. E, meraviglia delle meraviglie, non era venuto nessuno.
Presto sarebbero state le dieci del mattino eppure non veniva nessuno.
perché? Non capivo. Del resto non capivo nemmeno perché invece di usare la
libertà ritrovata in modo serio, efficace, tu la sprecassi in gesti così plateali, sfide
superficiali e retoriche, da dinosauro che avanza nelle foreste della preistoria
calpestando alberi come fili d'erba. Che senso aveva, a cosa serviva? Davvero a
cercare la morte che ti s'era negata ad Egina? Mi staccai dalle tue braccia:
Alekos... Ti svegliasti con un grande sorriso: Non sono venuti ad arrestarmi, eh?
No, non sono venuti.. Lo sapevo!. Lo sapevi?! Certo che lo sapevo. Non è mica
cretino Joannidis. Chi prende sul serio un pazzo che dà in escandescenze o
telefona al capo dell'Esa per insultarlo?Non dirmi che l'hai fatto apposta! Sì, te lo
dico. E vedrai che oggi avremo una giornata tranquilla, vedrai che potremo
andarcene comodamente a Capo Sunio. Cosa c'è a Capo Sunio? Un bellissimo
tempio. Il tempio di Poseidone.
Era un pomeriggio glorioso e le rovine del tempio si ergevano candide nel cielo
color fiordaliso, il mare aveva una lucentezza di madreperla, i turisti stranieri
levavano gridolini estasiati: How marvellous! Wunderbar! Superbe! Lo pensavo
anch'io mentre impacciata dalla borsa a tracolla camminavo al tuo fianco, ogni

tanto chinandomi a raccogliere un sasso che avrei voluto tener per ricordo e che
tu, scandalizzato, mi toglievi di mano: Non si può! E un furto! Vergogna! Macché
furto, macché vergogna! E solo un sasso! Se ciascuno prendesse un sasso, cosa
resterebbe? Le colonne, le lastre di marmo....E tu ruberesti le colonne, allora, le
lastre di marmo! Ruberesti addirittura la rupe. Che bella rupe. E di lì che Egeo si
gettò in mare. La leggenda dice che Egeo attese qui il ritorno di suo figlio Teseo,
partito alla conquista del vello d'oro. Egeo aveva raccomandato a Teseo di entrare
in porto con le vele bianche, se fosse tornato vincitore, ma Teseo era un
ubriacone: esaltato dal trionfo bevve, dimenticò di alzare le vele bianche e....
Qualcosa scivolò dentro la mia borsa che divenne molto pesante. Alekos, che cosa
ci hai messo? ferma, non guardare, non toccare. Due frammenti della scalinata..
Due frammenti della scalinata?!? Non volevi che rubassi un sasso e hai preso due
frammenti della scalinata?! Risatina compiaciuta: Ah, cosa non farei per te! Ladro
mi rendi, ladro! E quando li hai presi? Non t'eri mai staccato dal mio fianco, non
ti eri mai chinato a raccattare nulla: quando li avevi presi?
Come sei noiosa. Li ho presi. Che importa quando li ho presi? E non toccare la
borsa, ho detto. Vuoi rimandarmi a Boiati per due pezzettini di marmo? Anzi
allontaniamoci, via. Con aria distratta, così. Facciamo gli innamorati che
ammirano il paesaggio. Così. Il braccio sinistro infilato nel mio braccio destro, e la
borsa fra noi, mi spingevi verso il limite del promontorio, via dalla folla, e vibravi
eccitato dal furto. Poi, nel punto dove la rocca scende in una specie di terrazza
aperta sul golfo, ti fermasti. Sediamoci qui, con le spalle rivolte al tempio. No, tu
mettiti di profilo, per controllare che nessuno ci abbia visto. Controllai.
Disciplinati e compatti, i turisti ammiravano i pregi del periptero dorico e nessuno
si occupava di noi. Solo un giovanotto con la camicia a quadri se ne stava in
disparte con l'aria di leggere la lastra su cui è inciso il nome di Byron, in realtà
lanciandoci occhiate. Forse un giovanotto, laggiù.
Dev'essersene accorto, ci studia. Ora si allontana, però. Se ne va. Credi che vada
a denunciarci? Lo escludo. Bene. Vediamo cosa hai rubato. Tirai la lampo della
borsa, con ansia gioiosa, e subito il mio sorriso si spense. Dentro non c'erano
frammenti di marmo, ma due scatolette di latta color verde mela. Alekos, che
roba è?!. Tabacco. C'è anche scritto: Golden Virginia, hand rolling tobacco.
Tabacco?! E chi te lo ha dato? Un amico. Un amico con la camicia a quadri? Sì!
Ma quando?! Quando ti raccontavo la storia di Egeo e di Teseo.

Svelto, eh? E c'era bisogno di venire a Sunio per questo? Evidentemente sì. Un
buon cospiratore ama sempre l'archeologia. Alekos, cosa c'è in queste scatole?
Te l'ho detto, tabacco. Golden Virginia hand rolling tobacco. Le soppesai.
Sul verde mela spiccavano altre tre parole: Fifty grams net.
Cinquanta grammi precisi. Cinquanta grammi! Ciascuna era almeno due etti,
forse tre. Alekos... Sollevai un coperchio, la carta stagnola, e subito ogni dubbio
svanì. Conoscevo bene quella pietra ruvida, gialla. Potevo illustrartene tutte le
caratteristiche e le proprietà. Ci che avevi messo nella mia borsa come un
giocattolo o un dono era tritolo. Due belle saponette di tritolo.
How marvellous! Wunderbar! Superbe! Is itn't unbelievable? Vraiment
extraordinaire! Ora il sole bruciava fiammate rosa e purpuree, incominciava il
tramonto, e i gridolini degli stranieri si raddoppiavano acuti. Volavano anche dei
gabbiani tra le fiammate rosa e purpuree ed uno si stava tuffando a picco
nell'acqua del golfo, come il gabbiano del sogno. Distolsi lo sguardo. Cosa vuoi
farne, Alekos? Mi rispondesti con una domanda: Dimmi, l'amore cos'è? Forse è
portare in borsa due saponette di tritolo. Brava. Portarle o affidarle. Te le ho
affidate di proposito, per dimostrarti che l'amore è amicizia, è complicità. L'amore
è una compagna con la quale si divide il letto perché si divide un sogno, un
impegno. Io non voglio una donna con cui essere felice. Il mondo è pieno di donne
con cui si può essere felici, se è la felicità che si cerca. Infatti ho avuto tante
donne che a pensarci bene cinque anni di carcere sono stati un riposo. Per non
ho mai avuto una compagna. E voglio una compagna. Una compagna che mi
sia compagno, amico, complice, fratello. Sono un uomo in lotta.
Lo sarò sempre. Lo sarei ovunque e comunque. Anche in paradiso. Non so
concepire un modo diverso per vivere e per morire. Quante persone ci sono su
questo pianeta? Tre miliardi e mezzo? Ebbene, se tre miliardi e
quattrocentonovantanove milioni e novecentonovantanove mila e
novecentonovantanove persone scegliessero di non lottare, il che sarebbe
l'unanimità assoluta meno uno, io lotterei lo stesso. Il tritolo non c'entra. Il tritolo
è un momento nell'esistenza di un uomo in lotta. Del resto non mi piace il tritolo.
Non mi piace la violenza, qualsiasi forma di violenza: non sarei mai capace, io, di
far saltare in aria un autobus di bambini come fanno alcuni in nome della patria
o di qualche altra fottuta ideologia. Non credo alla guerra. Non credo alle
rivoluzioni fatte col sangue.

Sono convinto che servano solo a cambiare il padrone. Mi danno fastidio le
fucilate, gli scoppi: te lo dissi che ai Garibaldi io preferisco i Cavour. Ma quando
c'è di mezzo la libertà, perché l'unica cosa che conti è la libertà, quando... Cosa
vuoi farne, Alekos?. Cosa? Ascoltami, cinquecento grammi di tritolo sono una
miseria. Però si possono fare moltissime cose con cinquecento grammi di tritolo.
Basta un detonatore, una miccia, un po di fantasia. E una compagna che ci
aiuta. Ho bisogno di te. Mi servi.. Per andare a spasso e raccattare scatole di
Golden Virginia senza dare nell'occhio? No, per molto di più. Per non essere solo.
Se mi aiuti, se non mi lasci solo, ti dico che voglio farne. Quella voce. Quegli
occhi. C'era un demone in quella voce, in quegli occhi: una passione lucida,
fredda, incontrollabile, da ossesso che in nome della sua fede può commettere
qualsiasi assurdità, rovinare la propria vita e quella degli altri, sacrificarvi i propri
sentimenti e i sentimenti degli altri, la propria intelligenza e l'intelligenza degli
altri.
Ma le tue parole chiudevano la più straordinaria dichiarazione d'amore che una
creatura potesse ricevere. Valevano mille abbracci in un letto, mille notti
d'incanto, mille piante di gelsomino, mille s'agaptorak etha s'agappantote. E il
dinosauro che la notte prima avevo visto urlare, avanzare nelle foreste della
preistoria calpestando alberi come fili d'erba non era un dinosauro: era un uomo.
Un uomo solo, per giunta.
Così solo che negarglisi sarebbe stato infame. Una compagna che mi sia
compagno, amico, complice, fratello. Mi aiuterai? Certo risposi. Bene. Hai
presente l'Acropoli...? Il piano dell'Acropoli era una gloriosa follia. Consisteva
nell'occupare il recinto archeologico all'ora in cui viene chiuso al pubblico, poi
nell'innalzare la bandiera rossa sul Partenone, non perché ti piacesse il
conformismo della bandiera rossa ma perché il rosso dava fastidio alla Giunta e
spiccava bene sul bianco dei marmi, infine nel tenere il Partenone in ostaggio con
la minaccia di farlo saltare in aria. Alekos, due saponette di tritolo non
basterebbero neanche a far saltare in aria una colonna! Naturalmente. Ma loro
non lo sanno che abbiamo due saponette e basta. E appena ne avrò fatta
esplodere una a scopo dimostrativo... Non ti crederanno. Mi crederanno.
perché mi credono capace di tutto, anche di distruggere il Partenone. Lo
distruggeresti davvero? Neanche morto.. In un primo tempo avevi pensato anche
di catturare un certo numero di turisti, possibilmente americani, ma poi avevi

concluso che sarebbero stati di impiccio perché avrebbero tentato di scappare,
avrebbero avuto bisogno di cibo, di acqua, magari di medicine. Insomma
avrebbero rotto le scatole. Il Partenone invece non beve, non mangia, non scappa,
e non ha bisogno di medicine. Inoltre quale ostaggio avrebbe potuto essere più
prezioso del Partenone? Chi amava la bellezza e la cultura, dicevi, non aveva
ancora cessato di maledire quel Koenigsmarck che nel 1687 lo aveva preso a
cannonate per stanare i turchi, e i turchi che ci avevano messo una polveriera.
Perdere ciò che era rimasto del Partenone, quindi, sarebbe stato come perdere il
simbolo stesso della civiltà: il mondo intero sarebbe insorto a difesa delle sue
quarantasei colonne, tutte le ambasciate sarebbero intervenute presso la Giunta
per supplicarla di accettare le tue richieste. Quali richieste? In un regime di
dittatura le richieste non mancano mai ed io ne ho una che vale il tempietto delle
Cariatidi. Che l'impresa potesse non riuscire era un'eventualità che scartavi a
priori. L'Acropoli, ripetevi, è inespugnabile: si alza su un promontorio con le
pareti a picco ed offre una sola via di accesso, l'entrata dai Propilei. Una dozzina
di guerriglieri ben armati sarebbero stati più che sufficienti a tenere a bada
l'esercito e la polizia. L'unico problema era trovarli. Dodici guerriglieri, Alekos? Un
paio di elicotteri e pochi tiratori scelti basterebbero ad eliminarli in cinque minuti.
Senza contare che i gas lacrimogeni..No, se al primo sparo o al primo candelotto
faccio saltare in aria un pezzettino di Partenone. E una questione di psicologia.
Hai detto che neanche morto faresti del male al Partenone.. E chi t'ha detto che
sia davvero un pezzettino di Partenone? Che ne sanno loro se i sassi che volano
in aria sono del Partenone o no?. Ammettiamolo. E quanto pensi di poter
resistere? Un giorno? Una notte?. Con una piccola scorta di viveri, perfino tre
giorni e tre notti. Te la immagini la bandiera rossa che per tre giorni e tre notti
sventola sul Partenone? Fra tutto quel bianco spiccherà come un papavero, si
vedrà da ogni punto della città. Operatori televisivi, giornalisti, fotografi verranno
da ogni paese. La Giunta sarà ridicolizzata allo spasimo e lui si sentirà costretto a
capitolare. Lui chi? Joannidis, no? E Joannidis che voglio. Papadopulos conta
sempre meno e, prima o poi, Joannidis lo eliminerà. Lo vuoi dove, per cosa? Per
patteggiare, no? Sull'Acropoli, no? Dovrà salire lassù e... Sarebbe questa l'idea
che vale il tempietto delle Cariatidi? Sì.Ascoltami, Alekos: Joannidis non verrebbe
mai. Ascoltami tu: io conosco Joannidis, e ti dico che verrà. perché è coraggioso.
E perché mi odia.

Neppure su questo punto mostravi alcun dubbio. La tua certezza che il piano
riuscisse era così incrollabile che qualsiasi tentativo di razionalizzare la cosa
cadeva nel vuoto. Sì, Joannidis sarebbe salito sull'Acropoli e tu lo avresti ricevuto
dentro il Partenone. Con una carica di tritolo addosso. Gli avresti detto:
Complimenti,Joannidis. Non mi hai deluso,Joannidis.
Cinque anni fa fosti tu a dichiarare che solo una volta su centomila capita di
trovare uno che non parla. Oggi sono io a dire che solo una volta su centomila
capita di trovare un generale che risponde a un simile invito. Per quel giorno io
avevo le manette, Joannidis. E oggi devi averle tu. Anzi, le avremo insieme..
Subito dopo avresti ammanettato il suo polso destro al tuo polso sinistro e: Vedi
la carica che ho addosso, Joannidis? E innescata con una miccia a combustione
rapida. Se fai un gesto, saltiamo in aria insieme. Non ci credo, Alekos. Non lo
faresti. Lo farei, lo farei. Se ne avrò bisogno lo farò, lo farò.
Vedrai. E poi? Poi pongo le richieste e andiamo in Algeria. In Algeria?!? Sì.
Direttamente dall'Acropoli?!? Sì. Con Joannidis?!? Evidente. Ce lo porteremo
dietro come ostaggio, sempre legato al mio polso sinistro. Esigeremo un aereo
tutto per noi e... E se Joannidis fosse pronto a morire per impedirtelo? Lui sì, i
suoi fedeli no. E l'uomo forte del regime e ha con se gran parte dell'esercito.
L'Attica è sua. Chi vuole eliminare Papadopulos non gli consentirà mai di morire
e concederà quel che chiedo. Del resto, avrò sempre addosso la carica innescata.
Se necessario, morirò con lui come quel generale tedesco che voleva saltare in
aria con Hitler. Sei pazzo. Forse. Ma sono i pazzi che fanno la storia, non è la
logica che fa la storia. Se ci fermassimo a considerare ciò che ha buon senso e ciò
che non lo ha, ciò che è possibile e ciò che non lo è, la terra smetterebbe di girare.
E la vita perderebbe il suo scopo.
Quale fosse il ruolo che riserbavi a me nel corso di tale pazzia non si capiva bene.
A momenti sembrava di semplice sostegno morale, a momenti di grande
importanza strategica.
Se piazzo tre uomini sul lato nord, tre sul lato sud, due sul lato est, quattro fra il
cancello e i Propilei, resto sguarnito sul Partenone e non ho nessuno che mi
guardi alle spalle. Sai usare il mitra? Il dubbio che avessi qualcosa da obiettare,
ad esempio sull'uso del mitra, non ti sfiorava davvero. Del resto, non ti
interessava nemmeno sapere che non fossi d'accordo sull'intera faccenda: il
pomeriggio di Capo Sunio aveva suggellato un patto che escludeva ogni mia

diserzione. Ero ormai il tuo Sancho Panza e il compito di Sancho Panza non è
forse quello di seguire don Chisciotte, assecondarlo nelle sue follie? L'unico punto
che ti preoccupasse, lo avevi detto illustrandomi il piano, era trovare dodici
guerriglieri. Senza un partito alle spalle, un'ideologia brevettata, non ti sarebbe
stato facile metterli insieme. Avresti dovuto cercarli andando a tentoni nel buio, e
in questa consapevolezza ti chiudesti in casa ad allineare nomi, studiarli,
scartarli: Questo no, non lo conosco abbastanza. Questo no, lo racconterebbe.
Questo no, avrebbe paura.. E guai a parlarti d'altro, tentar di distrarti. Non mi
riguarda, non mi interessa! Solo quando giunse la notizia che in Cile era avvenuto
il colpo di stato e avevano ucciso Allende, uscisti dal guscio: l'Acropoli sembrò
sparire dai tuoi pensieri.
Ma presto riapparve, con la forza maligna di un sughero che più lo scagli
sott'acqua più ritorna a galla, e anche la morte di Allende divenne cibo per nutrire
la tua gloriosa follia.
Insieme alla bandiera rossa alzeremo la bandiera cilena. La libertà non ha patria.
Avevi composto una rosa di candidati e stabilito di vagliarli uno a uno senza
rivelare il motivo dell'incontro. Così li ricevevi con volto innocente e, spalancando
le braccia, battendogli affettuosi colpetti sulle spalle, li conducevi nel soggiorno
dove un registratore a cassetta suonava a volume altissimo gli inni della
Resistenza. Era il tuo metodo per capir subito con chi stavi trattando. Se il tipo si
innervosiva o diceva che suonar certa roba era pericoloso, lo scartavi
immediatamente; se invece si infiammava o restava tranquillo, lo prendevi in
considerazione. Carattere, attitudine al rischio, grado di intelligenza, volontà di
combattere: con la freddezza di un entomologo che osserva una formica o di un
sarto che ispeziona un tessuto, lo studiavi, lo esaminavi, lo analizzavi.
Ma quasi sempre senza successo. E quando alla fine selezionasti i cinque che a
tuo dire avrebbero costituito il nucleo del commando, tre confessarono subito che
gliene mancava il coraggio. Con gli altri due accadde di peggio.
Il primo chiese qualche ora per meditarci, poi tornò con un foglio pieno di calcoli
e ti spiegò perché il bluff non avrebbe tenuto: far credere che il tempio era minato
costituiva un'impresa più che assurda, impossibile. Il Partenone, disse, è meno
fragile di quanto sembra: qualsiasi ingegnere o architetto sa che i suoi blocchi di
marmo non si abbattono con facilità. Per farlo saltare in aria, dunque, i sistemi
sono due. Ed entrambi si basano sul crollo delle colonne, colonna per colonna.

Uno dei due sistemi consiste nel sistemare una carica di dinamite alla base di
ogni colonna, dentro buchi profondi quindici centimetri circa e larghi altrettanto.
Quindici centimetri è il massimo consentito e il minimo necessario perché,
minata all'interno, ogni colonna richiede dieci chili di dinamite cioè venti
candelotti: un candelotto pesa mezzo chilo. Però un buco non contiene più di
dieci candelotti, quindi ci vogliono due buchi ben distanziati. Poiché il Partenone
ha quarantasei colonne, ne conseguono ben novantadue buchi. Per fare un buco
nel marmo, si impiega un'ora: col trapano elettrico.
Novantadue ore di lavoro divise fra dodici guerriglieri che depongono il mitra e si
trasformano in operai bucando tre o quattro colonne ciascuno, equivalgono a
quasi otto ore di attività ininterrotta. Diciamo tra le dieci di sera e l'alba. A parte
il fatto che per una simile impresa bisognerebbe avere almeno dodici trapani
elettrici e un generatore potentissimo, il fracasso sarebbe inaudito: un
bombardamento senza sosta che sveglierebbe la città dal Pireo a Kifissia.
Naturalmente il lavoro si potrebbe ridurre a un'ora, ma allora ci vorrebbero
novantadue uomini; si potrebbe ridurre a due ore, ma allora ci vorrebbero
quarantasei uomini e... Lo interrompesti, adirato: Io non ti ho chiesto un saggio
sulle demolizioni e non ho mai pensato di ridurre il Partenone a un colabrodo o a
un formaggio gruviera.
Quindi queste sono chiacchiere inutili. Ma lui: No, sono ragionamenti. Gli stessi
che un esperto farebbe a Joannidis se Joannidis chiedesse quali probabilità
esistono che tu abbia minato davvero il Partenone. La risposta sarebbe: nessuna
ammenoche non disponga di mezza tonnellata di dinamite. Dieci chili di dinamite
dentro ogni colonna, moltiplicati per quarantasei colonne, fa infatti quasi mezza
tonnellata di dinamite. Ti pare troppo? L'altro sistema, che non ha bisogno di
trapani elettrici ne di generatori potenti perché si basa sulle cariche sistemate
all'esterno delle colonne, richiede dieci tonnellate di dinamite. Cioè duecento chili
di dinamite per colonna. E duecento chili equivalgono a quattrocento candelotti.
Per semplificare l'operazione, i candelotti possono esser messi in un sacco: poi si
lega il sacco alla colonna con robusti nastri adesivi, proprio come si lega un
fagotto. Un sacco per colonna fa quarantasei sacchi e, per concludere, se riesci a
convincere la Giunta e il mondo che hai portato sull'Acropoli dieci tonnellate di
dinamite o almeno mezza tonnellata, sei a posto. Lo interrompesti di nuovo, ma
stavolta con calma imprevista: evidentemente la storia dei sacchi t'era piaciuta.

Non c'è nessun bisogno di quella dinamite, mi hai dato un'idea. Non dovremo
portare che quarantasei sacchi vuoti, due o trecento metri di nastro adesivo ben
forte e un rotolo di filo elettrico. L'Acropoli è piena di pietre e nessuno saprà che
cosa abbiamo messo nei sacchi.. Il giovanotto ti guardò sconcertato. Poi si alzò e
se ne andò.
Il secondo non contestò l'attuabilità dell'impresa coi sacchi vuoti. Sì, disse
conciliante, conosceva la tua fantasia: gareggiava col tuo coraggio e l'avevi ben
dimostrato nei cinque anni di Boiati. Quindi lui non era affatto d'accordo con chi
sottovalutava la probabilità che il tuo bluff avesse successo: conoscendoti ne la
polizia ne Joannidis si sarebbero chiesti se i sacchi contenevano veramente
esplosivo. L'unica cosa di cui dubitava era che da una simile impresa tu potessi
uscir vivo e, sia che tu ne uscissi vivo, sia che tu ne uscissi morto, comunque, lo
scopo finale qual era? L'ho detto: calamitare l'attenzione del mondo sulla Grecia,
mobilitare la stampa nazionale ed estera, ridicolizzare la Giunta. Annuì, si raschi
la gola, e con l'aria di cercare la mia approvazione, ora traducendo le frasi più
importanti in inglese, perché capissi, si lanci in una specie di predica. Nessuno,
disse, aveva dimenticato che durante la Seconda guerra mondiale un prode
chiamato Glazos era salito sull'Acropoli e aveva strappato la bandiera tedesca dal
pennone vicino all'ingresso. Un gesto spettacolare, una bravata che faceva ormai
parte della leggenda e che i bambini studiavano sui libri di scuola. Ma a cos'era
servito quel gesto fuorché a stupire il mondo e schernire l'invasore? Aveva forse
sollevato il popolo, inciso sul corso degli eventi? I gesti spettacolari, gli eroismi
privati, non incidono mai sulla realtà: sono manifestazioni di orgoglio individuale
e superficiale, romanticismi affini a se stessi proprio perché restano chiusi entro i
confini dell'eccezionalità. Purtroppo i greci ne erano maestri, v'era anche un
saggio di Bertrand Russell sull'argomento ed ebbene: Russell sosteneva che i
cittadini della polis greca erano animati da un patriottismo primitivo, cioè
imprudente e non saggio. La forza delle loro passioni conduceva sì a successi
personali ma tali successi non giovavano all'intera polis e, a conti fatti, erano
simboli di incapacità politica. Del resto non c'era bisogno di Russell per capire
che il grande esempio non serve a mobilitare le masse, che anzi le scoraggia
perché, sentendosi escluse e intimidite dal valore di uno o di pochi, si bloccano in
un complesso di inferiorità. Conclusione, il sacrificio dell'eroe è un atto di
egoismo. Egoismo?. La tua domanda suonò secca come uno schiaffo. Sì, un atto

di egoismo. O dovrei dire di narcisismo? Uno sbaglio, certo..Narcisismo? Sbaglio?.
E stavolta la domanda suonò come un colpo di frusta.
Sì, Alekos, sbaglio. Stai riproponendo lo stesso sbaglio di cinque anni fa: ho già
spiegato che le dittature non si cancellano facendo l'eroe solitario o eliminando da
soli un tiranno.
Si cancellano educando le masse alla rivolta collettiva, alla lotta organizzata.
Sennò, morto un tiranno, ne viene un altro e tutto riprende come prima. Vidi i
tuoi denti mordere con forza la pipa. sicché io non sarei servito a nulla, non servo
a nulla. Non dico questo, Alekos, io ne faccio una questione ideologica, esamino
la cosa dal punto di vista ideologico, raziocinante. E necessario ammettere che v'è
una buona dose di vanità nell'eroe! Vanità?! Ci fu un balzo, il tuo, e poi una
specie di rantolo, il suo: lo avevi agguantato per la cravatta e gliela torcevi intorno
al collo. Ascoltami, cacasentenze! Chi non ha coglioni si rifugia sempre sotto
l'ombrello dei motivi ideologici! Chi non ha fede si nasconde sempre dietro il
paravento del raziocinio! Dov'eri tu, cacasentenze, cosa facevi quando io stavo sul
lettino delle torture e aspettavo d'essere fucilato? A scrivere libri per educare il
popolo? A organizzare le masse del Duemilatrecentotrentatre? Fuori di qui.
Fuoriii! Poi ti accasciasti in un pianto sconsolato. Candelotti, trapani elettrici,
divisioni, moltiplicazioni, quarantasei per due uguale novantadue, novantadue
diviso dodici uguale sette e avanza otto, Bertrand Russell, egoismo, narcisismo, le
masse: non c'era dunque nessuno in questa città, nessuno, disposto a darti una
mano e credere in te?
Sperai che fosse una crisi benefica. Invece non servì a nulla fuorché ad
alimentare in me lo smarrimento incominciato la sera in cui avevi tentato di
buttarti sotto l'automobile di Papadopulos: in quale trappola ero caduta, in quale
labirinto m'ero cacciata?
Come un viandante perduto in un paese straniero ed ostile del quale non capisce
le strade, sicché ad ogni incrocio si fermò confuso, invano sperando di scorger
qualcuno o qualcosa che gli indichi il modo di andare avanti o tornare indietro,
così io ti guardavo dopo il rifiuto che i cinque ti avevano opposto. Gli ultimi due
mi avevano infatti fornito la prova che anche nel tuo mondo, tra coloro che
parlavano la tua lingua, eri considerato una creatura incatalogabile e
incomprensibile, anzi una pianta bizzarra che è nata per portare scompiglio nel
bosco, un bellissimo fungo che nessuno raccoglie per timore d'esserne avvelenato.

E questo dava corpo alle mie perplessità, avvalorava i timori che dopo il viaggio ad
Egina mi tormentavano: che c'entravi tu con Huyn Thi An, Nguyen Van Sam,
Chato, Julio, Marighela, e padre Tito de Alencar Lima? Eri davvero ci che avevo
creduto tu fossi, avevo fatto davvero bene a tornare, accettare d'esser la tua
compagna, oppure aveva avuto ragione quella Cassandra di Andrea sicché mi
aspettava soltanto sofferenza, tragedia? Tutto in te costituiva una sfida alla
ragione, una rivolta al buon senso, uno schiaffo alla logica: l'ardore cieco, sordo,
esagerato con cui ti scaraventavi in un'avventura; l'enfasi e la retorica con cui
quell'ardore si esprimeva; l'arbitrio con cui lo dispensavi o lo imponevi al
prossimo ignorando le sue tesi o irridendole; la voluttà di consumarti nel pericolo
continuo, lo sforzo incessante, la lotta perpetua. Ma non la lotta per raggiungere
una meta precisa: la lotta per la lotta, come se la meta non importasse o fosse
soltanto un pretesto, un miraggio che ora ha nome libertà ora l'aspetto dei mulini
a vento e quindi si rincorre a vuoto, per vivere e basta. perché vivere significa
muoversi e fermarsi equivale a morire. Amarti, anzi accettarti, era davvero vestire
i panni di Sancho Panza che segue don Chisciotte e canta le sue poetiche folli
bugie, vivere il sogno impossibile, combattere il nemico imbattibile, sopportare il
dolore insopportabile, correggere l'errore incorreggibile, raggiungere le stelle
irraggiungibili. E tutto ci chiedendosi se in fondo al cuore anch'egli non sappia
che sono soltanto poetiche folli bugie, perci rinnovando a ogni incrocio gli impulsi
a fuggire che avrebbero sempre incrinato e insieme cementato il mio rapporto con
te.
perché le stesse cose che mi allontanavano da te, già me ne accorgevo, mi
portavano a te. Quasi che la diversità anzi l'incompatibilità delle nostre nature
fosse il cemento di cui gli dei si servivano per tenerci insieme.
Bloccata dal dilemma di andare avanti o tornare indietro, nel medesimo tempo
confusamente conscia di non potermi sottrarre al volere degli dei, al destino già
scritto, tentavo dunque di adeguarmi e capirti attraverso il caleidoscopio delle tue
mille contraddizioni. Ad esempio i bruschi cambiamenti d'umore che ora ti
trasformavano in un fanciullo ora in un vecchio, l'uno e l'altro estranei all'uomo
che avevo conosciuto e che il mondo credeva di conoscere: tuttavia fusi in lui
come due fiumi in un mare. Il vecchio camminava a testa china, le spalle curve,
non si staccava mai dalla pipa che fumava lento, con gli occhi socchiusi, ed era
tenero, benigno, tollerava le avversità con pazienza infinita, parlava con la

splendida voce che un pomeriggio d'agosto m'aveva sedotto. I suoi discorsi erano
solenni. Se gli chiedevi conto del fanciullo rispondeva: Egli è me. Egli è la vera
saggezza. L'aspetto della saggezza non è cupo e tetro, non è pensieroso, è ilare e
pieno di gioia.
Il fine e il compimento della sapienza stanno nella giocosità felice. Mi chiamava
ragazzino, alitaki. Il fanciullo invece saltava e guizzava come nei momenti in cui
credeva d'aver trovato i guerriglieri per occupare l'Acropoli, si muoveva a scatti,
nervosamente, era festoso o bizzoso a seconda del capriccio, e quand'era festoso
aggrediva con zampate di cucciolo felice d'aver trovato un osso, trascinava in
briosi girotondi infantili:
Giochiamo? Se gli chiedevi conto del vecchio rispondeva con filastrocche
insensate: Io sono io. Io con lui sono io e lui, io con te sono io e te, sicché io resto
sempre io. Faceva anche giochi di parole un po sciocchi, fiero di padroneggiar la
mia lingua: .Non voglio te, voglio il tè! Non voglio il tè, voglio te! Inoltre
collezionava palline di vetro, boccettine, scatoline, ogni oggetto che potesse
diventare balocco. Adorava i balocchi e s'era preso il dono che avevo comprato per
Cristos, il bambino nato nella casa accanto quando ci eravamo amati per la prima
volta in un letto: una campana d'argento con un carillon che suonava una ninna
nanna dolcissima. E inutile aggiungere che il connubio era irresistibile:
procedendo per vie parallele e opposte, in ritmi contrastanti eppure armoniosi, il
fanciullo e il vecchio coabitavano in un uomo che anche senza la suggestione
d'un passato glorioso avrebbe sedotto.
Non a caso le donne si innamoravano perdutamente di lui. E qualche volta anche
gli uomini, sebbene lui non se ne accorgesse. O fingesse di non accorgersene. Con
le donne del resto avresti sempre avuto un successo non comune, di rado avrei
visto suscitare invaghimenti passioni desideri sfrenati quanti ne suscitasti tu fino
all'ultimo giorno della tua vita, per mai quanto nel periodo immediatamente
successivo a Boiati quando giovani e vecchie, ricche e povere, stupide e
intelligenti, si offrivano a te in un plebiscito di cupidigia sessuale quasi sinistra:
con telefonate, lettere, doni, messaggi affidati a paraninfi, bigliettini che ti
ficcavano in mano o in tasca sotto i miei occhi giacche nemmeno il fatto che
vivessimo insieme le scoraggiava. Anzi le eccitava. Ora che avevi ritrovato la
sicurezza di attraversare le strade, camminare pei marciapiedi affollati, e sul
piede rotto zoppicavi sempre di meno, ti volevano infatti anche quelle che prima ti

ignoravano. Ed io assistevo affascinata al fenomeno, anche in esso cercando una
chiave che aprisse le porte del tuo personaggio: se uomini e donne si
innamoravano così perdutamente di te, perché rimanevi così solo, non trovavi
nessuno che ti desse una mano a combattere la dittatura nel modo che volevi? E
perché non ti adeguavi un poco alla realtà, perché non agivi all'interno di un
movimento organizzato, di una corrente politica riconosciuta, perché ti ostinavi a
pretendere di cambiare le cose da solo, magari con gesti o trovate che avevano il
sapore di un gioco, il piano dell'Acropoli insomma? Avrei impiegato molto a capire
che proprio qui stava la tua grande intuizione di ribelle e di artista, la tua grande
coerenza.
Non ti usciva dalla testa, quel piano. Ne l'impossibilità di mettere insieme un
commando disposto ad attuarlo, ne i ragionamenti di colui che chiamavi
cacasentenze, ne il tempo che passava con le sue distrazioni, le sue tentazioni,
erano bastati infatti a liberartene.
E, una mattina: Andremo a Creta.
A far che?. A cercare guerriglieri. A Creta li troveremo.
L'attesa del viaggio a Creta fu il banco di prova della tua ostinazione, della
monomania che ti ammalava ogni volta che la fede partoriva un'idea e l'idea
diventava psicosi. La storia dei sacchi da legare alle colonne t'era piaciuta a tal
punto, infatti, da ispirarti una diavoleria supplementare: oltre a riempirli di pietre
e zavorra anziché di esplosivo, li avresti usati per comporre uno slogan che
girasse intorno al Partenone. Sul marmo non possiamo scrivere nulla: a parte le
scanalature che lo impedirebbero, sporcare il Partenone con la vernice sarebbe
un vero delitto. Sui sacchi invece possiamo scrivere quel che ci piace. Ogni
colonna un sacco, ogni sacco una lettera: lo slogan si leggerà da lontano. Non è
una trovata? Lo era. Il problema stava nello scegliere parole le cui lettere
corrispondessero al numero delle colonne sia sulla facciata che sul retro e sulle
fiancate del tempio. La facciata e il retro contavano otto colonne, su di esse
quindi la parola non poteva superare le otto lettere; le fiancate contavano
diciassette colonne, su di esse quindi la parola o le parole non potevano superare
le diciassette lettere. Per le quattro colonne d'angolo non potevano contenere una
lettera di qua e una di là, avrebbe creato confusione, e riduceva a sei lettere la
parola sulla facciata e sul retro, oppure a quindici lettere le parole sulle fiancate.
Senza contare la faccenda degli spazi bianchi che ti facevano addirittura

impazzire perché, a causa di quelli, tutti i vocaboli sembravano troppo lunghi o
troppo brevi. Oppressione! Katapiesis! Troppo lungo. Popolo! Las! Troppo breve.
Alla fine trovammo una frase che andava quasi bene perché si componeva di otto
parole per un totale di quarantaquattro lettere e sette spazi bianchi: Agonas dia
tin elefteria Agonas kata tis tirannias, Lotta per la libertà Lotta contro la
tirannia. Il problema stava in quel quasi. I due agonas, infatti, si collocavano
perfettamente sulla facciata e sul retro: lasciavano perfino due spazi bianchi sulle
colonne d'angolo. Le parole dia tin elefteria, per lalibertà, si collocavano
altrettanto perfettamente su una fiancata. Il kata tis tirannias, contro la tirannia,
conteneva invece una lettera di troppo. Ma, pur infastidendoti, la cosa non ti
scoraggi. La frase aveva un senso, dicesti, girava intorno al Partenone in modo
armonioso, e all'inferno l'estetica: avresti compresso l'articolo tissu due colonne
mettendoci un unico sacco, grande. Per far questo controllo salimmo anche
sull'Acropoli, e questo fu l'avvio di molte escursioni durante le quali pretendevi
che mi comportassi come una maniaca dell'archeologia: ammirando,
fotografando, studiando fregi e capitelli per non dare nell'occhio. Tu, intanto,
cercavi i nascondigli possibili, misuravi a passi la distanza tra i Propilei e
l'Eretteo, tra l'Eretteo e il Partenone, tra il Partenone e i Propilei, esaminavi con
cura la roccia che al limite della parete nordest si arrampica sulla muraglia, la
stessa su cui Glazos si era arrampicato per strappare dal pennone la bandiera
tedesca, contavi l'afflusso dei turisti, il comportamento dei guardiani, i luoghi
adatti a far scoppiare la saponetta di tritolo a scopo dimostrativo. Voglio portare
un piano completo a Creta, perfetto fino ai minimi particolari. E non mi ascoltavi
quando azzardavo dubbi sull'utilità del viaggio. Andrà tutto bene. Vedrai.
Ne eri convinto perché sapevi di non avere commesso errori: niente
appuntamenti, niente voli prenotati, e albergo riservato con un nome fasullo. Che
saremmo arrivati lo avevi annunciato soltanto a pochissimi compagni fidati.
Restava, ovvio, il rischio che la polizia ci pedinasse quando uscivamo di casa per
andare all'aeroporto ma, durante il tragitto, non notammo nessuno che ci
seguisse ed anche all'imbarco sembrò che nessuno si curasse di noi. Visto? Si
sono appena accorti che siamo tra i passeggeri. L'illusione svanì quando salimmo
a bordo. Non ci avevano perso d'occhio un secondo, tutto era stato organizzato in
modo da controllare anche il nostro respiro. I posti assegnati, per esempio. Erano
gli ultimi due sedili a sinistra, diversi dagli altri perché tra quelli e la parete alle

nostre spalle restava uno spazio di mezzo metro circa, e in questo spazio si
sistemarono subito due agenti in borghese. Le mani aggrappate ai bordi dello
schienale, ci incombevano addosso con un fiato puzzolente di aglio e non
nascondevano neanche il particolare di trovarsi lì per noi. Ti stuzzicavano infatti,
ti toccavano i capelli, ti provocavano con risatine e frasette: Kat laves italiki?
Capisci l'italiano? Ne, sì. Come si dice in greco buon viaggio? Kalon taxidi. Eh,
eh! Ti interrogai con lo sguardo: se facevano questo e inoltre viaggiavano in piedi,
contro il regolamento, voleva dire che erano in missione ufficiale con compiti
molto precisi. Annuisti con un lieve cenno del capo e poi in una immobilità
taciturna che durò fin quando sbarcammo, ricevuti da Marion e Febo. Lei una
cara amica dai giorni del Politecnico e lui un resistente uscito di carcere con
l'amnistia. Il tempo di abbracciarli, spiegargli ci che succedeva, e il puzzo d'aglio
era scomparso, i due dileguati. Per dare il cambio a chi? Di nuovo sembrava che
nessuno si curasse di noi. Per le strade di Xania, neanche un'automobile che
seguisse la Renault con cui Marion e Febo ci portavano all'albergo. Forse
temevano semplicemente che tu dirottassi l'aereo. sorrise Marion. E quasi nello
stesso momento le sfuggì un'esclamazione: Oh, no! Eravamo giunti all'albergo e
proprio sul marciapiede sostava una macchina bianca della polizia. Salimmo in
camera, una bella camera con la finestra sul mare, ti affacciasti al balcone, ti
ritirasti subito con un ordine rauco: Spegni la luce, svelta. perché? Spegni, ti
dico! La spensi, ti venni vicino: Che c'è, che accade? Guarda! Guardai e per
alcuni secondi non vidi che una splendida notte illuminata dalla luna, l'acqua
tranquilla del porticciolo dove le onde sciaguattavano piccoli schiaffi d'argento.
Ma poi, con lo stomaco che si contraeva, scorsi anch'io quel che mi indicavi: una
barca ancorata a venti metri dalla riva. E, sulla barca, tre uomini che ci
osservavano con un grosso cannocchiale.
Sarebbe rimasta lì ogni notte, ancorata nel medesimo punto. A una cert'ora del
mattino si allontanava e verso il tramonto tornava: coi tre uomini a bordo, gli
stessi, e il cannocchiale puntato sul nostro balcone. Era una persecuzione
insieme sottile ed assurda. Sottile perché mirava ad esasperarti con un sistema
apparentemente innocente, assurda perché costringeva i tre a una fatica non
lieve: a turno ma senza sosta essi dovevano scrutare nel buio. A peggiorar le cose
v'era inoltre il fatto che tu rifiutassi di cambiare camera o albergo e perfino di
chiudere le persiane: dicevi che sarebbe stato un gesto di debolezza, di resa, che

bisognava comportarsi come se non ci fossimo accorti di nulla o non ce ne
importasse. E quando rientravamo la sera ti abbandonavi sempre alla sfida
d'accendere tutte le lampade, spalancar la finestra: in quell'orgia di luce ci
muovevamo, e il saperci osservati incuteva un disagio doloroso ad entrambi. Però
a te più che a me. Già provato dallo sforzo di non reagire ai due che in aereo ti
toccavano i capelli, ti stuzzicavano, ti sbeffeggiavano, poi ferito dallo sgomento di
trovare sul marciapiede la macchina della polizia, cedevi di ora in ora alla
battaglia dei nervi. T'eri messo in testa, ad esempio, che la nostra stanza
nascondesse microfoni, e di continuo spostavi i mobili, ispezionavi i cassetti,
tastavi i materassi, mi parlavi scrivendo bigliettini che poi bruciavi nel
posacenere. A letto, quando stare al buio non bastava a farci dimenticare la
sensazione sgradevole d'esser spiati, sicché esitavamo anche a scambiarci
tenerezze, neanche le pareti fossero di vetro, Li agitavi ripetendo ossessivo:
Quanto è difficile continuare!. In tale ritornello l'attesa dell'alba non finiva mai, e
il levar del sole portava nuove persecuzioni. No, non m'ero sbagliata ad avanzar
dubbi sull'utilità di questo viaggio: tentare approcci anche preliminari con i
possibili guerriglieri costituiva un problema quasi insolubile. Infatti, appena
uscivamo, la macchina bianca della polizia si metteva in moto e ci seguiva.
A passo d'uomo se andavamo a piedi, a pochi metri di distanza se prendevamo un
taxi o la Renault di Febo, e se oltre a quella ci pedinassero anche agenti in
borghese non si riusciva a stabilirlo. La prima mattina avevi creduto che lo studio
d'architetto di Marion, situato al quinto piano d'un palazzo pieno di uffici, fosse
un luogo perfetto per incontrare chi ti interessava: per mentre salivi in ascensore
avevi annusato il puzzo d'aglio sentito in aereo e l'appuntamento era stato
annullato. Per condurre la ricerca ricorrevi dunque alle cene nei ristoranti, trucco
che consisteva nell'avere molti commensali e tra questi il candidato che ti
interessava; ma ciò rendeva superficiale l'esame, lo frantumava in chiacchiere
inutili, e dopo lo sconforto aumentava. Tempo perduto, tempo perduto! A volte eri
talmente depresso che non osavo neanche domandarti se facevi qualche
progresso. Che andasse male del resto lo intuivo dalle parole che captavo
malgrado la barriera della lingua: Den ine practics. Non è pratico.. Den ine
pragmatics. Non è realistico.
E giunse il giorno, il quinto mi pare, in cui la tensione e la delusione deflagrarono
con la forza di un gas troppo a lungo represso. Eravamo andati a veder la tomba

di Venizelos e, come a Egina, il richiamo della morte t'aveva stregato. T'eri messo
a dire che nessun uomo può parlare da vivo quanto può parlare da morto, nessun
uomo può svegliare le coscienze da vivo quanto può svegliarle da morto, e la
prova era qui, in questa tomba: se Venizelos fosse stato vivo e avesse conversato
con te prendendoti a braccetto, non avresti sentito ci che sentivi ora a saperlo
sottoterra. Poi avevi incominciato a parlare di Jan Palach, del suo rogo a Praga
dinanzi alla statua di san Venceslao, e: Sai che ti dico? Il Partenone è meglio della
statua di san Venceslao. Soltanto i cecoslovacchi sapevano chi fosse san
Venceslao, chiunque conosce il Partenone invece.
Frenai un moto d'orrore e, fingendo di non capire, ti risposi con leggerezza: Cosa
c'entra il Partenone? C'entra. Pensa che smacco per la Giunta se uno si uccidesse
sull'Acropoli, dinanzi al Partenone. Tutto il mondo direbbe che... Direbbe che è un
pazzo. perché? Era pazzo Jan Palach? Erano pazzi i monaci vietnamiti che si
davano fuoco a Saigon? Ci sono tanti modi per condurre una lotta, una
resistenza. Uno è il suicidio.
Io non ho mai concepito il suicidio, neanche quando mi torturavano e non ce la
facevo più. Per allora mi sentivo meno solo, sapevo che qualcuno fuori si
preoccupava per me, mi aiutava credendo in me. Quando nessuno ti aiuta,
invece, nessuno ti ascolta, e non puoi tentare nulla perché sei solo, uccidersi ha
un senso. Serve. Basta una latta di benzina, eh?.No, bastano cinquecento grammi
di tritolo, una miccia e un fiammifero. Alekos! Non te la prendere. I tipi come me
muoiono soli anche se amano e sono amati. Oh, stasera voglio ubriacarmi fino
alla nausea. E mantenesti la promessa. Bicchiere dopo bicchiere, bottiglia dopo
bottiglia, mischiando il vino alla rabbia, la rabbia al dolore, il dolore alla
mortificazione, la mortificazione all'impotenza, cioè alla solitudine, una solitudine
così profonda che pensare di alleviarla sarebbe stato come illudersi di vuotare il
mare con un cucchiaio, bevesti quanto non avrei mai creduto che un uomo
potesse bere.
Avevamo scelto una taverna all'aperto, quasi di fronte all'albergo, e c'eravamo
seduti a un tavolo proprio ai bordi della strada. Un'automobile blu passava e
ripassava, lenta, con due uomini che ti fissavano con insistenza. Ma tu non li
vedevi, l'ebrezza ti rendeva anche cieco. Se ti dicevo andiamo via, c'è
un'automobile che mi insospettisce, spalancavi le pupille appannate e: Non vedo
automobili. Bastano cinquecento grammi di tritolo, una miccia, e un fiammifero..

Quando finalmente ti decidesti a venir via, non riuscivi a tenerti in piedi. Ti
abbattesti su di me col peso di un albero che cade addosso a una debole pianta, e
dovetti impormi uno sforzo crudele per farti attraversare la strada, salire gli
scalini, entrare in albergo, raggiungere l'ascensore, poi aprirlo, chiuderlo,
riaprirlo, richiuderlo, arrivare alla camera, buttarti sul letto.
In seguito, nei mesi e negli anni a venire, avrei ripetuto altre volte lo sforzo
crudele. Per in seguito avrei imparato i movimenti, i piccoli trucchi per farti
spostare un piede, una gamba, regalarti un po di equilibrio, e soprattutto avrei
imparato che bere non era per te un gaudio fisico bensì una disperazione di cui
conoscevi ogni tecnica e ogni segreto. Avrei addirittura imparato a distinguere ciò
che tu chiamavi il primo stadio, il secondo stadio, il terzo stadio: il primo stadio
quello che eccita la mente, scioglie la lingua, trasforma l'atto del bere in un rito
intellettuale e sociale secondo le regole del convivio socratico; il secondo stadio
quello che rompe i ceppi dell'inibizione, frantuma le barriere dell'autocontrollo, e
liberando dai pensieri conduce al limbo della dimenticanza; il terzo stadio quello
che schianta e introduce alle sconfinate pianure dell'oblio e dell'ignoto. Un
misterioso affogare in se stessi, dunque, un indefinibile precipitare negli abissi
del nulla, un riposo assoluto, una morte temporanea. Attraverso i tuoi racconti
avrei saputo infine che ogni stadio era voluto prima, con calcolo freddo, e
corrispondeva a una dose ben precisa di dolore. Sapendolo, mi sarei obbligata
all'indulgenza che permette d'amare una persona nei suoi difetti, nelle sue
debolezze, e mi sarei abituata. Ora tuttavia non lo ero, e provavo soltanto
sbigottimento, incredulità, pietoso disgusto: può essere così fragile dunque un
eroe? Cinquecento grammi di tritolo, una miccia, un fiammifero. Zitto, Alekos,
zitto! Quanto è difficile continuare. Zitto, Alekos, zitto! Poi, di colpo, eri steso sul
letto, il tuo corpo divenne di marmo e la tua testa di fuoco; la febbre scoppi,
divenne delirio. Se mi chinavo su di te, strisciavi all'indietro, ti coprivi il volto col
gomito, ti raggricciavi tutto fissandomi con occhi colmi di terrore. Ochi! No! No!
No! Oppure: Ftani! Basta, ftani! E tentar di calmarti era inutile perché non era me
che vedevi, era lo spettro di un passato mai dimenticato e non dimenticabile, i
volti di Teofilojannacos e di Malios e di Babalis e di Hazizikis che, avrei scoperto,
si materializzavano sempre quando una rabbia si aggiungeva a un dolore, e un
dolore a un'umiliazione, e un'umiliazione a un'impotenza, cioè alla tua solitudine,
e quel nodo diventòava coscienza di una sconfitta. Poi dal delirio precipitasti in

una prostrazione bagnata di sudore che colava giù come un olio, inzuppava gli
indumenti, i lenzuoli, il guanciale. Infine ti addormentasti in un sonno di pietra,
quasi una catalessi.
Rimasi a vegliare quel sonno fino alle prime luci dell'alba quando ti svegliasti,
completamente guarito. Buongiorno! Hai dormito bene? Che bel sole! Sai dove ti
porto, oggi? A Heraclion! Fai la valigia! E cosa c'è a Heraclion? Lo sai bene, il
tempio di Cnosso! E oltre al tempio di Cnosso? Qualcuno che voglio vedere.
Chiamasti Febo, gli chiedesti di accompagnarti con la sua Renault, e ci
preparammo a partire. Non era un'idea straordinaria, dicevi, viaggiare di primo
mattino con questo bel sole? E non era gran fortuna disporre di un amico come
Febo? Se non fosse stato per Marion, gli avresti chiesto subito di partecipare
all'azione: lui non avrebbe fatto storie.
Ma non potevi dirglielo, non potevi toglierlo ai bambini e a lei. Ecco il guaio
d'avere una moglie, una famiglia, anche nel Sessantotto non volevi mai gente che
avesse moglie, famiglia.
Chiacchieravi, chiacchieravi, incurante dei microfoni che secondo te erano
nascosti nei muri, nei mobili, chissà dove, dimentico di ci che avevi detto dinanzi
alla tomba di Venizelos sui morti che parlano, su Jan Palach, sull'idea di saltare
in aria con le tue saponette di tritolo. E su quello che era successo la notte, sulla
spaventosa ubriacatura, la febbre, il delirio, neanche una parola.
.Non c'è più! Chi? Cosa? La macchina bianca della polizia. Sei certo? Certissimo,
guarda! Guardai. Era vero. Si sarà allontanata un momento, non farti illusioni.
No, il portiere dice che non c'è da ieri sera. Frugai nella memoria, ma invano:
durante il tragitto tra il ristorante e l'albergo m'ero così perduta nella fatica di
tenerti in piedi, che non avevo prestato attenzione al resto. Strana faccenda, però
Febo si strinse nelle spalle: Forse hanno deciso di lasciarti in pace. Forse. Forse ci
raggiungeranno per strada. Forse. Salimmo sulla Renault.
Lui al volante, tu accanto, io sul sedile posteriore. Attraversammo la città
indisturbati, fummo presto sulla statale che conduce a Heraclion. E ancora
nessuno che si occupasse di noi.
Ogni tanto qualche automezzo ci sorpassava, qualche camioncino, ed era tutto.
Non capisco. Nemmeno io. Per controllare se fossimo seguiti a distanza, ci
fermammo anche all'osteria di un villaggio, lasciammo la Renault bene in vista e
sedemmo a un tavolino. Ci restammo circa trenta minuti. Ma alla fine dovemmo

convincerci che effettivamente la persecuzione era cessata: per qualche motivo
che ci sfuggiva, stavano ignorando il tuo viaggio a Heraclion. Eppure, chiamando
Febo al telefono, avevi ben detto Heraclion: che si fossero rassegnati a
considerare quel soggiorno a Creta una innocua vacanza? Era un'ipotesi da non
scartare e, sollevati, tornammo alla Renault: Tra un'ora e mezzo ci siamo!Ci vuole
un'ora e mezzo per andare da Xania a Heraclion, e il percorso è bellissimo. Per
lunghi tratti costeggia dall'alto il mare più azzurro dell'arcipelago, per altri passa
tra montagne aspre e rocciose, d'un caldo marrone rossastro, e il cielo ha il colore
del mare: di settembre non c'è una nube a turbarlo. Non ci sono nemmeno case
per sciupare il paesaggio, lì vivono solo le capre; se non ti sai inseguito, senti una
specie di felicità. Puoi ridere, conversare su cose piacevoli, perfino ricordare
episodi che in passato non erano divertenti e oggi sì.
Che brava donna la padrona dell'albergo! Pensa, non voleva che pagassimo il
conto! E ci ha pregato di firmare il registro degli ospiti d'onore, si è commossa
quando ci ho scritto Libertà. A me ha dato una borsa piena di frutta. La frutta! A
Cipro ebbi un periodo in cui facevo la fame, sicché rubavo la frutta nei campi. Hai
mai provato a rubare un cocomero senza avere un coltello? diventi Tantalo.
Alekos, racconta a Febo di quando rubavi le sigarette ad Atene. Raccontagli come
si fa. Si fa così. Sai gli sgabuzzini dei giornali dove vendono le sigarette? Ci si fa
dare le sigarette e, al momento di pagarle, si finge che il denaro cada per terra. O
meglio, si butta per terra. Ci si china a raccoglierlo, sempre piegati si gira intorno
allo sgabuzzino, e si scappa.. Vergogna! Non avevo una dracma, ero disertore!.
Raccontagli come si fa a rubare le paste in una pasticceria. Si fa così. Si ferma un
bambino e gli si dice: ti piacerebbe riempirti la pancia di paste? Il bambino
annuisce. Poi gli si dice: vieni con me, non mi piace mangiare le paste da solo. Si
entra nella pasticceria e, insieme a lui, ci si riempie la pancia di paste. Poi gli si
dice: aspettami qui, torno subito, se il cameriere mi cerca rispondi che il babbo è
andato al gabinetto. Invece si esce e non si torna più. Mica arrestano il bambino!
Mascalzone! Lo dici perché non hai mai sofferto la fame, tu. Di', cosa mangiasti il
giorno di Pasqua del 1968? Fammi pensare. La Pasqua del 1968 ero in Vietnam,
sul fronte di Danang. Avrò mangiato il rancio dei soldati americani, roba in
scatola. E tu?. Una scatolina di caviale. E ti lamenti? Ascoltami bene. Tu eri in
Vietnam ma io ero a Roma per preparare l'attentato. E al solito non avevo un
centesimo, morivo di fame, in casa c'era questo scatolino di caviale e basta.

Neanche una fetta di pane. Ti sei mai tolta la fame con uno scatolino di caviale e
basta, neanche una fetta di pane? Da quel giorno detesto il caviale, non capisco
perché a tanta gente piaccia il caviale. Febo, ti piace il caviale? Ma Febo non
ascoltava. Incredibilmente pallido, lanciava occhiate nervose nello specchietto
retrovisivo e: Maledetti! Maledetti! Febo! Che c'è? C'è che ci eravamo illusi. Li
abbiamo alle spalle.
Mi girai ma non era la macchina bianca della polizia, era l'automobile blu che la
sera avanti passava e ripassava davanti alla taverna dove ti stavi ubriacando.
Viaggiava a circa trecento metri da noi ed era visibilissima perché sul rettilineo
deserto era l'unica cosa che si muovesse: sembrava quasi impossibile che noi due
non l'avessimo notata prima. Febo l'aveva vista poco dopo la fermata al villaggio.
Non ce l'aveva detto credendo che volesse superarci, spiegò, poi perché era
rimasto indietro di almeno mezzo chilometro. Sembrava innocua, soltanto da
poco s'era messa a tallonarci come un'ombra. Se lui accelerava, lei accelerava; se
lui decelerava, lei decelerava. E neanche un cane che andasse o venisse sia pure
in senso contrario: .Merda, skatà! Non merda, destino commentò la tua voce
ghiaccia. T'eri girato anche tu e il tuo volto non esprimeva ne sorpresa ne collera
bensì una calma densa di ironia, quasi che la faccenda fosse del tutto normale e
confermasse ciò che t'aspettavi. Per l'occhio sinistro era una pozza di odio. Prova
ancora, Febo.. Febo premette sull'acceleratore e guadagnò una cinquantina di
metri. Subito la macchina blu lo imitò riprendendo la sua posizione. Uhm. Vedo.
Quanto manca ad Heraclion?. Dipende. Abbiamo già passato Retimno? Sì. E
Perama?. Sì. Mi sorridesti amaro: Sciopero totale della polizia. Sciopero? Certo.
Credevi che fosse una macchina della polizia? Non è una macchina della polizia,
non sono agenti in borghese. E chi sono? Fascisti. Come lo sai? Lo so. Chiedilo a
Febo.. Glielo chiesi. Non ebbi risposta. Chino sul volante, Febo cercava di
raddoppiare il distacco con l'automobile blu e sfrecciava ad almeno centotrenta
chilometri all'ora.
Quando non prendeva bene le curve, le ruote stridevano e, poiché in quel tratto la
strada era chiusa tra due pareti di roccia, sembrava di sbatterci contro. Attento,
Febo, attento Lascialo correre, non aver paura. Ne avremo abbastanza, di paura,
quando ci attaccheranno.. Attaccarci? Ovvio. Ed è un'idea tutt'altro che stupida.
Dopo, chi può stabilire se si trattò di un delitto o di un incidente? Se avessero
voluto farlo, non avrebbero atteso tanto, Alekos. E, mentre dicevo questo, le

pareti di roccia finirono: capii il motivo per cui avevano atteso tanto. Di lì fino alla
curva dove un terrapieno si alzava di nuovo, la strada non era arginata sui lati ne
da una ringhiera ne da un parapetto, in compenso la montagna scendeva a
precipizio in burroni. Percorrere quel pezzo con la prospettiva d'essere investiti
equivaleva ad attraversare un ponte lanciato nel nulla avendo una benda sugli
occhi. Lo imboccammo. E, subito, l'automobile blu schizzò in avanti.
Schizzò con una specie di balzo, puntando su di noi inesorabilmente, e in un
baleno ci raggiunse: per decelerare proprio all'ultimo istante, evitare d'un pelo lo
scontro, piazzarsi col muso presso la coda della Renault. Era così breve lo spazio
tra l'una e l'altra che si poteva vedere con assoluta esattezza la fisionomia dei due
uomini a bordo, i loro baffi neri e unti, la loro pelle olivastra, il ghigno malvagio di
quello che guidava.
Udii me stessa gridare: Avevi ragione! Vogliono buttarci di sotto!. Udii te
mormorare: Nel mezzo, Febo, nel mezzo. Febo annuì, si portò sulla corsia centrale
allontanandosi dalla scarpata, ma l'automobile blu seguì la manovra e si accodò
sulla nostra sinistra. L'angolo destro del suo paraurti anteriore quasi attaccato al
paraurti posteriore della Renault. Accelera, Febo, accelera.. Febo ubbidì con un
grugnito: non c'era molto da accelerare, c'era solo da sperare che volessero
spaventarci e basta. E, nel medesimo momento, il muso dell'automobile blu sfiorò
la fiancata sinistra della Renault. Un colpo lievissimo, quasi la zampatina
scherzosa di un gatto, sufficiente per a farci sbandare sulla destra: verso il
precipizio. Vidi Febo stringere con forza il volante, sterzare, riprendersi prima che
le ruote si avvicinassero troppo al ciglio della strada, riportarsi al centro della
strada, proseguire dritto per un minuto. E poi il secondo colpo arrivò. Meno lieve,
stavolta. Infatti, stavolta, la Renault scivolò come sopra un tappeto di grasso e
per un attimo lungo quanto l'idea della morte strisci sul bordo del nulla. Pochi
centimetri in più, e il nulla l'avrebbe succhiato per sfracellarci giù nella valle. Ma
Febo ce la fece, di nuovo.
Riguadagnata la corsia centrale, riuscì perfino a distanziare l'automobile blu
d'una decina di metri che subito divennero venti e quaranta e ottanta e cento,
mentre tu accendevi un sigarino e dicevi: Bravo, Febo. Che in tali circostanze si
potesse pensare ad accendere un sigarino e addirittura lo si accendesse era un
fatto per me incomprensibile. Eppure lo avevi acceso, e lo fumavi, e fumandolo il
tuo volto continuava ad esprimere una calma densa di ironia, la tua voce

continuava ad essere ghiaccia, niente ora ricordava la creatura vulnerabile e
squassata dal delirio della notte avanti. Al contrario, si sarebbe detto che
rischiare la vita e farla rischiare a due persone che ti volevano bene fosse per te
una trascurabile inezia e forse un segreto crudele piacere. Tornano. Stanno
tornando. Dammi una penna, presto. Voglio prendere il numero della targa.
Stavano tornando davvero. Con un rombo deciso l'automobile blu s'era lanciata di
nuovo in avanti e stava mangiando i cento metri perduti. Ebbi appena il tempo di
scorgere il suo muso cattivo, le sue orbite bianche, la sua sagoma quasi
umanesca, che subito fu al nostro fianco: ci sorpassò in una ventata per piazzarsi
dinanzi a noi e rallentare di colpo. Oh, Cristo!. gemette Febo, buttandosi sulla
sinistra, evitando l'urto d'un pelo. Ciò li indispettì e, col medesimo sorpasso, la
medesima ventata, l'automobile blu tornò a piazzarsi dinanzi a noi per costringere
Febo a ripetere la pericolosa manovra. E questo era più di quanto avessimo
previsto, questo tentar di stancare Febo affinché perdesse il controllo della guida
e cadesse giù nella scarpata, questo gioco del gatto col topo. Lei il gatto e noi il
topo. Infatti la sua cilindrata era superiore, e la sua solidità. Non slittava mai, ci
doppiava quando voleva e come voleva, ci tagliava la strada senza curarsi d'essere
investita.
Guardala mentre compie il terzo sorpasso, il terzo rallentamento, e il quarto, e il
quinto, e il sesto, noi invece la terza sbandata, e la quarta, e la quinta, e la sesta,
a destra e a sinistra, poi di nuovo a destra e di nuovo a sinistra, in uno zigzag che
immancabilmente conduce sul bordo del nulla, sicché sembra che duri da secoli e
non da pochi minuti, da migliaia di miglia e non da poche decine di metri, e Febo
appare sempre più teso, sempre più esausto, il suo volto da pallido s'è fatto verde,
proprio il contrario di te che fumi imperterrito il tuo sigarino e lo dirigi, lo
consigli, lo congratuli: Benissimo, Febo, kalà.
Attento, Febo, così. Grìgora, Febo, più svelto. Se arrivasse qualcuno! risponde
Febo ansimando. Ma non arriva nessuno, nemmeno in direzione contraria, sul
nastro d'asfalto non ci siamo che noi e l'automobile blu col suo muso cattivo, le
sue orbite bianche, il suo che di umanesco. Dico lei perché è a lei che ti rivolgi,
non ai due uomini a bordo, e perché da oggi la Morte avrà per me (anche per te?)
l'aspetto di un'automobile, non importa quale automobile, quale marca, quale
colore, oggi è blu e domani sarà nera, sarà bianca, sarà verde marcio, sarà rossa,
avana, e infine verde mela. Guardala ancora una volta mentre interrotto lo zigzag

ci stringe contro la scarpata e si prepara all'attacco definitivo sapendo che il
ponte lanciato nel vuoto non durerà molto, che presto dietro la curva si alzerà il
terrapieno e ricominceranno le pareti di roccia, che se arriviamo laggiù potremo
cavarcela. Ma ci arriveremo? A ogni nostro giro di ruota lei si accosta di più, la
sua fiancata è quasi incollata alla nostra, incapace di frenar la paura affondo le
dita dentro le tue spalle, mi chino su Febo e lo supplico corri, Febo, corri, fai un
ultimo sforzo e presso il terrapieno rallenta: così se ci colpisce lì il cozzo è meno
violento, non mancano che duecento metri. Duecento, cento, cinquanta,
quaranta, trenta, venti, eccolo il terrapieno, eccolo, dieci, cinque, tre, due, uno...
Ci colpì all'inizio del terrapieno. Ci colpì di striscio, a metà della fiancata sinistra,
e schizzammo a destra ma non troppo perché Febo aveva diminuito la velocità e
tenne bene il volante. Lo tenne anche quando la Renault girò su se stessa in un
gorgo che per alcuni millenni ci inghiottì insieme alla certezza che non si
fermasse mai più. Invece si fermò, affinché ci guardassimo sbalorditi, increduli, e
scoprissimo d'essere illesi su una strada completamente deserta. L'automobile
blu era scomparsa e, agitando il foglio su cui avevi scritto il numero della targa,
tu dicevi: .Ora sì che ci divertiremo a Heraclion.
Che non ci saremmo divertiti a Heraclion lo avevamo compreso appena era
apparsa la macchina bianca della polizia, pochi chilometri prima di entrare in
città. Procedeva in direzione contraria alla nostra, con la lentezza guardinga di chi
cerca qualcosa o qualcuno, e al solo vederla ci eravamo indignati: veniva a
cercare tre vivi o tre morti giù nel precipizio? Che cercasse noi, nessun dubbio:
dopo averci superato aveva fatto una brusca virata per tallonarci fino all'abitato.
Qui s'era aggiunta una macchina rossa di agenti in borghese, il controllo aveva
assunto proporzioni allarmanti. Quando c'eravamo fermati in una taverna per
mangiare, ad esempio, un agente s'era messo di piantone alla porta, uno sul retro
dell'edificio, uno all'angolo della strada. Era stata un'impresa convincerti a
rimanere tranquillo, lasciar la taverna senza curarti di loro, cioè assumere
l'atteggiamento del turista in vacanza sentimentale: svuotato del tuo sangue
freddo, paonazzo di collera, volevi affrontarli e magari picchiarli. Poi, mentre Febo
telefonava annullando gli incontri che avresti dovuto avere nel pomeriggio, io e te
eravamo andati al palazzo di Cnosso. Ma, sulla rampa che costeggia il recinto
archeologico, ecco levarsi quel puzzo di aglio e la voce beffarda: Kat laves italiki?
Capisci l'italiano? T'eri acceso di nuovo in un'ira torbida, smaniosa di risse, t'eri

scagliato contro il più maligno gridandogli servo, rotto in culo, vigliacco, e solo
l'intervento dei poliziotti in uniforme aveva impedito il tuo arresto. Meglio
rientrare subito a Xania. Come farlo però senza esporsi una seconda volta al
rischio già corso all'andata? Se avevano scelto l'autostrada per eliminarti,
certamente avrebbero provato di nuovo col tramonto e col buio. Ne era esplosa
una discussione. Io dicevo che sarebbe stato saggio rivolgersi ai poliziotti in
uniforme: nel palazzo di Cnosso t'avevano ben aiutato e, se li avessimo informati
sull'episodio della mattina, ci avrebbero protetto; tu non accettavi neanche di
parlarne e gridavi: Io farmi proteggere dalla polizia, io?! Ime Panagulis! Sono
Panagulis! Alla fine Febo aveva proposto uno stratagemma: comportarsi in modo
da indurli a non abbandonarci un secondo. E lo aveva attuato. Imboccando vicoli
nascosti, direzioni vietate, sensi contrari, insomma fingendo di sgattaiolare
perché perdessero le nostre tracce, li aveva insospettiti a tal punto che la
macchina bianca dei poliziotti in uniforme ci aveva accompagnato da Heraclion a
Xania. Lì eravamo rimasti il tempo sufficiente a scoprire che la targa
dell'automobile blu era falsa.
Camminando su e giù nel giardino di aranci e limoni ora riflettevo su quella targa
falsa e dal meditare sorgevano interrogativi senza risposta. Chi aveva assoldato i
due dell'automobile blu? Chi aveva ordinato un assassinio da gabellare, in caso di
successo, come un incidente automobilistico? Papadopu ? Forse, però a lui
meritava tenerti vivo se voleva che la commedia della tolleranza assumesse
credibilità. Joannidis? Forse, però a lui sarebbe piaciuto vederti fucilato e non
morto in una Renault per disgrazia. Teofilojannacos, Hazizikis, la banda che nel
timore d'una vendetta aveva accolto con un brivido la cattiva novella della tua
scarcerazione? Forse, per mi sembrava strano che azzardassero a vuoto una carta
insidiosa come un falso incidente automobilistico. I servizi segreti, allora, o
qualcuno alla periferia del regime? Forse. Erano tutti sospettabili, ovvio. Ma una
cosa era certa: l'ordine di eliminarti veniva dall'alto, da qualcuno che occupava
posti di potere.
Non si spiegava altrimenti perché la macchina bianca della polizia fosse stata
inviata a Heraclion prima che noi lasciassimo Xania, e nemmeno perché la barca
da cui puntavano il cannocchiale avesse sostato indisturbata ogni notte nel
porticciolo. In ogni caso qual era il motivo per cui t'avevano attaccato a Creta
invece che Atene? Un motivo dovuto a convenienze geografiche anzi strategiche

oppure dovuto al fatto che il piano dell'Acropoli fosse stato scoperto? E ammesso
che fosse stato scoperto, era concepibile che una beffa così pazza quindi destinata
a fiorire soltanto nei giardini della fantasia li avesse spaventati al punto di voler la
tua morte? Non sarebbe stato più semplice prevenirla tenendoti d'occhio e
vigilando la rocca? Poi, a poco a poco, la risposta che cercavo venne. No, il piano
dell'Acropoli non c'entrava o c'entrava solo in parte. Ciò che il Potere temeva non
erano cinquecento grammi di tritolo e l'uso più o meno spettacolare che avresti
potuto farne: era il tuo personaggio, lo scompiglio che ovunque e comunque esso
causava. Non eri stato quieto un secondo dal giorno in cui avevi lasciato Boiati.
Dichiarazioni alla stampa nazionale e straniera, interviste, proteste, cavilli
giuridici. Avevi perfino contestato l'amnistia dimostrando che il decreto era
illegale in quanto si estendeva ai torturatori: si può amnistiare chi non ha subito
processi e condanne? E amnistiarli non equivaleva forse ad ammettere che le
torture negate dal regime erano effettivamente avvenute? Senza contare le
scenate in pubblico, le chiassate telefoniche all'Esa, la popolarità di cui godevi.
Non capitava mai che tu camminassi inosservato per strada, c'era sempre
qualcuno che osava fermarti o abbracciarti. E, quasi ci non bastasse, i giornali si
occupavano molto di noi. Il nostro legame imprevisto e imprevedibile accendeva
un interesse quasi morboso, eravamo una coppia che faceva notizia: ci ti rendeva
due volte scomodo. Ma sopra ogni altra cosa c'era la tua irriducibilità, la tua
indomabilità, la tua fantasia.
Non si poteva mai indovinare quel che avresti combinato tra un minuto o domani,
e chiunque si ponesse tale domanda diventava uno Zakarakis che nel cuore della
notte si sveglia gridando: dov'è? Cosa fa? In altri campi o attività ciò può anche
divertire, piacere; in politica, e peggio che mai in dittatura, è una condanna a
morte non scritta. Bisognava che tu lasciassi immediatamente la Grecia.
Che cosa stai rimuginando? M'eri piombato alle spalle e mi guardavi come se tu
avessi udito ogni parola. Non rimuginavo, pensavo che... Ho capito, pensavi che
prima o poi qualcuno mi farà la festa. Chi di loro, per, ecco problema.
Lascia perdere, è un problema che non conta. Io sarò sempre scomodo a
chiunque in qualsiasi momento, in qualsiasi paese, in qualsiasi regime. E chi mi
farà la festa non è tra quelli che tu credi. Alekos, io pensavo che... ...che devo
togliermi dalla testa il piano dell'Acropoli? No, è un'ottima idea, non ci rinuncio.
Tutt'al più, se non trovo nessuno che mi aiuta, posso ridurlo: limitarlo a

un'azione dimostrativa. Niente tritolo, niente armi, niente ostaggi, soltanto lo
slogan Agonas kata tis tiranniasagonas dia tin elefteria. Uhm! Basterebbero
quarantaquattro pezzi di stoffa e... Di notte non ci vedrebbe nessuno. Ci
vedrebbero, Alekos. Di notte il Partenone è illuminato dai riflettori. Uhm, già.
Potremmo farlo all'alba. Toglierebbero tutto prima che la città fosse sveglia. Allora
invece di stoffa useremo la vernice: al diavolo i sacri marmi. Non avremo che da
portarci dietro una bombola di spray.. Ascoltami, Alekos. Bisogna che tu ti tolga
quest'idea dalla testa. Bisogna che tu lasci la Grecia. Ah! E questo che tramavi,
dunque! Piuttosto mi faccio saltare in aria davvero, davanti al Partenone.. perché
nessuno parla da vivo come da morto? Esatto .
Ti sbagli, Alekos. I morti tacciono sempre. Quando sembra che parlino è perché i
vivi li fanno parlare. I morti non servono a nulla, perché vengono dimenticati. Lì
per lì sembra che non sia possibile dimenticarli e che durino l'eternità: dopo un
poco, invece, non ci si ricorda nemmeno che nacquero. Non è vero! E vero,
Alekos. E vero, purtroppo. I morti dipendono dai vivi in tutto. Hai torto! No,
Alekos, no. Sono i morti che hanno sempre torto. perché sono morti. Devi vivere,
Alekos.
Vivere! E per vivere bisogna che tu lasci la Grecia. Và all'inferno! Rientrasti in
casa e ti chiudesti nella camerina. Quando ne riemergesti, però, eri sereno. E: Sai
che ti dico? Questa storia dell'Acropoli m'è venuta a noia. Non voglio più sentire le
parole Acropoli o Partenone. Inventerò qualcos'altro. Con le saponette di tritolo?
Oh, quelle...! Me ne sono disfatto ieri sera, appena siamo tornati da Creta. Le ho
restituite a chi me le procurò. Gli ho detto tieni, divertiti coi fuochi di artificio, io
ho cose più importanti da fare.
CAPITOLO IlI
Rapita dal sollievo per quella rinuncia e convinta d'esserne responsabile grazie ai
miei ragionamenti, lì per lì non mi chiesi cosa l'avesse veramente determinata. Ne
me lo chiesi in seguito; finché fosti vivo. Per anni dopo, quando il tuo fantasma
divenne un incubo della memoria, e la memoria strumento della ricerca, sicché
ricomponendo il mosaico di colui che eri stato cercai di capirti attraverso la
morte, il ricordo del tuo improvviso abdicare al piano dell'Acropoli assunse per me
il sapore di una scoperta. No, non erano stati i miei ragionamenti a determinare
quel voltafaccia bensì una maledizione che incombeva su te. E questa

maledizione nasceva dalla tua incapacità a concludere le cose che avviavi, o
materializzare le cose che sognavi. Voglio dire: tanto apparivi ostinato e
irriducibile allorché un'idea si trasformava in idea fissa, monomania, tanto
risultavi incostante e impaziente nella fatica di attuarla. Così, per un certo
periodo, ti buttavi anima e corpo nell'impresa straziando la tua esistenza,
rovinando l'esistenza degli altri, ignorando gli ostacoli come un carro armato che
travolge qualsiasi oggetto o creatura trovi sul suo cammino, e poi di colpo la
piroetta: vi rinunciavi e non ne parlavi più. Solo in due casi la tua caparbietà
vinse: nell'attentato a Papadopulos, che avrebbe determinato la tua vita, e nella
cattura dei documenti, che avrebbe determinato la tua morte. Cioè all'inizio e alla
fine della tua fiaba d'eroe. Capita spesso ai poeti, agli artisti.
Capita particolarmente ai ribelli solitari che sanno di dover morire presto: di
solito la loro esistenza è un fuoco di mille avventure incluse, una valanga di semi
gettati al vento o piantati a casaccio, senza sapere se la pianta germoglierà, senza
aspettare di veder se germoglia. Non ne hanno il tempo, neanche la voglia, perché
devono sempre rincorrere qualcosa di nuovo, ricominciare sempre daccapo,
ancora ed ancora, con una incoerenza che a pensarci bene è straordinaria
coerenza.
E tutto serve allo scopo, anche le idee degli altri. In alcuni casi, infatti, l'idea che
rimpiazzava l'idea messa da parte non era tua: la ascoltavi dagli altri. E, dopo
averla ascoltata, la respingevi seppellendola negli abissi del tuo subconscio: Non
voglio consigli, non voglio opinioni. Però, se laggiù in fondo agli abissi toccava
una corda della tua fantasia, subito tornava a galla affinché tu la rielaborassi e la
facessi tua. Col mio suggerimento di lasciare la Grecia accadde proprio così.
Una notte, dormivo quieta accanto a te, mi svegliasti a scrolloni e: Apri gli occhi!
Apri gli occhi! Che c'è? Che succede?.
Ho trovato!. Che hai trovato? Devo partire. Per andare dove? In Italia, in Europa.
Via dalla Grecia. Ah! Non sei d'accordo, eh? Se non sei d'accordo, ti sbagli. Qui
ormai non ottengo nulla, ho le mani legate. Mi sorvegliano troppo, e la gente ha
paura; si tira indietro. All'estero sarà diverso: potrò organizzarmi, formare gruppi
di azione. Tra gli emigrati, capisci? L'Europa ne è piena. Poi torno
clandestinamente, anzi vado e vengo, e... Domani chiedo il passaporto.
Papadopulos non avrà il coraggio di rifiutarmelo. E Joannidis? Joannidis sì. E se
la spunta Joannidis? In certe cose conta ancora Papadopulos.

Le tirannie, si sa, siano esse di destra o di sinistra, d'oriente o di occidente, di ieri
o di oggi o di domani, si assomigliano tutte. Identici i sistemi di repressione, gli
arresti, gli interrogatori, le celle di isolamento, i carcerieri ottusi e malvagi che
sequestrano perfino la penna e la carta da scrivere, identiche le persecuzioni
quando il reprobo che osa disubbidire viene scarcerato, e i controlli, e le minacce,
e i tentativi di eliminarlo se è incorreggibile. Ma una cosa in particolare accomuna
le tirannie del nostro tempo, una cosa a colpo d'occhio bizzarra: il loro rifiuto a
lasciar partire il reprobo che chiede di andarsene in un altro paese. Sembrerebbe
infatti che, recandosi in un altro paese, costui facesse al regime oppressore una
gran cortesia: me ne vado, mi tolgo dai piedi, non vi disturbo più. Invece no. Gli fa
un dispetto, ad andarsene, gli dà un dispiacere.
perché, se parte, se toglie il disturbo, come fanno a vendicarsi della sua
disubbidienza? Come fanno a controllarlo, tormentarlo, rimetterlo nella prigione o
nel gulag o nel manicomio? Soprattutto, come fanno a impedirgli di esprimersi
anzi di pensare? Per le tirannie il reprobo in esilio costituisce un problema più
grosso del reprobo in patria perché in esilio egli pensa, si esprime, agisce e per
liberarsi di lui bisogna scomodarsi a inviare un sicario che lo ammazzi a colpi di
pistola o di piccozza, diciamo. La pistola a Parigi, pei fratelli Rosselli; la piccozza a
Città del Messico, per Trotzki. Una rottura di scatole, meglio averlo a casa e
ucciderlo comodamente, a poco a poco, con il carcere, col manicomio, col gulag,
con l'impotenza, mentre il popolo tace.
Passaporto, che passaporto? Oh, sì, certo: non hai che esibire il certificato di
nascita, quello di buona condotta, e...
Per chiedere il passaporto dovevi anzitutto esibire il certificato di nascita. Ma al
comune di Glyfada, dov'era custodito, risposero che non potevano dartelo: dal
registro mancava la pagina col tuo nome. Perduta per una coincidenza banale o
strappata per ordine di Joannidis? Il registro sembrava intatto, le pagine coi nomi
degli altri membri della tua famiglia c'erano regolarmente, quella con il tuo nome
invece no. E gli impiegati balbettavano confusi: che risponderti se non che da un
punto di vista anagrafico non esistevi? La risposta fu portata da tua madre che,
vestita da signora, cappellino nero, tailleur nero, borsa nera, calze nere, occhiali
neri, era stata a ritirare il certificato di nascita: Non sei nato. Che dici? Dicono
che non sei nato, che dal registro non risulta. Ecco qualcosa che non ti aspettavi.
Fra tutti gli insulti che potevano infliggerti, tutte le provocazioni, questa era la

peggiore, e il tuo ruggito fece tremare i vetri delle finestre: Non sono nato?!? Io, io
non sono nato?!?. Se ti avessero detto che eri morto, non te la saresti presa: ma
dire che non eri nato, che non esistevi! Poche persone al mondo avevano
dimostrato quanto te d'essere nate, urlavi col pianto in gola: eri così nato che
volevano fucilarti, e come si fa a fucilare uno che non è nato, uno che non esiste?
Ora andavi in municipio e li prendevi a pugni uno a uno, dal sindaco all'ultimo
vigile urbano, e non smettevi finché non cantavano in coro Sei nato, Alekos, sei
nato! Ci volle molto a persuaderti che proprio su questo contavano, su una tua
reazione di collera: meglio finger di credere a un contrattempo ed insistere. E,
cappellino nero, tailleur nero, borsa nera, calze nere, occhiali neri, tua madre
tornò a cercare la pagina scomparsa. Prese ad andarci ogni giorno, e ogni volta
per gridare che eri nato, accidenti, lo sapeva ben lei che ti aveva tenuto nove mesi
nella pancia e poi partorito; lo sapevano anche loro, figli di cani, ladri, servi della
dittatura, fuori il certificato. Molti impiegati anziché offendersi simpatizzavano, e
le chiedevano di tornare l'indomani. Ma l'indomani succedeva lo stesso.
Non sei nato, non sei proprio nato diceva rientrando in casa, poi si ritirava nella
camera con l'altarino dentro l'armadio e se la prendeva coi santi delle icone. Li
accusava di egoismo, di indifferenza, viltà, li minacciava di spengergli le candele,
chiudere lo sportello dell'armadio, lasciarli ammuffire nel buio ammenoché non
compiessero il miracolo di ritrovare la pagina: i santi per tacevano sordi a
qualunque ricatto, qualunque minaccia, e la pagina restava introvabile. La
domanda per avere il passaporto non poteva essere presentata. Così, una sera,
stendesti sul tavolo da pranzo una grande carta geografica: Vieni qui e guarda. Mi
avvicinai sospettosa. Cos'è? Roba che studio da quando sostengono che non sono
mai nato.
L'espatrio clandestino. Oh, no! Oh, sì! Ascolta.
Esistevano due soluzioni, dicesti, una via terra e una via mare. Di aerei neanche
a parlarne. In teoria, la soluzione via terra offriva la possibilità di fuggire in uno
dei quattro paesi che confinano con la Grecia da nordest a nord ovest: Albania,
Iugoslavia, Bulgaria, Turchia. Ma la Turchia andava scartata a priori perché i
cattivi rapporti tra i governi di Ankara ed Atene rendevano la frontiera pressoché
invalicabile, la Bulgaria andava evitata per gli stessi motivi, e l'Albania perché
accettava malvolentieri gli intrusi: almeno tre greci scappati in Albania dopo il

golpe stavano scontando nelle carceri di Tirana una pesante condanna per
ingresso illegale. sicché, via terra, io starei per la Iugoslavia.
Dico starei perché non mi sarebbe difficile passare il confine di Ezvonis, e
nemmeno ottenere asilo politico. Ma il problema non è passare il confine, è
raggiungere Ezvonis. Da Atene sono almeno sei ore in automobile o in treno.
Avrebbero tutto il tempo di seguirmi e acchiapparmi, magari ficcarmi una
pallottola in testa. Quindi preferisco la soluzione via mare. Ti chinasti
nuovamente sulla mappa. Ipotesi numero uno della soluzione via mare: la baia di
Vouliagmeni. Vouliagmeni ha due vantaggi: quello di trovarsi a mezz'ora da
Glyfada e quello d'essere un piccolo porto da cui si raggiunge alla svelta il mare
aperto. Per in questo periodo dell'anno non sono molti gli yacht che vi gettano
l'ancora e il tuo yacht potrebbe sollevare curiosità. Il mio yacht?! Quale yacht?!
Quello che tu procurerai. Uno yacht straniero con quattro o cinque persone
dall'aria ricca e spensierata, disposte a fare una crociera nell'Egeo. E dove lo trovo
uno yacht con quattro o cinque persone dall'aria ricca e spensierata, disposte a
fare una crociera nell'Egeo? In Italia, suppongo. Io che ne so, non interrompermi.
Ipotesi numero due: il Pireo. E molto sorvegliato, ogni imbarcazione subisce un
controllo rigido da parte della polizia e della dogana. In compenso ha i pregi di
una stazione affollata, vi si dà meno nell'occhio. Sì, potendo scegliere, sceglierei il
Pireo. Che mi imbarchi al Pireo o a Vouliagmeni, comunque, il problema
incomincia al momento di salpare perché bisogna dire alla capitaneria dove ci
dirigiamo.
Diremo di recarci a Creta e scenderemo a sud costeggiando il Peloponneso.
All'altezza di Kitira, invece di puntare su Creta, vireremo a destra. Alekos...
Passeremo da Kitira, l'isola all'estremo sud del Peloponneso, ed entreremo subito
nelle acque extraterritoriali dello Jonio. Se avremo fortuna la guardia costiera non
farà in tempo a impedircelo. Poi sbarcheremo a Brindisi o a Taranto.
Naturalmente la via più breve sarebbe via Corinto e Patrasso, ma rischieremmo
troppo: quello è il tragitto delle navi di linea. Alekos... Dal Pireo a Kitira, o da
Vouliagmeni a Kitira, di solito si impiega un giorno e una notte. Troppo.
Superfluo concludere che bisogna limitare al massimo la durata del viaggio.
Quindi dovrai scegliere uno yacht molto veloce. Alekos...
Tra una settimana voglio salpare. Una settimana?! Facciamo dieci giorni. Siamo
quasi a ottobre e all'inizio d'ottobre una crociera è ancora verosimile. Alekos! Sii

ragionevole, Alekos: uno yacht non è un taxi che chiami con un fischio, e trovare
quattro o cinque persone pronte a improvvisare una falsa crociera per portarti via
non è semplice. E semplicissimo invece. Le troverai. perché se non le trovi sono
costretto a passare la frontiera con la Iugoslavia e prendermi quella pallottola in
testa prima di Ezvonis. Il sospetto di chiedermi una cosa impossibile non ti
sfiorava neanche. Oppure ti sfiorava e non ne tenevi conto. sicché era vano
ripeterti che una fuga del genere richiedeva almeno un mese di preparativi: per
organizzarla in dieci giorni avrei dovuto avere la lampada di Aladino. Come
sempre quando ti invaghivi del sogno, un ottimismo incrollabile ti rendeva cieco
agli ostacoli e sordo agli appelli della ragionevolezza; qualsiasi argomento
opponessi al progetto si annullava nel tuo grido accorato: Tu non mi ami! Volevi
che partissi appena concordati i dettagli, sicché non pensavi che a quelli: col
medesimo fervore di quando misuravi la distanza tra i Propilei e l'Eretteo,
l'Eretteo e il Partenone, il Partenone e i Propilei, o contavi il numero delle lettere
necessarie a comporre lo slogan, ora lavoravi sulle rotte, i venti, le tempeste
d'autunno, le abitudini della guardia costiera, i regolamenti dei porti, la tecnica
del perquisire le imbarcazioni, il chilometraggio delle acque territoriali ed
extraterritoriali. Con la medesima assiduità con cui prima mi portavi sull'Acropoli
ora mi conducevi al Pireo. Sì, ho deciso per il Pireo. Non passava sera senza che
andassimo a cena in una delle taverne vicino alla rada dove sono attraccati gli
yacht, e qui, fingendo di ammirare i riflessi della luna sull'acqua, studiavi,
annotavi, architettavi nuovi espedienti, annunciavi altre diavolerie. Supponiamo
che lo yacht sia quello. Chi mi vede se salgo a bordo col buio? Guarda il gruppo
che rientra col taxi, il taxi può arrivare fino alla banchina, dal taxi alla passerella
ci saranno tre metri: un balzo e, mischiato agli altri, salgo a bordo, prendo il
posto di un marinaio. Sì, mi taglio i baffi e mi vesto da marinaio. All'alba, su
l'ancora e via. Oppure: Due giorni di sosta ad Atene basteranno ma tu dovrai
scendere a terra il meno possibile, potresti essere riconosciuta. Porterai una
parrucca nera e avrai un passaporto falso. Fatti prestare il passaporto da
un'amica che ti assomiglia un po. Gli altri no, meglio che vengano coi documenti
in regola. Però stai attenta che si comportino da veri turisti, che siano disinvolti.
E niente telefonate, niente contatti con me. Tutto ci che mi serve sapere è il nome
dello yacht e la data dell'arrivo. Al resto ci penso io. Per farmelo sapere mi
manderai una cartolina firmata Giuseppe. Scriverai le notizie sotto il francobollo.

Sotto il francobollo?! Certo, è un sistema semplicissimo, l'ho scoperto io. Si scrive
sul quadratino che corrisponde alla grandezza del francobollo, poi si appiccica il
francobollo e si spedisce la cartolina. Chi la riceve non ha che bagnarla, staccare
il francobollo e leggere quel che è scritto nel quadratino. Io ascoltavo rassegnata,
disperatamente augurandomi che nel frattempo la pagina del registro anagrafico
resuscitasse per dimostrare che eri nato e toglierti dalla testa l'intera faccenda. In
tale speranza mi sorprendevo addirittura a lanciare occhiate verso l'altarino
dentro l'armadio, unire le mie suppliche a quelle di tua madre che tra ciabattii
brontolii minacce continuava a invocare il miracolo.
Sia pure con strategia nuova. Da quando sapeva dell'espatrio clandestino, infatti,
non si rivolgeva più a tutti i santi. Licenziato san Giorgio, patrono dei militari e
quindi sospetto di legami con la Giunta, congedato sant'Elia patrono dei
montanari e quindi sospetto di favorire l'espatrio attraverso la Iugoslavia,
eliminato san Nicola patrono dei marittimi e quindi sospetto di favorire la fuga
con lo yacht, le sue preghiere e i suoi lumini si concentravano su San Fanurio e
basta. San Fanurio essendo il patrono delle persone smarrite, quindi delle cose
perdute.
E, proprio il venerdì in cui scadeva l'ultimatum, san Fanurio concesse la grazia.
Stavo preparando le valigie per andare a Roma quando un urlo gioioso squassò la
casa: Ghenitica! Ghenitica! Mi precipitai ed eri tu che sventolavi un foglio col tuo
nome: Sono nato! Sono nato! Immediatamente le mie valigie furono disfatte, la
mia partenza annullata: ora la richiesta del passaporto poteva seguire il suo corso
e la speranza di ottenerlo aveva un senso. Inutile dire che la pagina non era stata
ritrovata per caso bensì perché Papadopulos aveva permesso il rilascio dei
documenti, ma ora bisognava vedere quanto tempo egli avrebbe impiegato per
imporre a Joannidis la sua volontà. Joannidis, dicesti, avrebbe fatto di tutto per
impedire che tu lasciassi il paese. E non ti sbagliavi: notammo subito che, dopo la
consegna di quel pezzo di carta, la sorveglianza intorno alla casa era aumentata.
Altri due poliziotti agli angoli della strada, altri tre nella via adiacente, e dietro le
finestre di un appartamento vicino c'era sempre qualcuno che ti spiava.
Sapemmo anche che un ufficiale dell'Esa aveva diffidato molti dal frequentarti.
E va da se che di questo non ci sarebbe stato bisogno: al ritorno da Creta, intorno
a te s'era fatto una specie di vuoto.

Coloro che venivano a trovarti si contavano ormai sulle dita, e così coloro che ti
invitavano a cena o nelle proprie case. Perfino le tue corteggiatrici più assidue si
tenevano alla larga, ormai, e i mitomani che prima ricorrevano a mille pretesti per
avvicinarti, gli amici che si definivano tali. Vorrei ma non posso, tengo famiglia
capisci.
Bisogna andare a vedere se è pronto. Hai chiamato per chiedere se è pronto?
Chiedi di nuovo se è pronto. Come un contadino che invoca la pioggia sui campi
bruciati dal sole e a ogni filo di vento scruta il cielo cercando una nube che
annunci la fine della siccità, così tu aspettavi l'attimo in cui all'ufficio passaporti
ti avrebbero detto: Ecco qua, buon viaggio.. Con gli stessi sentimenti, aggravati
per dalla smania di rientrare nel mio mondo, tornare alla mia vita, al mio lavoro,
io anelavo l'istante in cui l'aereo sarebbe decollato dalla pista di Atene e mi
avrebbe strappato a quel bombardamento di angustie, emozioni violente,
batticuori continui, drammi alternati soltanto da un ozio inanimato. L'ozio dei
soldati che tra battaglia e battaglia non sanno come impiegare il tempo e incapaci
di riempire quegli intervalli di pace se ne stanno lì a sbadigliare la nostalgia delle
cannonate. Tutto mi era odioso, ormai: l'atmosfera di quella città levantina che mi
ricordava Tel Aviv o Beirut, non più occidente e non ancora oriente, i suoi edifici
squallidi, stupidamente moderni, le sue colline senza verde, sassi e mozziconi di
alberi carbonizzati dall'incuria e dall'ignoranza, le sue abitudini turche, il caffè
servito nelle tazzine di bambola per farti inghiottire da ultimo un sorso di melma,
il sonno pomeridiano che fino alle sei di sera paralizza chiunque in una pigrizia
catalettica, infine la melensaggine, la rassegnazione con cui i più subivano la
tirannia. La melensaggine di sempre, la rassegnazione di sempre, d'accordo, la
stessa che all'occorrenza è in ciascuno di noi, vorrei ma non posso tengo famiglia
capisci, e che tuttavia, quando la tocchi con mano perché la vedi negli altri, ti fa
impazzire. Poi lo squallore di quella casa che di piacevole non aveva che il
giardino di aranci e limoni, ma in giardino non volevi andarci per via del tipo che
ci spiava dalla finestra sicché stavamo sempre tappati nelle brutte stanze dove le
porte a vetri annullavano il concetto stesso di privacy, ogni stanza aveva almeno
due porte, alcune ne avevano tre: attraverso quei vetri sentivi sempre due occhi
che fissavano barbari e astiosi, materni. E le piccole noie che, alleggerito l'incanto
d'un amore agli esordi, quindi spenta l'adattabilità, t'accorgi di non saper
sopportare: il puzzo del pollaio nel retrocucina, le galline che durante il giorno ci

assordavano coi loro starnazzi, il gallo che al levar del sole ci spaccava i timpani
coi suoi chicchirichì. Detestavo quel gallo il cui bisavolo, imbalsamato, trionfava
in sala da pranzo con le pupille di vetro e la cresta di cera. Guardarlo mi aiutava
a ripetere con te: Bisogna andare a vedere se è pronto. Hai chiamato per chiedere
se è pronto? Chiedi di nuovo se è pronto.
Nella speranza di affrettare le cose e contando sul fatto che il tuo telefono fosse
controllato, mi dedicavo a piccoli trucchi come chiamare New York e fingere che
un gruppo di università americane ti avesse invitato a tenere un ciclo di
conferenze. Un amico con cui m'ero messa d'accordo sosteneva il ruolo dell'agente
letterario incaricato di sollecitare la tua partenza e, quando non telefonavo io,
telefonava lui protestando perché la data si avvicinava e bisognava stampare i
manifesti, spedire gli inviti, avvertire i giornali, rassicurare il corpo accademico
nonché i sindaci delle città che avrebbero dato un pranzo in tuo onore. Quando
non si trattava d'un ciclo di conferenze, si trattava d'una laurea ad honorem che
nella tua infinita modestia esitavi ad accettare e poi accettavi, ma come risolvere
il problema del passaporto? Il passaporto non esisteva, non te lo avevano ancora
concesso, rispondevo sospirando, e allora voci adirate chiamavano anche da
Chicago, da Boston, da Filadelfia, presentandosi come rettori, funzionari del
municipio, esponenti del partito democratico o repubblicano, altri amici
tuonavano la loro indignazione. Insomma, che le autorità greche mettessero in
imbarazzo la cultura americana con un rinvio delle tue conferenze era già grave,
ma che la insultassero con la tua assenza forzata dalla cerimonia per la consegna
della laurea ad honorem era vergognoso, solo in Russia accadevano simili scempi;
se il passaporto non ti fosse stato consegnato ed in tempo, i senatori avrebbero
sollevato uno scandalo internazionale. Di quali senatori si trattasse, di quali
università, di quale laurea non lo dicevamo mai per timore che i servizi andassero
a controllare: per la cosa diventava sempre più credibile e due anni dopo
avremmo saputo che essa aveva influito sulle decisioni di Papadopulos. La
faccenda dei senatori americani preoccupò non poco i suoi consiglieri ti avrebbe
confidato un ufficiale dei servizi segreti. E va da se che il mio trucco non ti
divertiva per niente, ti deprimeva anzi in crisi di sconforto acuto e più telefonavo
più ti arrabbiavi, ti maledivi dicendo che rinunciare al piano dello yacht era stata
un'imbecillità, che non avresti atteso nessun passaporto, che se te lo avessero
dato lo avresti respinto e saresti scappato attraverso la Iugoslavia: se ti beccavi

una pallottola in testa, tanto meglio. La crisi peggiore avvenne la notte in cui
annunciasti che entro mezzogiorno avresti preso un treno per Ezvonis, e fu allora
che tua madre si piegò a un armistizio coi santi messi da parte per san Fanurio.
A tutti accendendo lumini, a tutti promettendo devozione perpetua, giurò che se
ti davano il passaporto non li avrebbe più rimproverati. Ed uno, commosso, la
accontentò. Al sorgere dell'alba fummo svegliati da un ciabattare nel corridoio:
era lei che preparava la tua valigia.
Le chiedemmo perché e la risposta giunse categorica: san Cristoforo, patrono dei
viaggiatori, le era apparso in sogno.
Sulla testa aveva una corona di stelle, in pugno una spada di fuoco, e la sua
tonaca sfolgorava con tale vivezza che al solo ripensarci le bruciavano gli occhi.
Levando la spada di fuoco san Cristoforo le aveva sorriso e poi le aveva svelato
che il passaporto era pronto: potevi ritirarlo all'apertura degli uffici e lasciare il
paese prima che il sole calasse. Ci stringemmo nelle spalle. Se san Fanurio
l'aveva imbroccata col certificato di nascita, perché san Cristoforo avrebbe dovuto
essergli da meno? Andiamo. Andammo, il passaporto c'era davvero. E mentre lo
ghermivi con avide dita, l'unico commento fu: Che ore sono? Le nove e mezzo.
Quando c'è un aereo per Roma?. Alle due del pomeriggio. .Vai tu a comprare il
biglietto? Sì. Solo andata? No, andata e ritorno.
Mi sentivo leggera come un uccello che se ne va aliando nello spazio aperto, e
ogni bruttezza mi sembrava dimenticata.
Ogni nausea, ogni affanno. Il domani aveva i colori dell'arcobaleno. Sorridevo
correndo sotto quell'arcobaleno e la gente si girava a guardarmi stupita, ma
appena ebbi in mano il biglietto tutto questo svanì. Era un semplice biglietto, un
cartoncino rettangolare col nome della compagnia, eppure toccarlo mi incuteva
un misterioso disagio: l'indefinibile angoscia del giorno in cui ero sbarcata ad
Atene per incontrarti. perché? Il colore forse? Aveva un colore verde mela, lo
stesso verde mela delle scatolette di tabacco Golden Virginia. Cercai di non
pensarci, saltai su un taxi dicendomi che a vivere coi superstiziosi si impara la
superstizione, il taxi si diresse svelto verso via Vouliagmeni e per qualche minuto
tornai ad essere contenta. Poi raggiunsi via Vouliagmeni, fui dinanzi al garage con
la scritta Texaco, la botola nera che scendeva giù verso il buio, e il misterioso
disagio riapparve. L'indefinibile angoscia. perché avevo tanto caldo? Possibile che
facesse tanto caldo in ottobre? Forse mi stava venendo la febbre, ero stanca. La

crisi notturna con la minaccia di recarti a Ezvonis, la sveglia mattutina impostaci
da san Cristoforo, la consegna inattesa del passaporto, la partenza improvvisa: al
solito troppe emozioni insieme. E con questa diagnosi misi a tacere gli
interrogativi, entrai in casa, ti porsi il biglietto: Eccolo.
Non vogliono lasciarci partire. La tua voce era un sibilo greve di sdegno. perché lo
dici? perché sento puzzo d'aglio.
Devono esserci almeno venti poliziotti intorno a noi. Mi guardai intorno ma non
vidi nulla che giustificasse l'affermazione.
La sala d'attesa dell'aeroporto aveva l'aspetto di sempre, viaggiatori che
sonnecchiavano stravaccati sulle poltrone, bambini che correvano su e giù
disturbando, gruppi turistici che acquistavano souvenirs, e nessuno che facesse
pensare a un poliziotto in borghese. Aglio o non aglio, hanno qualcosa, i poliziotti
in borghese, che a un occhio esercitato non sfugge mai.
Qualcosa che si concentra nel volto allo stesso tempo ottuso ed astuto, e nelle
pupille vuote eppure attente. Voglio dire: te le senti addosso quelle pupille anche
se gli volti le spalle, neanche fossero mani che premono sulla tua nuca. E se ti
volti, le cerchi, eccole lì che fuggono via scivolando, falsamente distratte, poi
tornano caute, passandoti sopra con indifferenza, quasi tu fossi un oggetto
trascurabile o un ostacolo sulla traiettoria dello sguardo, per v'è sempre un
momento in cui rinunciano alla commedia per fissarti con l'arroganza sciocca e
maligna di chi ha il bastone in mano, di chi si crede un potere perché serve il
potere. Io non li vedo, Alekos.. Non hai ancora imparato a riconoscerli? Quello è
un poliziotto in borghese.
E quello. E quello. E quello. Da che cosa lo deduci?! Dalle scarpe. Portano tutti le
scarpe coi lacci. Compreso il giovanotto in blue jeans. Osservai i tipi che avevi
indicato. Avevano l'aria innocua e distratta di chi si occupa delle proprie
faccende, e portavano tutti le scarpe coi lacci. Hai ragione, per non capisco come
potrebbero impedirci di partire. Abbiamo già superato il controllo passaporti e
abbiamo le nostre carte d'imbarco: se avessero voluto fermarci, lo avrebbero fatto
prima.
Prima c'erano i giornalisti. Anche questo era vero. La notizia della tua partenza
aveva immediatamente raggiunto i giornali e, fino al controllo passaporti,
eravamo stati protetti dai reporter che ci fotografavano, ci ponevano domande,
registravano ogni particolare: se ci avessero fermato prima, dinanzi a simili

testimoni, ne sarebbe derivata una gran pubblicità. Sì ma continuo a non capire
come potrebbero impedircelo, Alekos. Lo capirai molto presto. E, mentre dicevi
così, l'altoparlante annunci che il volo per Roma era pronto, i passeggeri erano
pregati di presentarsi all'uscita numero due. Ci avviammo. Ci mettemmo in fila.
Fummo sulla soglia dell'uscita numero due.
Porgemmo le carte d'imbarco. Una hostess impaurita ci spinse indietro. No, voi
no. Noi no? perché no? Indietro. Indietro? perché indietro? E le porsi di nuovo le
carte d'imbarco. In un baleno i tipi dalle scarpe coi lacci si fecero avanti e, mani
in tasca, labbra serrate, ci circondarono a corolla: sordi alle mie proteste.
Abbiamo già completato le formalità! I nostri documenti sono in ordine! Silenzio.
E nostro diritto salire sull'aereo!. Silenzio. E nostro diritto conoscere i motivi di
tale esclusione!. Silenzio. Io sono una cittadina straniera: se perdiamo l'aereo
informerò la mia ambasciata e il mio governo! Silenzio. Poi la tua voce, quel sibilo
greve di sdegno. Non discutere. Non si discute mai con la merda. Den sizitàs. Den
sizitàs me skatà. Un poliziotto tolse la mano dalla tasca e accennò il gesto di
gettarsi contro di te. Attento, Alekos! Ma non c'era bisogno di raccomandazioni:
un controllo straordinario ti irrigidiva, una freddezza simile a quella che ci aveva
salvato sulla strada per Heraclion quando venivamo colpiti dall'automobile blu.
Cosa dobbiamo fare, Alekos? Non c'è
nulla da fare fuorché veder chi la vince: Joannidis o Papadopulos. La hostess
impaurita, intanto, continuava a ritirare le carte d'imbarco degli altri passeggeri
che ci sfilavano davanti disinteressati o neutrali. Vorrei ma non posso tengo
famiglia capisci. Nel giro di cinque minuti non restammo che noi, chiusi dentro la
muta corolla di scarpe coi lacci.
Cinque minuti, dieci, quindici, venti. E ogni minuto una stilettata nel cuore, il
supplizio di Tantalo che muore di sete e tende la bocca verso la cascata dell'acqua
ma l'acqua svanisce proprio nell'attimo in cui egli si accinge a berne un sorso.
L'aereo stava lì, a pochi metri, stava quasi dinanzi all'uscita numero due,
visibilissimo oltre la vetrata, aveva lo sportello ancora aperto e la scaletta ancora
agganciata: sarebbe bastato varcare quella soglia, percorrere quei pochi metri, per
salire a bordo ed essere in salvo. Invece no, voi no. Passò un funzionario della
compagnia aerea. Lo bloccai, gli chiesi se il comandante teneva la scaletta
agganciata e lo sportello aperto per aspettarci. Rispose in un sussurro sì, per
quanto a lungo avrebbe potuto farlo? Gli chiesi se il divieto di farci imbarcare era

definitivo. Rispose sempre in un sussurro no, si incrociavano le telefonate, si
litigavano fra loro, poi sorpreso dalla sua audacia, si allontanò. Venti minuti,
venticinque, trenta. Il funzionario riapparve. Tenetevi pronti. Stanno parlando
con la presidenza della Repubblica. Se di lì ci autorizzano, vi imbarchiamo subito
e preveniamo contrordini. Contrordini? Ce ne sono già stati tre... Un momento! Il
suo walkie talkie lampeggiava. Glielo vidi portare all'orecchio, annuire, dirigersi
verso i poliziotti, discuterci col tono dell'io che c'entro, poi tornare verso di noi
paonazzo, afferrare le nostre carte d'imbarco, mormorare: Svelti! Via! E, quasi
senza che ce ne rendessimo conto, ci trovammo sull'aereo: a guardare lo steward
che serrava lo sportello. Ce l'abbiamo fatta, Alekos! Forse.
perché forse? perché non ha ancora acceso i motori. Non li aveva accesi davvero,
e non li accendeva. perché? Nell'attesa, nella domanda, il tempo riprese a stillare.
Cinque minuti, dieci. Dieci minuti, quindici. Quindici minuti, venti. Venti minuti,
venticinque. L'aria condizionata non funzionava, la gente rumoreggiava:
Insomma, basta! Vergogna! Venticinque minuti, trenta. Trenta minuti,
trentacinque. Trentacinque minuti, quaranta. Era giunto il contrordine?
Sicuramente. Dal finestrino si scorgevano due poliziotti intenti a litigare col
funzionario che ci aveva fatto imbarcare con tanta fretta, e lui allargava le braccia
desolato. Ti strinsi una mano. Era così sudata che sgusci nella mia come unta.
Ma tutto il tuo corpo grondava sudore. Grosse gocce colavano giù dalla fronte,
dalle tempie, dal mento, e inzuppando la camicia allargavano gore di umidità
sulla giacca. Per il caldo o per la tensione che il tuo apparente controllo celava?
Non riuscivi nemmeno a parlare. Vedrai che ora parte, Alekos. Uhm! Non
oseranno farci scendere. Uhm! Sarebbe davvero uno scandalo. Uhm!D'un tratto,
con uno schianto glorioso, i motori rombarono, l'aereo si mosse, scivolò via
leggero, raggiunse la pista dove si arrestò fremendo un fremito che crebbe. E
crebbe, e crebbe, per diventare un tuono. E tonando si lanciò nella corsa, salì a
tuffarsi nel gran cielo azzurro. Subito Atene fu una geografia di minuscole case,
alberi piccoli come capocchie di spillo, una macchia grigia, il ricordo d'una notte
d'agosto col suo profumo di gelsomini. Tirasti un gran respiro e dicesti, tono: Una
volta ho inculato un generale. Cosa?! balbettai. E non me ne pento. Mi dispiace
solo di non averlo mai raccontato a Joannidis. Poi ti accasciasti chiudendo gli
occhi.

Quando li riapristi, volavamo sul golfo di Corinto. Levasti il bicchiere di
champagne che la hostess aveva portato e: Ho guadagnato una vita / un biglietto
per la morte / e viaggio ancora / In certi momenti / ho creduto d'essere giunto /
alla fine del viaggio / Mi sbagliavo / Erano solo imprevisti / del cammino. Sembra
una poesia dissi. Lo è. Una vecchia poesia scritta a Boiati due anni fa, quando
scadde il termine per fucilarmi. Tre anni durava quel termine.. Ma è una poesia
triste! Ogni proroga è triste quando sai che è una proroga. Sopraggiunsero due
caccia, neri e inquietanti come due insetti. Per circa un minuto rimasero a fianco
del nostro aereo tenendosi all'identica altezza e all'identica velocità, neanche
fossero lì per scortarci, poi virarono sulla sinistra, lasciando due nastri di fumo
bianco, quasi due giganteschi interrogativi, e tornarono indietro. Ma ormai la
tensione era svanita e, inebriato dallo champagne, dimentico della triste poesia,
avevi ritrovato te stesso. Resistenza armata sui monti, assalti alle caserme,
stazioni radio per incitare il popolo alla rivolta: i mille progetti che in Europa
avresti potuto attuare. Non riuscivo a chetarti. A un certo punto per ci non fu che
il suono della tua bella voce e la parola proroga proroga proroga prese il posto di
ciò che dicevi: chiarendo il misterioso disagio, l'indefinibile angoscia che mi aveva
colto alla vista del biglietto color verde mela. Non sarebbe cambiato nulla in Italia,
in Europa. Non avresti sofferto meno, non avresti rischiato meno.
Lo avevi ben detto quel pomeriggio dopo il viaggio a Creta: Io sarò sempre
scomodo a chiunque: in qualsiasi paese, in qualsiasi momento, in qualsiasi
regime. Ovunque tu fossi andato, insomma, saresti rimasto l'incatalogabile pianta
che nasce per portare scompiglio nel bosco e quindi va sradicata, estirpata.
Qua o là t'avrebbero eliminato, alla fine. E non per ci che volevi fare, la resistenza
armata sui monti, gli assalti alle caserme, le stazioni radio per incitare il popolo
alla rivolta: per ciò che eri, per la tua singolarità di poeta ribelle, libero da
qualunque freno, qualunque schema, qualunque tabù, dal medesimo concetto di
lecito e illecito, per la tua irripetibilità di eroe solitario, aggrappato alle chimere
del sogno e dell'immaginazione. Il poeta ribelle, l'eroe solitario, è un individuo
senza seguaci: non trascina le masse in piazza, non provoca le rivoluzioni. Però le
prepara. Anche se non combina nulla di immediato e di pratico, anche se si
esprime attraverso bravate o follie, anche se viene respinto e offeso, egli muove le
acque dello stagno che tace, incrina le dighe del conformismo che frena, disturba
il potere che opprime. Infatti qualsiasi cosa egli dica o intraprenda, perfino una

frase interrotta, un'impresa fallita, diventa un seme destinato a fiorire, un
profumo che resta nell'aria, un esempio per le altre piante del bosco, per noi che
non abbiamo il suo coraggio e la sua veggenza e il suo genio. E lo stagno lo sa, il
potere lo sa che il vero nemico è lui, il vero pericolo da liquidare. Sa addirittura
che egli non può essere rimpiazzato o copiato: la storia del mondo ci ha ben
fornito la prova che morto un leader se ne inventa un altro, morto un uomo
d'azione se ne trova un altro. Morto un poeta, invece, eliminato un eroe, si forma
un vuoto incolmabile e bisogna attendere che gli dei lo facciano resuscitare.
Chissà dove, chissà quando.
Ma allora portarti via dalla Grecia non serviva a nulla e quella fuga era veramente
una proroga. Un tentativo disperato per tenerti in vita più a lungo possibile.
Parte terza CAPITOLO I
La tragedia di un uomo condannato ad essere un poeta, un eroe, in quanto tale a
venir crocifisso, si misura anche dalla incomprensione di chi per amore vorrebbe
sottrarlo al suo destino e al suo ruolo: ad esempio distraendolo con le insidie
della tenerezza, le lusinghe dell'agiatezza, il miraggio d'una vittoria raggiungibile
con un meritato riposo. Chi lo ama, infatti, non è disposto a regalarlo alla morte e
pur di salvargli la vita, allungargliela un poco, ricorre a qualsiasi arma, qualsiasi
stratagemma. In quel senso nessuno t'avrebbe mai compreso meno di me,
nessuno più di me avrebbe tentato di sottrarti al tuo destino e al tuo ruolo. E
questo soprattutto al nostro arrivo in Italia quando non ero ancora rassegnata al
fatto che la sfida perpetua fosse il tuo pane, il pericolo fisso la tua bevanda,
sicché privo di quel pane e di quella bevanda appassivi come un albero
senz'acqua e senza luce. Tu lo capisti appena fummo nella suite dell'albergo che
avevo scelto a Roma, ne facesti nulla per nascondermi d'averlo capito. Entrasti,
esaminasti attentamente le tre stanze e la terrazza aperta su via Veneto, i mobili
di classe, i tappeti di pregio, i lampadari di cristallo, poi ti fermasti dinanzi alla
bella cesta di fiori che stava sul tavolo insieme a un canestro di frutta e un
secchiello col vino in ghiaccio, e: I fiori sono per te o per me? Per te. La frutta è
per te o per me? Per te. Il vino è per te o per me? Per te.
E tutto per te, Alekos. Uhm. Vedo. Seguì un gran silenzio.
Pesante, immobile. E in quel silenzio sedesti, caricasti la pipa, l'accendesti, per
levare infine una voce colma di tristezza. Sai, una notte a Boiati feci un sogno.

Sognai di trovarmi in un albergo simile a questo. No, non simile: uguale. Uguali i
mobili, i tappeti, i lampadari, la terrazza. Sì, c'era anche la terrazza. E la cesta dei
fiori, il canestro di frutta, la bottiglia di vino.
E la donna che mi ci aveva portato diceva: "Per te. E tutto per te, Alekos". Ma io
mi sentivo infelice. Non era molto chiaro all'inizio perché mi sentissi infelice:
l'albergo era bello e mi piaceva molto. Però presto diventava chiaro: mi sentivo
infelice perché avevo le manette. Strano. Quand'ero andato a dormire, Zakarakis
me le aveva tolte. Nel sogno invece c'erano ancora, e stringevano. Stringevano
tanto che non riuscivo a stappar la bottiglia. A un certo punto cadeva per terra e
si rompeva. Allora scappavo dall'albergo gridando: skatà, merda, skatà! E
rientravo nella mia cella dove non avevo manette. Sorrisi e ti porsi la bottiglia del
secchiello: Aprila, oggi non cadrà. La prendesti, la sollevasti fino all'altezza della
tua testa, e poi la lasciasti cadere sul parquet di legno dove si ruppe con uno
schianto. Skatà! Merda! Skatà! La tragedia di un uomo condannato ad essere una
creatura incatalogabile, quindi estranea alla fenomenologia del tempo in cui vive,
si misura inoltre dalla crudeltà involontaria di chi gli attribuisce un personaggio
che non è il suo e di conseguenza lo gratifica di consigli, critiche, ammonimenti,
premurose domande che lo fanno soffrire. Chi lo guarda infatti non sospetta
nemmeno la sua vera natura e lo vede attraverso gli occhiali di formule
collaudate: i cliché che per convenienza o malafede o pigrizia furono usati per
fargli il ritratto. Di volta in volta, il ritratto del dinamitardo, del martire, del
rivoluzionario, del leader. In quel senso nessuno sarebbe mai stato crudele come
coloro che nelle prime ore del tuo arrivo a Roma ti piombarono addosso coi baci,
gli abbracci, le esclamazioni benvenuto fra noi benvenuto, gloria, alleluia. Curiosi,
spesso, gente cui non importava nulla di te e che ti cercava soltanto perché eri
una conoscenza da sbandierare, oppure demagoghi che si ritenevano tuoi
creditori perché al tempo del processo avevano indetto un comizio o partecipato a
un corteo di protesta. Di rado persone che ti volevano veramente bene, amici del
periodo trascorso in Italia, compagni. Per anche quest'ultimi ti vedevano sempre
attraverso gli occhiali di quelle formule, di quei cliché. Consigli al martire: Basta
coi sacrifici, con la vitaccia. Devi prenderti un lungo riposo, una vera vacanza, e
non pensare a nulla: la tua parte l'hai fatta. Mangia, bevi, dormi, divertiti.
All'inferno la politica, non sarai mica qui per romperti le scatole con la politica?
Domani sera organizziamo un cenone. Ammonimenti al dinamitardo: Attento a

chi incontri, attento a chi parli, guai a legarsi col gruppo sbagliato, e al prossimo
colpo non usare le mine, le mine ti combinano scherzi. E poi sono pesanti,
scomode, meglio il plastico usato dai palestinesi. Dovresti andare in Libano e
allenarti un po coi palestinesi. Critiche al rivoluzionario: Che bella cravatta, che
bella camicia. Ti tratti bene, eh? A proposito, perché sei sceso a quest'albergo?
Non ti si addice, ci scendono i divi, e Kissinger e lo scià di Persia: cosa
penseranno le classi lavoratrici, cosa penserà il popolo? Devi lasciarlo
immediatamente. Vieni a casa mia che mettiamo un divano nel corridoio.
Domande al leader: Cosa intendi fare, quali programmi hai, in quale modo intendi
rivolgerti alle masse? Bisogna che tu chiarisca la tua impostazione ideologica,
devi capire che combattere una dittatura non basta, rifarsi al problema della
libertà non è sufficiente. perché non convochi una conferenza stampa? perché
non scrivi un saggio? E neanche un cane che si preoccupasse di chiederti cos'eri
venuto a fare, a cercare. D'un tratto perdesti il controllo. Stavi ascoltando uno di
quelli col ritratto del rivoluzionario che deve dormire sul divano nel corridoio,
questa è una reggia, non puoi stare in una reggia così, stai dimenticando chi sei
cosa rappresenti, e la pazienza con cui lo avevi subito ora tacendo e ora
masticando monosillabi avari sfumò in una scenata. Che la piantassero tutti, che
la smettessero di rubarti i coglioni, nella tua reggia ci saresti rimasto quanto ti
sarebbe piaciuto, e ti saresti anche comprato ventiquattro camicie di seta,
ventiquattro impermeabili inglesi, ventiquattro paia di scarpe con la fibbietta:
fuori! Per subito dopo scoppiasti in un pianto così disperato che dimenticai
perfino la bottiglia rotta di proposito e l'urlo skatà, merda, skatà. Io parto
singhiozzavi parto, torno ad Atene, torniamo ad Atene.
La tragedia di un uomo condannato ad essere solo perché è scomodo a tutti e non
serve a nessuno si misura infine col deserto che egli deve affrontare quando esce
dal suo ambiente naturale, la politica vista come sogno, ed entra in quello per lui
innaturale della politica intesa come mestiere o setta religiosa. Questo lo avresti
capito fino in fondo undici mesi dopo, rientrando in patria, per l'apprendistato lo
facesti al tuo arrivo in Italia. Vanesi guidati soltanto dalla ricerca del loro
personale trionfo, carrieristi interessati soltanto ai vantaggi privati d'un seggio in
Parlamento, bottegai preoccupati soltanto di riempirsi le tasche con le mance,
decrepiti avanzi sigillati nel sarcofago delle loro estinte virtù, nel caso migliore
santoni scontrosi e arroccati sulla cupa torre del Dogma. E, dall'altra parte, gli

avventurieri della disubbidienza facile, i cultori del fanatismo sanguinoso, i
cialtroni per cui la parola rivoluzione è un chewingum da tenere in bocca, un
pretesto per combatter la noia, un sostituto della Legione Straniera. Ecco il
panorama politico che si presentò ai tuoi occhi quando, superato lo choc di
sentirti ammanettato da me ed equivocato dagli altri, andasti in cerca di aiuti per
continuare la resistenza contro la Giunta. Lo stesso che voler discutere
l'immortalità dell'anima con un branco di sordomuti. Eppure ci provasti. Ti
mettesti a telefono e incominciasti a chiamare i capi dei partiti verso cui nutrivi
qualche speranza: socialisti, comunisti, repubblicani, cattolici di sinistra. Pronto,
sono Panagulis. Chi? Panagulis, Alessandro Panagulis. Alekos. Vorrei parlare col
compagno Tal dei Tali. A che proposito? Be'... io... vorrei... salutarlo.
Non c'è, è in riunione. Provi domani. No, domani no, è festa, c'è il ponte. Fra
qualche giorno. Pronto, sono Panagulis. Taraguli?. No, Panagulis. Panagulis
Alessandro. Alekos. Vorrei parlare con l'onorevole Tal dei Tali. Intende dire il
signor ministro!..Ah! Non sapevo. Sì, il signor ministro. Il signor ministro non si
può disturbare. Allora gli lascio un messaggio, così mi chiama appena può.
Guardi che il signor ministro ha cose importanti da fare, problemi gravissimi. Se
dovesse richiamare tutti quelli che lo cercano! Pronto, sono Panagulis. Parla più
forte, non si capisce nulla. Chi sei? Panagulis, Alessandro Panagulis. Che, sei un
compagno? Sì.... Sei russo? Sento un accento. No, sono greco. E che vuoi?. Vorrei
parlare col segretario generale. Ah, ma se tu sei greco bisogna che ti passi l'ufficio
Esteri. O non si facevano trovare, o ti informavano d'essere molto occupati a
risolvere i problemi del genere umano, o ti rinviavano ai luogotenenti dei loro
luogotenenti. Il che non serviva a nulla fuorché a ricevere affettuosissime pacche
sulle spalle. Caro Alekos, caro Alessandro, che gioia rivederti, che onore
incontrarti. Ma in fondo alle loro pupille tremava una specie di interrogativo: che
ne faccio di questo qui? Come lo adopero? finché eri un fucilando, un
ergastolano, un uomo in catene, gli andavi benissimo: ovvio. Gli fornivi un
pretesto per recitar la commedia dell'impegno internazionale, provocare un po di
bordello.
Ora che eri libero, invece, ben pasciuto, ben alloggiato, che se ne facevano di te?
E poi cosa volevi? perché chiedevi di incontrare i responsabili? Meglio evitargli
questa rottura di scatole, prenderla larga, stancarti con l'attesa d'essere ricevuto.
Ad ascoltarti, in quei giorni, non furono che tre vecchi.

Il primo fu Ferruccio Parri, l'uomo che aveva guidato la Resistenza nell'Italia del
nord. E parlarci ti fece bene, ti sollevò in un'alta marea che sommerse le tue
delusioni, il ritornello domani torno ad Atene, voglio tornare ad Atene, torniamo
ad Atene. Infatti con lui sarebbe nata un'intesa profonda, perfino strana data la
differenza d'età, e non ti saresti mai stancato di raccontare il giorno in cui l'avevi
conosciuto, spaventandoti all'inizio perché non ne vedevi il volto. Parri aveva
ottantatre anni a quel tempo, gli acciacchi e non so quale malanno alla spina
dorsale lo piegavano in due come un pino torto dal vento, e anche se stava in
piedi di lui non si scorgeva che un paio di pantaloni neri, una giacchetta nera,
una matassa di capelli ondulati color dell'avorio. Niente volto. Non pago di ciò, e
con l'umorismo dei vegliardi che si divertono a prendersi in giro, esasperava
questa sua infermità accartocciandosi più del necessario, ritardando più del
necessario l'attimo in cui avrebbe alzato finalmente la testa, mostrato finalmente
il suo volto. Bianco, secco, imbizzarrito da baffi e sopracciglia d'un assurdo
marrone, e illuminato da occhi che erano fiammate di sarcasmo, pinzature d'elfo
dispettoso. Quel giorno era successo lo stesso. Subito per il sarcasmo s'era sciolto
in dolcezza, e mentre le mani scarne si levavano ad accarezzarti le guance, il
mento, la bocca, Parri aveva esclamato: Ragazzo mio, ragazzo mio. Hai fatto bene
a lasciare la Grecia, hai fatto proprio bene. Ora sì che potrai organizzare la lotta,
ricominciare daccapo. Siedi, ragazzo mio, siedi qui accanto a me: ho tante cose da
chiederti. E la prima è: cosa posso fare per te? Bisogna aiutarti, sei così solo.. Del
resto ti fece bene anche parlare col secondo vecchio, Sandro Pertini, allora
presidente del Parlamento. Anche con lui avresti stabilito un'intesa che sarebbe
durata fino alla tua morte, e avresti narrato spesso il sollievo provato quando era
schizzato in piedi per venirti incontro: piccolo e segaligno, nervoso, stranamente
simile a te negli scatti di festosità e malumore improvviso, identico anche il modo
di reggere e fumare la pipa. Bravo, Alekos, bravo. Hai preso una decisione saggia
a stabilirti in Italia, troveremo bene il modo di darti una mano a fare la resistenza
armata.
Anch'io, dopo esser stato tanti anni in prigione, feci lo stesso.
Resistenza armata, sì, non esiste altra via. Parlava, parlava. Ti incoraggiava, ti
incoraggiava. E l'alta marea cresceva, cresceva.

Ma poi ci fu l'incontro col terzo vecchio, Pietro Nenni. Andammo a trovarlo nella
sua casa di Formia, e la marea si abbassò di colpo, svegliandoti, lasciando sulla
spiaggia della tua coscienza pesci morti, alghe secche, catrame. I detriti, la realtà.
Lo vedo ancora mentre ti scruta dietro le doppie lenti da miope, neanche un
muscolo che si muova a spostare la ragnatela di rughe che dal volto di cuoio si
estende fino alla gran testa calva, immobile e inaccessibile come la mummia di
un faraone, disincantato come un antichissimo saggio che non si meraviglia più
di nulla perché ha visto tutto, conosce ormai tutto, e forse non crede più a nulla.
Ti ha accolto con un abbraccio lungo e un suono roco: Alessandro.. Ti ha baciato
due volte, commosso, per subito dopo s'è assiso sulla poltrona dall'alta spalliera,
una specie di trono, e ha incominciato a studiarti con la freddezza dello scienziato
che al microscopio analizza un esemplare di grande interesse. Non allude al
passato, a ciò che hai sofferto, non dice se è bene o male che tu abbia lasciato la
Grecia, ti pone domande pratiche e precise.
Quanto durerà Papadopulos? Quanto impiegherà a defenestrarlo, Joannidis?
Sarà meglio o sarà peggio un cambio di guardia? E su quale percentuale di
ufficiali si regge la Giunta? Tu gli stai di fronte, sprofondato in un divano troppo
morbido che ti imbarazza, e gli rispondi pesando ogni parola eppure senza
entusiasmo. Non hai voglia di dare notizie, vuoi portare il discorso dove ti preme,
e alla fine ci riesci: Solo con la resistenza armata si può sconfiggere la Giunta.
Resistenza armata? ripete Nenni. Egli sa che la resistenza armata è impossibile,
però sa anche che dirtelo non servirebbe, così tace e ti ascolta continuando a
studiarti. Sembra che rincorra un pensiero, un'idea che gli sfugge, poi ad un
tratto s'accende ed esclama, rivolto a me: Mi fa ricordare un ragazzo di Torino che
amavo molto, un socialista che morì nella guerra civile spagnola. Si chiamava
Fernando De Rosa. Veramente più che socialista era anarchico. Proprio come lui.
Come lui fece un attentato che fallì, quello al principe Umberto di Savoia, quando
Umberto andò a Bruxelles per fidanzarsi con Maria Jose.
Gli sparò e lo mancò. Poi venne in Spagna, si arruolò nelle armate combattenti, e
andò al fronte: Morì quasi subito: una pallottola in testa. Era il 1936. Sì,
assomiglia a De Rosa sebbene De Rosa fosse biondo e avesse gli occhi azzurri. La
stessa aria trasognata e ombrosa, la stessa impazienza. E lo stesso coraggio, la
stessa purezza. Un sussurro, mentre la ciliegia allo zigomo sinistro si infiamma e
un rossore paonazzo ti brucia gli orecchi: Che dice?! Sta dicendo che assomigli a

Ferdinando De Rosa, un socialista anzi un anarchico che morì nella guerra di
Spagna. Lui lo amava molto. Anarchico?Sento che vorresti replicare qualcosa ma
il gran vecchio continua a parlare: di utopia, di realismo, di dubbio. Quel dubbio
che assale, ad esempio, quando ci si chiede se abbiano ragione gli uomini come te
e come De Rosa oppure coloro che come lui agiscono in nome del buon senso e
del raziocinio; quel dubbio che tormenta quando l'intelligenza avvelena
l'ottimismo della volontà e ci si accorge che gli uomini non corrispondono all'idea
dell'Uomo, che il popolo non corrisponde all'idea del Popolo, che il socialismo non
corrisponde all'idea del Socialismo, e si scopre che essere lucidi vuol dire essere
pessimisti. Qui si fermò e: Ma su queste cose avrai tempo di meditare anche tu,
ora che sei in esilio. A proposito: anch'io, sai, sono stato in esilio durante il
fascismo. Tredici anni! In esilio a Parigi e nel sud della Francia, nell'Auvergne.
Era la prima volta che qualcuno usava nei tuoi riguardi la parola esilio. Nessuno
l'aveva pronunciata in quei giorni. Esilio. Nessuno aveva riassunto con tanta
chiarezza, con tanto candore, la realtà della tua presenza in Italia. Esilio. E non
esisteva concetto o vocabolo che tu aborrissi di più. Esilio.
Cercai di nascosto i tuoi occhi. Erano velati di dolore, di umiliazione, di rabbia:
isolato in te stesso, ferito a morte, non ascoltavi nemmeno i nomi e gli indirizzi
che Nenni ti dava.
Gente che t'avrebbe aiutato: almeno lo sperava. E quasi subito mormorasti che
era tardi, che bisognava andare. Andammo.
Per l'intero viaggio di ritorno a Roma dormisti. O fingesti di dormire? perché
quando giungemmo all'albergo sollevasti di colpo le palpebre, scendesti svelto
dall'automobile, corresti svelto all'ascensore, e cinque minuti dopo un urlo
scuoteva le tre stanze: Il mio biglietto! Corsi in camera e tutti i nostri indumenti
erano rovesciati per terra, sulle sedie, sul letto: ogni giacca, ogni paio di
pantaloni, aveva le tasche rovesciate.
Erano aperte anche le mie borse, e i miei fogli sparpagliati ovunque: sembrava
che fosse passato un ciclone. Ti guardai sbalordita: Il biglietto? Che biglietto? Il
mio biglietto di ritorno! Era andata e ritorno, sì o no? Sì, era andata e ritorno.
perché?. perché ho perso il biglietto di ritorno! dov'è?!?.
Calmati, non puoi averlo perso. Lo tenevi nel portafoglio e talmente incastrato che
non poteva scivolare via. Cercalo meglio, cerchiamolo di nuovo. L'ho cercato e
ricercato! Non c'è! Non preoccuparti, lo troverai. Tanto per ora non ti serve, non

devi mica correre ad Atene. Cos'hai detto? Ho detto che tanto ora non ti serve,
che non devi correre ad Atene. Ho capito! L'hai preso tu! Me l'hai rubato! Hai
rubato il mio biglietto di ritorno! Per impedirmi di partire! Per tenermi qui in
esilio! Tu vuoi che stia in esilio! In esilio! Io non ho rubato nulla. Se hai perso il
biglietto non hai che informare la compagnia aerea e fartene dare una copia. Io
non ti tengo in esilio, sei padrone di partire anche subito. Poi, indignata, mi
chiusi nell'altra camera e soltanto al mattino mi accorsi che non eri andato a
letto. Avevi dormito per terra, vestito. perché così dorme un uomo in esilio e non
in vacanza. Anzi un uomo stanco di se stesso, che ha bisogno di ritrovare se
stesso. Apparivi pentito, affranto. Ti perdonai. Ma quel biglietto non si sarebbe
ritrovato più e non avrei mai saputo se lo avevi perso davvero oppure se avevi
inscenato una commedia istrionica, magari dopo averlo distrutto, per
neutralizzare l'impulso di correre all'aeroporto e rientrare immediatamente ad
Atene.
Qualcosa che, al solito, da una parte volevi e dall'altra no.
La Toscana è bella d'autunno. Puoi camminare lungo sentieri che hanno il
profumo dei funghi e delle ginestre, ascoltare le voci del vento che chiama dai
poggi orlati di cipressi e di abeti, pescare le anguille nei borri dove il torrente
rotola sui sassi scivolosi di borraccina, andare a caccia di lepri e di fagiani nelle
macchie di erica rossa, ed è tempo di vendemmia, l'uva si gonfia violetta tra i
pampini fitti, i fichi pendono dolci dai rami che fremono di fringuelli e di allodole,
nei boschi le foglie si accendono di giallo e di arancione bruciando il monotono
verde d'estate. Se ti senti stanco di te stesso e hai bisogno di ritrovare te stesso,
lavarti dei dubbi, non c'è posto migliore della Toscana d'autunno: andiamo in
Toscana, ti dissi. Venisti, e la vecchia casa sulla collina non era mai stata
incantevole come quell'autunno. L'edera l'aveva fasciata in fiammate di rosso che
si arrampicavano fino alle finestre del secondo piano e ai merli della torretta, i
rosai erano inaspettatamente sbocciati in un tripudio primaverile, e così il glicine
che dalla ringhiera del terrazzo prorompeva in cascate di tenero azzurro. Era
fiorito anche il corbezzolo dinanzi alla cappella, bacche di porpora su cui i merli si
gettavano ingordi, e nella vasca le ninfee galleggiavano bianche, superbe. Tu per
vi gettasti un'occhiata di indifferenza e poi ti confinasti in una reclusione che
escludeva ogni interesse o curiosità. Per giorni e giorni non uscisti quasi mai. Non
ti inoltrasti mai tra i filari di viti per cogliere un chicco d'uva, non ti recasti mai

nel bosco per respirare l'aria odorosa di ginestre e ammirare il paesaggio dalla
cima del crinale. Solo una volta ti spingesti trenta metri oltre il cancello per
scoprire, sorpreso, che le castagne maturano dentro un involucro irto di aculei e
le noci dentro una buccia chiamata mallo, e un'altra scendesti in giardino per
notare con raccapriccio che nella vasca delle ninfee c'erano i pesci e per chiedere
se nella cappella c'erano i morti.
Ma il particolare che mi sconcertava di più era un altro: sebbene la casa fosse
grandissima, piena di scale, di porte da aprire, di stanze da scoprire, oggetti da
guardare, libri da leggere, te ne stavi sempre nella medesima stanza a
sonnecchiare con le persiane chiuse e la luce elettrica accesa. Quando non
sonnecchiavi, camminavi su e giù, su e giù, i soliti tre passi avanti e tre passi
indietro, oppure giocherellavi col koboloi, oppure ascoltavi la musica, fluttuando
in un letargo. Ti senti male, Alekos?..Io? Io no. Allora perché non esci, perché
tieni sempre le persiane tappate e la luce elettrica accesa? Spengi le lampade,
lascia entrare il sole! No, il sole no. Mi disturba, mi distrae.. Ma è proprio di
distrarti che hai bisogno! Via, facciamo una passeggiata. No, la passeggiata no,
mi stanca. Restiamo qui, vieni qui, accanto a me. Alekos, ma vivere così è lo
stesso che vivere in prigione! Per questo mi piace. Non te l'ho mai detto quanto è
libero un uomo in prigione? L'ozio gli permette di riflettere finché vuole,
l'isolamento gli permette di piangere o ruttare o grattarsi finché gli pare, nel
mondo aperto invece può riflettere soltanto nelle pause che gli consentono gli
altri. E piangere è una debolezza, ruttare una sconcezza, grattarsi una
sconvenienza. Dunque è questo che fai qui dentro: piangere, ruttare, e grattarti?
No. Io qui lavoro.
Lavori?! Quale lavoro? Penso. Tu non pensi, dormi. Ti sbagli..
Non riuscivo neanche a farti arrabbiare. Come nubi spazzate da un libeccio
improvviso, le tue irritabilità erano scomparse. E così le crisi di angoscia, gli
attacchi di collera. Al loro posto stagnava una specie di abulia, o una quieta
pigrizia che a me sembrava abulia, e da questa emergevi soltanto a intervalli
precisi per sollecitazioni precise. Per esempio all'ora di pranzo e di cena quando
sedevi a tavola e mangiavi di appetito, bevevi di gusto, addirittura scherzavi:
Cantiamo insieme: "Ah, se il mare fosse vino e le montagne cacio pecorino!"
Oppure quando scrutavi tra le fessure delle finestre in cerca di Lillo, un bastardo
nero e ribelle, e scoprivi che era legato, ti precipitavi a slegarlo: Nemmeno un

cane si umilia con le catene! Vai, Lillo, scappa! Oppure dopocena quando cercavi
di ricordare le poesie che a Boiati avevi salvato accatastandole nel magazzino
della memoria, e teso nello sforzo, con occhi semichiusi e la fronte aggrottata, le
inseguivi come lucciole palpitanti nel buio. Infatti appena un verso ti tornava alla
mente strillavi proprio la gioia di un bambino che ha acchiappato nel buio una
lucciola: L'ho presa, l'ho presa! Dopo le traducevamo, litigando perché pretendevi
di usare in italiano vocaboli inesistenti, questa parola non esiste, se non esiste io
la invento, e il battibecco deteriorava in piccole risse che si placavano la notte
quando mi cercavi sotto la coperta trapunta. Ma erano anche queste scintille
rubate dentro la cenere dell'inerzia e al mattino ricominciava l'apatico impigrire
nel letto, l'indolente ciondolare per la stanza con le persiane tappate e la luce
elettrica accesa. Apri almeno le imposte, lascia che entri il sole! No. Esci di casa,
muoviti un poco! No. Vuoi un libro, vuoi leggere? No. Ma cosa fai qui al buio?
Lavoro..Quale lavoro? Penso. Tu non pensi, dormi! .Sbagli. sicché, alla fine, la
mia perplessità naufragava nella noncuranza, mi allontanavo dicendomi di non
poter consacrare ogni minuto dell'esistenza all'analisi delle tue metamorfosi e
delle tue bizzarrie, oltretutto io lavoravo veramente, con fretta convulsa
completavo un libro che avevo interrotto per venire ad Atene, e m'era difficile
accettare la tesi che l'ozio nutre l'ingegno. A volte invece mi preoccupavo perché
notavo cose allarmanti: le poesie che pescavi nel pozzo della memoria, ad
esempio, erano quasi tutte poesie sulla morte. Quando ravvivi nel pensiero i morti
/ non scordare che vissero anche loro / pieni di sogni e di speranze / proprio
come i vivi ora / Dalla stessa strada che percorri essi passarono / e andando non
pensavano alla tomba... Oppure: Tutto è morto / e ci che vedi agitarsi / non lo
credere vivo / Il vento trascina l'immondizia / la fa muovere / ma soltanto
muovere / non vivere / Tutto quello che vedi agitarsi / è morto / Sono cose morte
/ morte e ancora soffrono... Quasi ci non bastasse, c'era quella canzone che ti
ossessionava, una canzone piena di brio eppure triste, con un ritornello che
sembrava un singhiozzo, e tu la ascoltavi senza stancartene mai: le labbra piegate
in una smorfia che non si capiva se fosse ironica o dolorosa. Quando ti avevo
chiesto perché ti piacesse tanto, mi avevi risposto: perché dice qualcosa che non
devo dimenticare. Che cosa? I zoì ine micrì.
Polì, polì, polì micrì. La vita è breve. Molto, molto, molto breve.. Del resto anche la
tua intesa con Lillo era un'intesa di morte. Me n'ero convinta il giorno in cui egli

era quasi finito sotto un'automobile perché lo avevi slegato, e tra noi s'era svolto
quel battibecco: perché lo hai slegato?! Non è per cattiveria che lo tengo legato!
Non vedi che odia le automobili e che quando è slegato gli corre incontro per
morderle? Vuoi che muoia schiacciato da un'automobile?! Risposta: se vuole
morire schiacciato da un'automobile è suo diritto. Non puoi negargli tale diritto.
L'amore non è metter catene alla gente che vuole battersi e che è pronta a morire
per questo, l'amore è lasciarla morire nel modo che ha scelto. Ecco un'altra verità
che non riesci a comprendere. Poi avevi girato sui tacchi e a passi grevi, lenti, te
n'eri andato sulla torretta per rimanervi fino a tardi ad ascoltare il silenzio
cantato dai grilli. Come un mistico rapito nella contemplazione del proprio io.
Eppure Atene bruciava in quei giorni. E lo sapevi. Proprio la settimana in cui
eravamo venuti in campagna, migliaia di dimostranti avevano sfilato per le strade
e le piazze della città gridando abbasso i tiranni, abbasso Papadopulos, vicino al
tempio di Zeus gli scontri con la polizia erano stati violentissimi: pietre, bottiglie
Molotov. La polizia aveva sparato e decine di dimostranti erano stati feriti, decine
e decine arrestati; nuovi processi erano in vista, nuove condanne. Sapevi anche
che i dimostranti avevano gridato il tuo nome, finalmente usandolo senza paura.
Dunque perché te ne stavi sfingeo ed immobile ad ascoltare il silenzio cantato dai
grilli come un mistico rapito nella contemplazione del proprio io? perché ti
chiudevi in quell'isolamento tenebroso da cui ti snidavi solo per amarmi sotto la
coperta trapunta, o per ricordarmi che la vita è breve, molto molto molto breve? Ti
accingevi a strappare il guinzaglio col quale ti avevo legato per impedire che tu
finissi sotto le ruote di un'automobile, oppure la tua anima era così stanca da
accettare le catene e non reagire nemmeno al richiamo di chi si batteva invocando
il tuo nome? Bisognava trovar la risposta, anzi qualcuno a cui tu la confidassi. E
proprio allora, con l'inspiegabile logica che spesso slega i nodi della vita, sulla
casa in cima alla collina giunse un cinquantenne dal volto docile e guardingo,
l'aspetto educato e prolisso, un che di rassicurante negli occhi intrisi di pazienza
e forse di bontà.
Si chiamava Nicola, ed era colui che al tempo del Politecnico, cioè quando t'aveva
aggredito la passione politica, aveva subito per primo la seduzione del tuo
personaggio affidandoti incarichi nel fronte della gioventù socialista da lui
presieduta.

Era anche colui che eri venuto a cercare in Italia dopo aver lasciato Cipro col
passaporto falso di Gheorgazis, e colui che nel periodo in cui preparavi l'attentato
aveva creduto maggiormente in te diventando il tuo consigliere, il tuo protettore,
dividendo con te la fame, le amarezze, l'attesa del giorno in cui avresti sistemato
le mine sulla strada di Sunio. Me ne avevi parlato più volte, ogni volta con un
rispetto che sfiorava la deferenza, questo anche se ti divertivi a sottolineare la sua
avversione al rischio e la sua meticolosità pignolesca, il bianco fazzoletto che
piegato a tre punte sbucava dal taschino della giacca blu, e t'eri sempre
rammaricato di non averlo ancora rivisto perché abitava a Zurigo. Nicola è l'unico
di cui mi fidi perché è l'unico che mi conosca. Giunse, quindi, e il suo arrivo
spalancò le porte della tua reclusione, ruppe le dighe della tua abulia. Di colpo
uscisti a camminare pei campi, nei boschi, scopristi la voglia del sole, e ti
ravvivasti in una loquacità così torrenziale che l'assillo in cui m'ero afflitta
scomparve. Ma appena gli chiesi di che cosa gli andavi parlando, mi si piegarono
le gambe per lo sgomento.
Follie. Pure, semplici, autentiche follie. Rientri clandestini, attacchi alle caserme,
resistenza armata: da solo. Dice che anche qui nessuno lo ascolta, nessuno lo
aiuta, che soltanto tre vecchi lo hanno ricevuto, e quindi farà tutto da solo e se lo
ammazzano pace. Però che piani precisi, curati fino ai minimi particolari! Ma
quando li ha architettati, Nicola? Dove? Dove? In questa casa, in questi giorni,
quando lei credeva che sonnecchiasse o giocherellasse col koboloi. E invece
lavorava sul serio, programmava le sue follie col rigore di un matematico. E il suo
sistema, lo è sempre stato. Io credevo che pensasse alla morte: parlava sempre di
morte. Certo: ciascuno di quei piani, compiuto senza un partito, senza
un'organizzazione alle spalle, è un suicidio. E lo sa. Il semplice fatto di rientrare
in Grecia ora sarebbe un suicidio. Lo ritengono l'istigatore delle sommosse e... lo
ammazzerebbero come un cane. Rientrare in Grecia ora?. Sì, s'è messo in testa di
rientrare il 17 novembre: l'anniversario della sua condanna a morte.
Senza dirmelo! Evidente. Ad Atene non aveva segreti per me. Ad Atene non aveva
capito che lei mira soltanto a tenerlo vivo, tenerlo al sicuro. Ora l'ha capito e, il
giorno in cui partirà, la coglierà di sorpresa. Uscirà dicendo che va a comprare un
pacchetto di sigarette e invece andrà in Grecia. Oppure provocherà un litigio per
fingersi offeso, dare un senso alla sua fuga e... poche ore dopo sbarcherà ad
Atene con un passaporto falso. .Non ce l'ha. Lo troverà, lo troverà. Ha provato a

dissuaderlo? Ovvio. Gli ho ricordato che un agnello pronto a immolarsi non basta,
gli ho illustrato i motivi per cui le attuali sommosse non approderanno a nulla e
saranno soffocate nel sangue, gli ho detto che la storia non si ripete e il suo ruolo
oggi è cambiato: è sfruttare la popolarità di cui dispone per agire all'estero. Ma se
gli consigli di fare una cosa è quando non la fa, se gli consigli di non farla è
quando la fa, e dissuaderlo non serve che a intestardirlo. Esiste un solo mezzo
per distrarlo da un'idea: insinuargliene un'altra che egli ritenga sua e che lo inviti
alla sfida. In che modo è riuscita a portarlo in Italia? Più o meno così. Ci riprovi,
lo cacci in qualche nuovo puntiglio, lo porti lontano.
Distrarti da un'idea, cacciarti in qualche nuovo puntiglio, condurti lontano, il più
lontano possibile. Dove? Dall'altra parte del globo terrestre, in America! Lo avrei
fatto, gli dissi.
Ma, dicendolo, non tenni conto d'una realtà. V'è una cosa che il tremendo
Leviatano, il gran mostro autoelettosi campione di democrazia, l'America, ha in
comune con le tirannie di destra e di sinistra. E questa cosa è lo Stato forte,
arrogante, spietato, sorretto dalle sue leggi manichee, dalle sue regole mutilanti,
dai suoi interessi spietati, dal suo timore anzi dal suo odio per le creature che
non rappresentano una massa, per gli individui che nel suo computer non
corrispondono a una scheda precisa, a un codice di conformismo, a una religione.
I reprobi soli.
Il reprobo solo non esce e non entra, a lui non si dà ne il passaporto per uscire
dalle frontiere della tirannia, ne il visto per entrare nelle frontiere del gran mostro
autoelettosi campione di democrazia. Proprio perché è solo, perché non ha alle
spalle un partito, un'ideologia, quindi un potere che garantisca per lui.
Paradossalmente, i dissidenti che lasciano l'Unione Sovietica non sono reprobi
soli: dietro di loro c'è una casistica, c'è la dottrina dell'opposta barricata, il
tornaconto del Leviatano per cui essi sono merce di scambio, moneta da spendere
in nome degli equilibri mondiali. Io ti d un Corvalan e tu mi dài un Bukovski. Io ti
restituisco la spia X o Y e tu mi lasci andare un Solgenitzin. Non perché mi prema
mettere in salvo la sua persona, ma perché il suo cervello mi serve a dimostrare
che tu sei cattivo e che il suo caso è emblematico.
Dietro un don Chisciotte che non serve a nessun potere, invece, che non fa
comodo a nessuna barricata, che rompe le scatole a tutti, che non appartiene a
nessun conformismo ne organizzazione, che va a metter la bomba col taxi guidato

dal cugino, che di conseguenza agisce secondo la sua morale e basta, la sua
fantasia e basta, i suoi pazzi sogni e basta, chi c'è? Quale Stato garantisce per lui,
interviene per lui, quale politica? Rientra forse nella casistica, lo si può forse
usare come merce di scambio, moneta da spendere in nome degli equilibri
mondiali? Mancando lo scambio, capisci, il Leviatano dovrebbe trattare con lui. E
il Leviatano non tratta con gli individui, in particolare con gli individui privi di
scheda. Tratta con gli altri Stati, le altre dottrine, le altre religioni, al massimo coi
partiti che sono Stato dentro lo Stato. E meglio se sono partiti dell'opposta
barricata. Se non sei almeno comunista, caro mio, l'America non ti vuole.
Comunista o fascista o socialista o buddista, insomma un ista che obbedisca a
un'autorità costituita, un uomo massa che sia catalogabile, incasellabile,
prevedibile, commerciabile, non una particella aberrante che rappresenta soltanto
se stessa, che nel computer non corrisponde a una scheda precisa, sicché a
interrogarlo i suoi ingranaggi si inceppano. Teodorakis c'entrava in America:
siccome era comunista, cioè catalogato e incasellato e garantito, per di più
musicista noto alle folle, dunque un peso da gettare sul piatto della bilancia, a lui
glielo avevano dato il permesso di entrare in America... E, senza ricordare tutte
queste cose, senza tener conto di questa realtà, inoltre distratta dall'eterna
illusione che il Leviatano sia un mostro in fondo bonario e mai dimentico d'esser
nato da reietti, da reprobi soli, non pensai nemmeno che ti rifiutassero il visto: mi
posi l'unico problema di spingerti a chiederlo.
Alekos, devo andare in America. Star via due o tre settimane. In America?! Per
due o tre settimane? Sì, purtroppo.
Peccato che tu non possa venire con me. Mica in vacanza, intendo dire: a
prendere contatti, cercare appoggi. Appoggi in America? Con un presidente che si
chiama Nixon e un ministro degli Esteri che si chiama Kissinger e una Cia che
consegna il Cile a Pinochet, che fa assassinare Allende? Stai forse scordando chi
aiutò Papadopulos, chi lo protegge, chi ha maggior interesse a vederlo dov'è? No,
Alekos, no, ma l'America non è sempre Nixon o Kissinger o la Cia: io conosco più
disubbidienti in America che in Europa. E che ti piaccia o no, devi ammetterlo:
un mucchio di idee nuove nascono lì. E muoiono lì prima che altrove. Quelli sono
disubbidienti che non contano nulla, che non ottengono nulla, che non
influiscono per nulla sulle decisioni dei Nixon e dei Kissinger e della Cia. Che non
impediscono guerre ingiuste, alleanze luride, purghe, cacce alle streghe.

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